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| << | < | > | >> |Pagina 9Il signor Haneda era il capo del signor Omochi, che era il capo del signor Saito, che era il capo della sognorina Mori, che era il mio capo. E io non ero il capo di nessuno.Si potrebbe dire diversamente. Io ero agli ordini della signorina Mori, che era agli ordini del signor Saito, e così di seguito, con la precisazione che gli ordini verso il basso potevano saltare i gradini della scala gerarchica.
Per cui, alla Yumimoto, io ero agli ordini di tutti.
L'8 gennaio 1990 l'ascensore mi sputò all'ultimo piano dell'edificio Yumimoto. La finestra in fondo all'atrio mi risucchiò come fosse l'oblò infranto di un aereo. Lontano, molto lontano, c'era la città - tanto lontana che mi sembrava di non averci mai messo piede. Non pensai neanche che avrei dovuto presentarmi in segreteria. A dire la verità, per la testa non mi passava nessun pensiero, nient'altro che l'attrazione per il vuoto, per quella vetrata. Finalmente una voce rauca pronunciò il mio nome alle mie spalle. Mi girai. Un uomo sulla cinquantina, piccolo magro e brutto, mi guardava con aria seccata. - Perché non ha avvertito la segretaria del suo arrivo? - mi chiese. Non trovai niente da rispondere e non risposi niente. Abbassai testa e spalle constatando che, in una decina di minuti, senza avere neppure aperto bocca, avevo già fatto cattiva impressione, e proprio il giorno della mia entrata alla Yumimoto. L'uomo mi disse di chiamarsi Saito. Mi condusse per molte sale immense, dove mi presentò a orde di persone di cui dimenticavo i nomi via via che li pronunciava. Mi portò poi nell'ufficio del suo capo, il signor Omochi, enorme e spaventoso, il che provava che era il vicepresidente. Dopodiché mi mostrò una porta e mi annunciò con aria solenne che, dietro, c'era il signor Haneda, il presidente. Evidentemente di incontrarlo non se ne parlava neppure. Infine mi guidò in una sala sterminata dove lavoravano una quarantina di persone. Mi indicò il mio posto, proprio di fronte a quello del mio diretto superiore, la signorina Mori. La quale era in riunione e mi avrebbe raggiunta nel primo pomeriggio. Il signor Saito mi presentò brevemente alla compagnia. Poi mi chiese se amavo le sfide. Era chiaro che non avevo il diritto di rispondere negativamente. - Sì - dissi. Fu la prima parola che pronunciai alla Yumimoto. Fino ad allora mi ero limitata ad abbassare la testa. | << | < | > | >> |Pagina 16Quest'umile compito si rivelò il primo strumento della mia caduta.Una mattina, il signor Saito mi comunicò che il vicepresidente riceveva nel suo ufficio l'importante delegazione di un'azienda amica: - Caffè per venti persone. Entrai dal signor Omochi con il mio grande vassoio e fui più che perfetta: servii ogni tazza con studiata umiltà, salmodiando le più raffinate formule d'uso, abbassando gli occhi e inchinandomi. Se esisteva una medaglia al merito dell' ochakumi, avrebbero dovuto conferirmela. Molte ore dopo la delegazione se ne andò. La voce tonante dell'enorme signor Omochi gridò:
- Saito-san!
Vidi il signor Saito alzarsi con un balzo, impallidire e correre nell'antro del vicepresidente. Le urla dell'obeso risuonavano al di là dei muri. Non si capiva cosa dicesse, ma il tono non era gentile. Il signor Saito tornò, il viso sconvolto. Provai per lui una stupida ventata di tenerezza pensando che pesava un terzo del suo aggressore. Fu allora che mi chiamò, furibondo. Lo seguii in un ufficio vuoto. Mi parlò con una collera che lo rendeva balbuziente: - Lei ha profondamente turbato la delegazione dell'azienda amica! Ha servito il caffè con formule di cortesia che lasciavano intuire la sua perfetta conoscenza del giapponese! - Beh, non lo parlo tanto male, Saito-san. - Stia zitta! Con quale diritto si difende? Il signor Omochi è molto arrabbiato con lei. Ha creato un'atmosfera detestabile nel corso della riunione di stamattina: come avrebbero potuto sentirsi a loro agio i nostri partner con una bianca che capiva la loro lingua? A cominciare da adesso, lei non parla più il giapponese. Sgranai gli occhi: - Prego? - Lei non conosce più il giapponese, chiaro? - Ma se è proprio per la mia conoscenza della vostra lingua che la Yumimoto mi ha assunta! - Non importa. Da adesso le ordino di non capire più il giapponese. - Impossibile. Nessuno può ubbidire a un ordine del genere. - C'è sempre il modo di ubbidire. E i cervelli occidentali dovrebbero capirlo, una buona volta. "Ci siamo," pensai prima di ribattere. - Il cervello nipponico è probabilmente capace di dimenticare una lingua. Il cervello occidentale non ne ha facoltà. Questo argomento stravagante gli parve accettabile. - Ci provi, comunque. Faccia finta, almeno. Ho ricevuto degli ordini per quanto la riguarda. Siamo intesi? Il tono era secco e brusco. | << | < | > | >> |Pagina 48Cominciò così uno degli incubi peggiori della mia vita. Dall'istante in cui mi venne assegnato questo nuovo compito, la nozione di tempo scomparve dalla mia esistenza per lasciare spazio all'eternità del supplizio. Mai, ma proprio mai, mi capitò di ottenere non dico un totale identico, ma almeno paragonabile a quello che avrei dovuto verificare. Per esempio, se il dirigente aveva calcolato che la Yumimoto gli doveva 93.327 yen, a me veniva 15.211 o 172.045.E fu evidente molto presto che gli errori dipendevano da me. Alla fine della prima giornata, dissi a Fubuki: - Non credo di essere capace di svolgere questo compito. - Eppure si tratta proprio di un lavoro che sollecita l'intelligenza - replicò, implacabile. - Non ne vengo a capo - confessai con tono lamentoso. - Si abituerà. Non mi abituai. Risultò chiaro che ero assolutamente incapace di fare quelle operazioni, nonostante i miei sforzi accaniti. La mia superiore si impadronì del classificatore per dimostrarmi quanto fosse facile. Prese un fascicolo e si mise con folgorante velocità a digitare i numeri sulla calcolatrice senza avere neanche bisogno di guardare la tastiera. In meno di quattro minuti, concluse: - Ottengo lo stesso totale del signor Saitama, quasi al centesimo. E appose il suo timbro sul fascicolo. Soggiogata da questa nuova ingiustizia della natura, ripresi il lavoro. A me non bastavano dodici ore per arrivare a quello che Fubuki liquidava in tre minuti e cinquanta secondi. Non so quanti giorni fossero passati, quando notò che non avevo ancora archiviato nessun fascicolo. - Neanche uno! - esclamò. - Già - dissi, in attesa del castigo. Per mia sfortuna, si limitò a indicarmi il calendario: - Non dimentichi che il classificatore deve essere a posto per la fine del mese. Avrei preferito che si mettesse a urlare. Altri giorni passarono. Ero all'inferno: cicloni di numeri con virgole e decimali mi colpivano in piena faccia. Nel mio cervello si mutavano in un magma opaco senza che riuscissi più a distinguerli. Un oculista mi certificò che la mia vista non era chiamata in causa. Le cifre, di cui avevo sempre ammirato la tranquilla bellezza pitagorica, divennero mie nemiche. Anche la calcolatrice ce l'aveva con me. Tra i miei handicap psicomotori c'era anche questo: quando usavo una tastiera per più di cinque minuti, la mia mano si ritrovava all'improvviso impastata come se l'avessi tuffata in un purè di patate denso e appiccicoso. Quattro delle mie dita erano irrimediabilmente immobilizzate; solo l'indice riusciva ancora a emergere per raggiungere i tasti, con una lentezza e un'inettitudine incomprensibili per chi non scorgesse le invisibili patate. E dato che, oltre tutto, a questo fenomeno si sommava la mia rara stupidità di fronte alle cifre, lo spettacolo che offrivo davanti alla calcolatrice doveva avere qualcosa di sconcertante. Cominciavo a guardare ogni nuovo numero con lo stesso stupore che doveva provare Robinson incontrando un indigeno sull'isola sconosciuta; poi la mia mano impedita cercava di riprodurlo sulla tastiera. A tal fine la mia testa compiva continui va e vieni tra la carta e lo schermo, per assicurarmi di non aver smarrito per strada una virgola o uno zero, e il fatto più curioso era che queste verifiche minuziose non mi impedivano affatto di lasciarmi sfuggire errori colossali. Un giorno, mentre battevo penosamente sulla tastiera, alzai gli occhi e vidi la mia superiore che mi osservava costernata. - Qual è il problema? - mi domandò. Per rassicurarla, le confidai la sindrome del purè di patate che mi paralizzava la mano. Credevo che questa storia mi avrebbe resa simpatica. L'unico risultato della mia confidenza fu la conclusione che lessi nello sguardo stupendo di Fubuki: "Ormai ne sono certa: è proprio una minorata mentale. Ora tutto si spiega." | << | < | > | >> |Pagina 61Fubuki, invece, non era né Dio né il Diavolo: era una giapponese.Non tutte le giapponesi sono belle. Ma quando una è bella, le altre devono reggersi forte. Ogni bellezza è struggente, ma la bellezza nipponica è ancora più struggente. Prima di tutto perché quella carnagione lattea, quegli occhi soavi, quelle inimitabili ali del naso, quelle labbra dai contorni così marcati, quella dolcezza complicata dei tratti bastano a eclissare i volti meglio riusciti. Poi perché le sue maniere la stilizzano, facendo di lei un'opera d'arte inaccessibile all'umano intendimento. Infine e soprattutto perché una bellezza che ha resistito a tanti corsetti fisici e mentali, a tante costrizioni, soprusi, divieti assurdi, dogmi, asfissia, desolazione, sadismo, cospirazioni del silenzio e umiliazioni - una bellezza del genere è un miracolo di eroismo. Non che la Giapponese sia una vittima, tutt'altro. Tra le donne del pianeta non è certo la più sfavorita dalla sorte. Il suo potere è notevole: so quel che dico. No, se bisogna ammirare la Giapponese (e bisogna farlo) è perché non si suicida. La cospirazione contro il suo ideale comincia in tenerissima età. Le ingessano il cervello: "Se a venticinque anni non sei ancora sposata, hai di che vergognarti", "se ridi, non sei fine", "se il tuo viso esprime un sentimento, sei volgare", "se menzioni l'esistenza di un pelo sul tuo corpo, sei immonda", "se un ragazzo ti bacia sulla guancia in pubblico, sei una puttana", "se mangi con piacere, sei una scrofa", "se provi piacere a dormire, sei una vacca". Precetti del genere sarebbero ridicoli se non ti si conficcassero dentro. Perché, in fin dei conti, ciò che si trasmette alla Giapponese attraverso questi dogmi insensati è che non bisogna sperare in niente di bello. Non sperare di godere, perché il piacere ti annienterà. Non sperare di innamorarti, perché non vali abbastanza: quelli che ti ameranno lo faranno per i tuoi miraggi, mai per la tua verità. Non sperare che la vita ti porti qualcosa, perché ogni anno che passa ti leverà qualcosa. Non sperare in una cosa semplice come la tranquillità, perché non hai nessuna ragione per startene in pace. Spera di lavorare. Visto il tuo sesso avrai poche possibilità di arrivare in alto, ma spera di servire la tua azienda. Lavorare ti farà guadagnare dei soldi dai quali non trarrai nessuna gioia, ma da cui potrai eventualmente trarre dei vantaggi, per esempio in caso di matrimonio - perché non sarai tanto stupida da supporre che qualcuno possa volerti per il tuo valore intrinseco. A parte questo, puoi sperare di vivere a lungo, cosa che in sé non ha nulla di interessante, e di non conoscere il disonore, cosa che invece ha un fine in sé. Qui si ferma la lista delle tue speranze lecite. E comincia la serie interminabile dei tuoi doveri sterili. Dovrai essere irreprensibile, per la semplice ragione che non si può fare altro. Essere irreprensibile ti porterà solo a essere irreprensibile, non sarà motivo di orgoglio e tanto meno di voluttà. Non è possibile enumerare tutti i tuoi doveri, perché non esiste attimo della tua vita che non sia dominato da uno di essi. Anche quando sarai chiusa in bagno per dare umile sollievo alla vescica, avrai il dovere di vegliare perché nessuno possa sentire il canto del tuo ruscello: dovrai quindi tirare la catena in continuazione.
Ho fatto questo
esempio per farti capire una cosa: se perfino la sfera più intima e
insignificante della tua esistenza è sottomessa a una regola, figurati quale
sarà la vastità degli obblighi che, a maggior ragione, peseranno sui momenti
essenziali della tua vita.
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