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| << | < | > | >> |IndiceINTRODUZIONE 18 MONDI DI ROCCIA E SABBIA 32 LE FONTI DELLA VITA 86 UN GRANDE CUORE VERDE 192 DOVE LA NATURA È REGINA 240 I SEGRETI DELLE MONTAGNE 308 ORIZZONTI DI CIELO E ACQUA 374 VIVERE IN AFRICA 458 I SEGNI DELLA STORIA 566 |
| << | < | > | >> |Pagina 19"Pietre, questa è la forza dell'Africa!", sibilò Courach, senza voltarsi. Le sue parole mi giunsero nette nel vento, filando leggere attraverso l'aria densa e calda che avvolgeva come un sudarlo le pianure del Kenya settentrionale. Lontano, sull'orlo dell'orizzonte, il lago Turkana appariva come un'irreale linea verde azzurra. La Culla dell'Umanità non è un paese di delizia pietraie senza fine e cinquanta gradi all'ombra, senza un albero a vista. Puro orrore, se ci si cammina in mezzo. Eppure Courach, pastore nomade Rendille cristianemente battezzato Joseph, riusciva a fare della filosofia e a sputare sentenze. "Tu non hai mai visto niente!", risposi irritato. Accecato dal sudore e mezzo morto di sete, cercavo di farmi venire in mente i grandi fiumi africani, le spiagge coralline affacciate sull'Oceano Indiano, le foreste senza fine del Congo e del Camerun. Niente da fare: nella mente c'erano solo le maledette pietre di Courach, bollenti e perfidamente aguzze. Pietre, polverizzate in sabbia, disseminate tra le boscaglie o celate tra i ciuffi di erba gialla, fatte montagne o fondo di lago. Dove non si vedono, le pietre, è perché sono coperte da un esile strato di terriccio: chiedete a un contadino africano e vi saprà dire. Ora, dopo tre decenni di peregrinazioni da un angolo all'altro del continente, posso dire che Courach-Joseph diceva il vero: l'Africa è fatta di pietra. Quel che non è pietra è eccezione, come le oasi sono la conferma del deserto. I geologi possono confermare la teoria: il nucleo principale del continente è costituito da una gigantesca piattaforma di rocce cristalline antichissime, un frammento di Gondwana rimasto praticamente intatto. Piegato, fessurato, eroso dal vento e dall'acqua, questo basamento affiora un po' ovunque, conferendo al continente una morfologia inconfondibile. L'Africa è un susseguirsi di vaste pianure e altopiani, da cui emergono talvolta isolati massicci vulcanici come il Kilimanjaro e il Kenya. Salvo che in prossimità del Capo di Buona Speranza e lungo la costa del Mediterraneo, i paesaggi si ripetono con monotonia ossessiva. Deserto, savana, foresta, fino all'Equatore. Quindi all'inverso: foresta, savana e deserto. Eppure il fascino dell'Africa è proprio in questo infinito, ciclico ripetersi di scenari e ambienti. L'Africa è estrema, incommensurabile, in tutte le sue manifestazioni. In Africa è il Sahara, re dei deserti; in Africa scorre il Nilo, padre di tutti i fiumi; In Africa vivono le ultime grandi popolazioni di animali selvaggi della Terra. In un mondo giobalizzato e asettico, sempre più uguale a se stesso, l'Africa è ancora mistero, imprevisto, carnalità. Osando generalizzare, oltre 6000 differenti gruppi etnici abitano il continente: spesso tribù vicine hanno lingua, costumi e visioni del mondo assolutamente diverse. L'Africa è l'ultimo baluardo della psico-diversità. Nel Sahara, in Egitto, lungo il Nilo e lo Zambesi, sulle sponde dei mari e degli oceani che circondano il continente sono fiorite in passato civiltà illustri: le piramidi di Giza e di Meroe, le rovine di Grande Zimbabwe, le grandi moschee medievali in terra cruda del Mali, le città swahili del Kenya e del Tanzania, sono solo le testimonianze più note di una cultura diffusa e profonda. L'Africa è complicata, sfuggente, incomprensibile: sembra semplice, ma non lo è affatto. Pregiudizio e ignoranza ci impediscono spesso di capirne l'essenza e la forza. Una forza antica e immutabile: quella della pietra, appunto. Courach aveva più ragioni di quanto pensavo, in quel torrido pomeriggio di tanti anni fa, sulle rive del lago Turkana, dove i nostri progenitori divennero per la prima volta Uomini. | << | < | > | >> |Pagina 458Le carte etnografiche dell'Africa sono illeggibili: una giungla irta di migliaia di nomi, che si affannano a definire gruppi, sottogruppi, etnie, tribù e clan. I popoli africani sono così tanti che gli studiosi (senza chiedere il parere degli studiati) sono spesso costretti a mettere insieme il diavolo e l'acqua santa. Così, per ironia della sorte, l'etichetta Turkana serve spesso ad identificare anche i Dodoth, gli acerrimi nemici di sempre. Inoltre le mappe sono immobili, mentre i popoli si muovono, si mescolano tra loro, migrano. A volte spariscono. O resuscitano, come gli El Molo, pescatori del lago Turkana, ridotti a poche centinaia di individui e ormai assorbiti dalla società Samburu, erano sull'orlo dell'estinzione culturale. La morte, se pur virtuale, fa sempre notizia: gli El Molo diventarono di colpo meta di pellegrinaggi antropologici e turistici, scoprendo che farsi fotografare rendeva assai di più che rompersi la schiena a pescare in un lago infestato di coccodrilli. Così ridiventarono El Molo, ritrovando un'identità perduta. Nel rompicapo africano non ci sono punti fermi. Il quadro è in continuo mutamento e le società africane tradizionali si trovano oggi ad affrontare seri problemi di sopravvivenza. Guerre, catastrofi ecologiche, inurbamento di massa, sono molle potenti, in grado di cambiare rapidamente l'ordine delle cose. Eppure, almeno per ora, i vecchi modelli di vita continuano a funzionare. Il nomadismo, ad esempio, sembra ancora essere l'unico modo di sfruttare le terre aride, altrimenti totalmente inservibili. Nomadi per necessità sono tutti i popoli sahariani, uomini delle tende: Tuaregh, Peul, Teou, Mauri, Kababish, Beja, Chaamba, cui si aggiungono gruppi berberi del Marocco meridionale. Un tempo feroci razziatori e signori incontrastati del deserto, sono oggi allevatori di capre, vacche e dromedari. All'attività pastorale i Tuaregh affiancano il commercio del sale, abbondante in Sahara ma raro e prezioso in Africa Nera. Tagliato in grosse barre o pressato in pani, il sale è come un tempo scambiato con beni materiali, datteri, cereali e prodotti agricoli della savana. Il trasporto del sale, se pur su scala ridotta rispetto al passato, è ancora affidato alle carovane. Nelle sconfinate distese sahariane, prive di vie di comunicazione affidabili e punti di rifornimento, il dromedario è più conveniente del camion: non consuma carburante, non ha bisogno di manutenzione e non si guasta mai. Se muore non viene abbandonato lungo il percorso, bensì riciclato in prodotti utili all'economia nomade. Emblema di questo mondo dai confini mutevoli e incerti è la tenda. Forma e dimensione possono variare anche sensibilmente, in relazione all'ambiente e alla ricchezza del proprietario, ma tutte le tende rispondono ai principi della vita errante: grandi o piccole, devono essere smontabili in breve tempo e facilmente trasportabili. La tenda nera dei berberi marocchini può essere caricata, pali di sostegno compresi, su un solo dromedario. Assai più voluminose sono le tende dei Tuaregh, di foggia emisferica e costituite da pelli di capra cucite tra loro: alcune di esse possono ospitare decine di persone. Pastori transumanti sono anche i Masai del Kenya e della Tanzania, i Turkana, i Borana, i Somali e gran parte delle popolazioni che abitano la regione compresa tra il bordo occidentale della Rift Valley, il Corno d'Africa e il Sudan meridionale. Una sorta di nomadismo, se pur su scala ridotta, e quello praticato dai Pigmei del bacino del Congo e dai Boscimani del Kalahari. Entrambi i gruppi sopravvivono grazie alla caccia e alla raccolta di frutti spontanei, la più antica forma di economia. Le loro abitazioni consistono perlopiù in ripari di frasche e altri materiali reperibili in loco. Tutto il resto del continente, moderatamente ricco di acque o comunque non troppo ostile all'insediamento umano, è terra da agricoltura. Estensiva e di piantagione, come in Costa d'Avorio, in Sudafrica e nel Sudan settentrionale; più di sussistenza e legata al ritmo ancestrale delle stagioni. Aìla tenda e al riparo temporaneo subentra la casa, modulo abitativo permanente. In terra cruda o fibre vegetali, a pianta circolare o rettangolare, a volte simile a un piccolo castello, come tra i Somba del Benin: le classificazioni correnti ne individuano una trentina di tipi diversi. La casa africana non è solo un riparo, dove rifugiarsi durante la notte, cucinare e intrattenersi con la famiglia; la sua forma è solo in parte legata alle condizioni ambientali e climatiche. Piuttosto, manifesta le esigenze spirituali del costruttore, è la casa dei vivi ma anche dei morti, degli antenati. In Madagascar, crogiolo di etnie diverse e punto di incontro tra Africa e Asia, l'abitazione è orientata secondo precise regole astronomiche, con la testata del letto sempre rivolta a nord-ovest. La casa Dogon ripete la forma di un uomo seduto: le diverse sezioni rappresentano testa, tronco e arti, mentre l'entra sim olegaia il sesso. La struttura del villaggio, la disposizione delle capanne e dei diversi quartieri, riproducono le gerarchie sociali e allo stesso tempo sono lo specchio del rapporto dell'uomo con l'universo.
Abitare in Africa è affermare la propria appartenenza ad una comunità, ad
uno spazio culturale definito dalla tradizione e da una rete di legami
metafisici con le forze soprannaturali: cioé vivere, mantenendo identità e
dignità, generazione dopo generazione.
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