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| << | < | > | >> |Indice9 Introduzione di Corrado Stajano 17 Incipit 27 PRIMA PARTE I due venerdì del 1969 29 1. Lavorini e Valpreda 48 2. Le veline di Montebelluna 71 3. Gli ultimi cinque minuti 86 4. Un Curcio senza padre 99 SECONDA PARTE Da venerdì 27 giugno 1980 a mercoledì 2 luglio 101 1. Lo stesso giorno di Ustica 113 2. Un amico tra i terroristi 126 3. Ricostruzione di due pranzi 138 4. Quattro killer giornalistici 153 5. Un foglio senza figlio 166 6. La Cia fa buoni prezzi 182 7. Una ciambella per Malizia 195 8. La profezia di Alessandrini 209 TERZA PARTE Da mercoledì 2 luglio 1980 in avanti (e indietro) 211 1. Sciacalli in piazza Maggiore 225 2. Il verbale di Cossiga 240 3. Mistero doloroso di Montanelli 255 4. Le piste comandate 261 5. D'Urso al Mundialito 281 6. Che cosa c'era dietro l'angolo 299 7. Toghe rosse come Brigate rosse 314 8. L'ala destra di Craxi 322 9. Dal Sid al Sudafrica 337 10. Gli scatoloni del Viminale 355 11. Il Bcd e gli Affari riservati 369 12. Giannettini eroe del nostro tempo 375 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 17Eravamo una compagnia di giro, una brigata di pronto intervento, abbiamo tenuto duro per un decennio, i più testardi anche di più, poi ciascuno è tornato nel suo brodo, non siamo mai diventati una lobby, nessuno di noi ha mai indossato l'eskimo, nessuno di noi ha fatto carriera, mentre molti di quelli che indossavano l'eskimo sono diventati direttori, direttori editoriali, editorialisti, commentatori con fotina, savonarola televisivi, vignettisti buoni per tutti i giornali e tutte le stagioni, da Lotta continua al Corriere della Sera, da Repubblica a Cuore, moralisti osannati a destra, a sinistra e al centro, professionisti dell'antidietrologia, in verità fustigatori di tutte le dietrologie degli altri ed esaltatori di una, la propria. In principio ci chiamavano, alla francese, pistards noirs (1969-1972). Fu Giorgio Pisanò a battezzarci così sul suo settimanale, il Candido, che pubblicava una rubrica dal titolo «Stupidario Stampa», con ordine d'arrivo settimanale e classifica generale. Nella classifica individuale il primo ero sempre io. Secondo: Giulio Obici, di Paese Sera. Terzo: Marco Sassano, dell'Avanti!, poi passato al Giorno. Quarto: Guido Nozzoli, anche lui del Giorno. Quinto: Giuliano Marchesini, della Stampa (lo chiamavamo Garibaldi per via della criniera). Sesto: Umberto Zanatta, di Stampa Sera. Settimo: Italo Del Vecchio, della Gazzetta del Mezzogiorno (detto Bronson per la somiglianzà con l'attore). Ottavo: Gian Pietro Testa, del Giorno. Nono: Giorgio Sgherri, dell'Unità. Decimi (a pari merito): Fabio Isman, del Messaggero, Filippo Abbiati, del Giorno e Mario Cicellyn, del Mattino di Napoli (il decano della compagnia, e l'animatore). Seguivano Marco Fini, Ibio Paolucci, Nando Pensa, Adolfo Fiorani, la Marcella Andreoli, e poi Corrado Stajano, Giorgio Bocca, Walter Tobagi, la Camilla Cederna e altri ancora che però si sentivano pistards noirs a mezzo servizio. Nello «Stupidario Stampa» avrebbe meritato un posto Gianni Flamini (futuro autore del Partito del golpe, una specie di enciclopedia di tutte le piste, in sei tomi, oltre duemila pagine), ma Pisanò non prendeva in considerazione i giornali dei vescovi, e Flamini era l'inviato dell'Avvenire, quotidiano cattolico. Sul Candido c'era anche la classifica a squadre (riservata a giornali e settimanali), guidata da noi del Giorno naturalmente. Anni dopo, l'ironia del destino ha voluto scherzarci sopra in modo fin troppo perfido (una specie di beffa) facendo comparire in edicola il nostro vecchio Giorno con una faccia nuova, che era poi la «prima pagina» (tale e quale: stessi titoli, stesse firme, stessi caratteri tipografici) della Nazione di Firenze e del Resto del Carlino di Bologna, fogli che certamente non condividevano le nostre battaglie di allora. Passavamo per cronisti d'assalto, gente un po' matta che si divertiva a fare le pulci ai mattinali della questura, a mettere nei guai gli inquirenti incolpando i neri e chiudendo un occhio sui rossi. Non era vero. Resta il fatto che quando è scoppiata la bomba nella Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano, nel dicembre 1969, abbiamo difeso Valpreda fin dal primo momento non per ragioni ideologiche, ma come cronisti, facendo quelle normali indagini che sono Tabe di una cronaca (e di un mattinale) e che gli inquirenti invece non facevano. La cosa in principio ci incuriosì. Poi ci attrasse. Infine ci indignò. Secondo noi, Pietro Valpreda non era il «mostro di piazza Fontana» come pretendevano la questura di Milano, il governo di Roma, la tivù di Stato (tramite l'esordiente Bruno Vespa) e il Corriere della Sera di Spadolini (tramite Giorgio Zicari, anche lui esordiente). Valpreda era una specie di fornaretto di «porta Cica», porta Ticinese, coinvolto in una macchinazione diabolica, e questa macchinazione, pensavamo, era stata organizzata dai servizi segreti d'accordo con chi voleva che in Italia le cose non cambiassero mai. Noi volevamo invece che le cose cambiassero, a cominciare dal modo di fare la cronaca nei giornali. Odiavamo le veline, cioè le notizie prefabbricate, l'informazione fatta piovere dall'alto. Certo che eravamo sospettosi. Presuntuosi, anche. Cocciuti. Testardi. Arroganti, mai. O quasi mai. Anche tra di noi, certo, allignava sempre qualche tipo intransigente, intollerante, fazioso, che proclamava «con i fascisti non si parla!» e si vantava di non guardarli nemmeno in faccia, i fascisti. Ma questo drappello era minuto, saranno stati tre o quattro, capitanati dalla Tiziana Maiolo, allora rabbiosa giornalista del manifesto. La maggior parte di noi si preoccupava di sentire anche le ragioni di quelli che erano schierati dalla parte contraria alla nostra: ci vantavamo di essere, e di mostrarci, giornalisti «democratici». La televisione, allora, non era così importante, e così arrogante, come sarebbe poi diventata. Chi scriveva sui giornali aveva diritto alla credibilità indipendentemente dalla faccia che aveva, comparisse o meno sugli schermi televisivi. La gente era abituata a leggere, almeno quella che aveva la curiosità di sapere ciò che stava succedendo dietro l'angolo di casa, e perché stava succedendo, e dove ci avrebbe portati. È stato con l'affermazione della tivù privata, commerciale, che si è venuto formando il fenomeno nuovo del giornalista/conduttore/opinionista, interprete, persuasore occulto (o non occulto), predicatore, portatore di verità, giudice. Da allora in poi fu sufficiente comparire tre volte di seguito in televisione (comportandosi come si deve, televisivamente parlando, cioè secondo le regole del gradimento) per essere automaticamente considerati evangelisti da parte dei telespettatori (non più lettori) indipendentemente dalle cose sensate o meno sensate pronunciate, e per essere quindi catturati come firme da sbandierare in prima pagina, con annessa fotina, da parte di quei direttori della carta stampata che erano sempre più preoccupati di vendere il prodotto per fare contento il padrone, e sempre più spaventati da quel coso, da quell'apparecchio, che gli bruciava le notizie sotto il naso. Spaventati e, nello stesso tempo, irresistibilmente attratti. Fu così che le opinioni di quelli che non comparivano in televisione finirono con il contare sempre meno. Finché non contarono più niente del tutto. | << | < | > | >> |Pagina 48Quando scoppia la bomba nella Banca dell'Agricoltura, presidente del Consiglio è Rumor, che viene a Milano e pronuncia la frase fatidica «Sarà fatta giustizia!». Ma giustizia non viene fatta, anzi c'è qualcuno che cerca di coprire tutto, fin dal principio, incolpando Valpreda. Quando Rumor si dimette, alla testa di palazzo Chigi va Colombo, che resiste dall'agosto 1970 al febbraio 1972 (Restivo all'Interno, Tanassi alla Difesa). Poi diventa presidente del Consiglio Andreotti (è la prima volta di Andreotti), un monocolore Dc, con Rumor all'Interno e Restivo alla Difesa. Andreotti succede ad Andreotti con un tripartito di centrodestra (Dc-Pli-Psdi), Malagodi vicepresidente, Rumor ancora all'Interno, Tanassi alla Difesa, Moro agli Esteri. L'Andreotti bis dura un anno preciso preciso, dal 12 giugno 1972 al 12 giugno 1973. È in questo periodo (nel dicembre 1972) che il giudice istruttore di Milano Gerardo D'Ambrosio invia al Sid un fascio di fotocopie di veline misteriose che lui, D'Ambrosio, ha ricevuto dai giudici Stiz e Calogero dopo che l'inchiesta sulle cosiddette piste nere è passata, per competenza, dal Veneto a Milano. Quelle veline Stiz e Calogero le avevano trovate, per caso, un anno prima (dicembre 1971) in una cassetta di sicurezza della Cassa di risparmio di Montebelluna. Il fascio era piuttosto consistente. Si trattava di centosessanta cartelle: perlopiù rapporti informativi sulla sinistra extraparlamentare, con migliaia e migliaia di schede, ma non mancava un elenco di «bande autonome neofasciste». C'erano poi schede con numerazione e stampigliature tali da apparire provenienti da un servizio informativo e riguardanti temi di politica interna e internazionale, con ripetuti riferimenti a organizzazioni dei servizi segreti americani, russi, francesi, tedeschi, rumeni. I documenti più interessanti si riferivano alla situazione politica del 1969. Si parlava apertamente di gruppi di pressione, italiani e stranieri, che volevano provocare la fine del centrosinistra, in Italia, a favore di una formula di centro. Quest'operazione, denominata "ritorno al centrismo", si doveva effettuare in varie fasi. Ma non lontane nel tempo, nel corso di quell'anno, che era il 1969. Ecco, in pratica, cosa bisognava fare. Subito. Primo: operare per la scissione del Partito socialista, con l'uscita della corrente socialdemocratica di Tanassi. In quel momento, socialisti e socialdemocratici erano uniti. Secondo: far vincere la corrente di Flaminio Piccoli al congresso della Democrazia cristiana. Terzo: cambiare i vertici della Rai, acquistare organi di stampa (tramite il gruppo economico Monti). In vista, appunto, di creare un'opinione pubblica favorevole al centrismo. Quarto: incitare l'opinione pubblica, sempre tramite giornali e tivù, a invocare lo scioglimento del parlamento e, quindi, a chiedere nuove elezioni. La nuova maggioranza di centro doveva essere formata dalla Dc, dai socialdemocratici, dai repubblicani. «I liberali dovrebbero essere sostanzialmente d'accordo. Quanto alle estreme, il Msi riceverebbe finanziamenti per appoggiare la soluzione (del resto la sua opposizione al centrosinistra non è di oggi), mentre il Pci sarebbe già d'accordo e si limiterebbe a proteste verbali volutamente inefficaci.» Quinto: promuovere un'ondata di attentati terroristici per convincere l'opinione pubblica che mantenere l'apertura a sinistra fosse pericoloso. «Gruppi industriali del Nord Italia finanzierebbero gruppetti isolati neofascisti per fare esplodere alcune bombe.» Tutte le previsioni contenute nelle misteriose veline di Montebelluna avevano assunto una forma concreta, in tempo brevissimo, nel corso del 1969: si erano realizzate. In parole povere: gli attentati c'erano stati. I vertici della Rai erano cambiati. Il governo era centrista e i giornali erano ossequienti al governo. Prova evidente che chi aveva scritto quelle carte di Montebelluna sapeva il fatto suo. Era certamente uno che aveva le mani in pasta. La cassetta di sicurezza della Banca di Montebelluna, dove le veline erano state trovate, era intestata a una certa signora Maria Greggio, vedova Ventura, un'insegnante elementare di Castelfranco Veneto. Le veline appartenevano a uno dei suoi quattro figli: Giovanni, il primogenito. Chi gliele aveva date?
Giovanni Ventura, al tempo del ritrovamento delle veline, aveva ventisette
anni. Era nato il 2 novembre 1944, in piena Repubblica di Salò, a Piombino Dese
(provincia di Padova), dieci chilometri da Castelfranco Veneto (provincia di
Treviso). Il padre, Domenico (detto Gino), era un commerciante di formaggi, un
ambulante che aveva fatto fortuna battendo i mercati del Padovano, del
Trevigiano e del Rovigotto.
[...]
E così al socialista Franco Comacchio, durante un viaggio in macchina con Giovanni Ventura, un giorno di luglio del 1969: pare di ascoltare una proposta di questo genere: «Se la sente di mettere una bomba sui treni?». In quel momento, in macchina c'erano soltanto loro due: Giovanni Ventura e il Franco Comacchio. Non c'è verso di aver equivocato, d'altronde, perché il Ventura ha anche detto dove bisognava metterla, la bomba: in una toilette di prima classe. E poi ha suggerito: «Perché non confezionare l'ordigno con un congegno a tempo simile a quello delle lavatrici?». Ma il personaggio, che fa parte anche lui di quel giro e che viene colto da autentico terrore, è un ragazzo di Rossano Veneto, Ruggero Pan, il quale ha soltanto due preoccupazioni: lavorare e studiare. Sennonché un giorno gli era arrivata una cassetta che lui credeva piena di libri e, invece, i libri non ci sono. Ci sono armi. Un tranello? Se è un tranello, è già scattato. Ormai il giovanotto di Rossano Veneto fa parte del giro. Come nelle migliori congreghe mafiose. Pan strepita. Oltretutto, è uno cui piace studiare la Bibbia. Ma i manigoldi, che sono poi Freda e Ventura, lo avvertono che «le cose stanno precipitando». E che non si azzardi quindi a liberarsi delle armi che gli sono state affidate. «Ci rivediamo qui fra tre giorni!» gli dice Freda, con un tono che a Pan non piace per niente. «Indietro non si torna, altrimenti...» Quando i giudici trevigiani (e anche padovani) cominciano a interessarsi delle strane, misteriose, attività di Giovanni Ventura, gli abitanti di Castelfranco sono tutti concordi nel prendere le distanze, dandone un giudizio decisamente negativo: «Xè un musòn. Noi castellani non siamo musoni. Lo sa lei quand'è nato? È nato il giorno dei morti, il 2 novembre. Ventura è sempre stato un estraneo, per Castelfranco. Difàti, xè manco trevisàn. Xè padovàn...». Sentendosi rifiutati a Castelfranco, i Ventura tornano quindi molto spesso a Piombino Dese, soprattutto d'estate. Ci tornano come i padroni che tornano in colonia. A Piombino Dese, rispetto a Castelfranco, ci sono tutti i crismi e tutte le insegne del potere, in villa non manca nemmeno la cappella dove la domenica e le feste comandate (ma anche quelle non comandate) un prete dice la messa. Si chiama don Pietro Battocchio ed è il classico prete di famiglia. Un po' matto, certo, come spesso accade da queste parti. Arriva in villa a cavallo. Alloggia per settimane, mesi. E ci dorme, con il cavallo. In camera. | << | < | > | >> |Pagina 153Potenza, 29 giugno, notte Verso le dieci di sera del 29 giugno, telefonò di nuovo il funzionario della Digos di Potenza. Voleva sapere sempre la stessa cosa: se ci avevo pensato. Avevo pensato a un'infinità di cose. A Tobagi. Alla cena con Passalacqua. Al pranzo da Morandini. Al 7 aprile. Alla cena di Toni Negri e Alessandrini dal giudice Bevere. Alla rivista Magazzino. Alla fuga all'isola del Giglio. Al superclan. All'Hypérion. A Corrado Simioni e a Mario Moretti. A Mario Moretti e ad Alberto Franceschini. Ma cosa c'entrava, tutto questo, con quello che voleva sapere il funzionario della Digos? «Non le è venuto in mente nessuno che possa aver fatto quella telefonata alla Notte di Milano?» Il funzionario era ostinato. «No. Non mi è venuto in mente nessuno» risposi. E invece, proprio in quel momento mi veniva in mente il mio amico Guido Passalacqua che era stato «gambizzato» il 7 maggio e venticinque giorni prima (data esatta: 12 aprile) aveva pubblicato uno strano articolo sulla vera identità delle Brigate rosse. Non era la prima volta che Passalacqua affrontava l'argomento. Stavolta, però, il concetto base era espresso in maniera più chiara delle altre: «C'è qualcuno più in alto, una, due, tre persone che decidono le campagne del terrorismo, una direzione decisamente impenetrabile se si pensa che, stando alle indiscrezioni, l'unico collegamento con gli operativi era costituito da Moretti». Siccome un concetto tira l'altro, non potei fare a meno di pensare a un altro articolo, sempre di Passalacqua, pubblicato quest'ultimo nella primavera del 1978, poco prima del sequestro Moro. Non era un articolo, a dir la verità. Era un'intervista. Un'intervista a Luigi Cavallo, raggiunto da Passalacqua nel caseggiato milanese di via Gallarate 131, undicesimo piano. L'argomento era il processo Cavallo-Sogno, che si sarebbe poi concluso con la sentenza di proscioglimento degli imputati. Ma intanto nel corso di un altro processo (quello che si stava celebrando a Torino contro Curcio, Franceschini ecc., ossia i personaggi «storici» delle Brigate rosse), si era profilato di un contatto piuttosto sconcertante che sembrava collegare i brigatisti con Luigi Cavallo e questo sospetto trovava conferma nella scoperta fatta da due importanti magistrati milanesi: Emilio Alessandrini e Antonio Lombardi. Questi, durante le indagini che stavano conducendo sulle Br, avevano trovato alcune strane fotografie e documenti, per esempio una lettera, riservatissima, inviata da Cavallo a un'amica. Era saltata fuori durante la perquisizione di un covo torinese, in via Pianezza. Senza parlare di altri carteggi usciti da altri covi: quello milanese di via Maderno (rifugio di Curcio al momento del secondo arresto) e quello di Robbiano di Mediglia. Infine, un ricordo del 1975: quando erano penetrati nello studio milanese di Massimo De Carolis (15 maggio, per la precisione), le Br gli avevano fatto il solito processo proletario: l'accusa era quella di essersi opposto, nel Consiglio comunale di Milano, alla proposta di intitolare la scuola media di via Cagliero al nome dello studente Roberto Franceschi, ucciso dalla polizia davanti all'Università Bocconi. Gli avevano sparato alle gambe (a quel tempo non si usava ancora il termine gambizzazione) e se n'erano andati lasciando un messaggio. In questo messaggio ricorrevano frasi usate qualche tempo prima dall'Agenzia A. E l'Agenzia A era diretta da Luigi Cavallo.
La frase di Passalacqua (parlo evidentemente di quella contenuta
nell'articolo scritto il 12 aprile) non aveva attirato solo l'attenzione della
Brigata 28 marzo, che era la brigata dei giustizieri dei giornalisti. Se n'erano
accorti anche gli alti livelli politici, a cominciare da Craxi. Come morso da
una tarantola, l'allora segretario del Psi coglie la palla al balzo per dire
quello che pensa a proposito della questione sollevata da Passalacqua e,
intervenendo alla Camera sulla fiducia al governo Cossiga bis, butta là una
frase misteriosa: «Resta aperta la ricerca del "livello superiore", quello che
gli esperti, che ne hanno avvertito l'esistenza, chiamano in gergo il Grande
Vecchio». Lo stesso concetto Craxi ripete in un'intervista che compare
l'indomani sul Corriere della Sera. Alimentata da una frotta di dietrologi di
professione ed esperti di fantapolitica, si scatena immediatamente la bagarre
delle illazioni e dei sospetti. Alcuni nomi vengono mormorati: Basso (Lelio),
Lussu (Emilio), Malagugini (Alberto).
Uno dei giornalisti si finse sorpreso di vedermi. Fece una battuta: "non ti hanno tenuto dentro?" Io buttai là misterioso: "Sapeste quello che ho ascoltato..." Dovevo aver pronunciato la frase con un tono abbastanza convincente perché tutti capirono che non bluffavo e chiesero più volte che cosa avevo saputo di così importante. Lo avrei anche detto se, all'improvviso, non avessi notato che la compagnia, a quel tavolo (lungo, lunghissimo), non era tutta fidata. C'erano anche facce sconosciute. Come un fulmine mi attraversò la mente il sospetto che qualcuno non ci avrebbe pensato due volte a dare la notizia al primo giornale radio o a fare lo scoop sul proprio giornale. Ma la ragione vera, quella che mi rendeva sempre più perplesso, era personale, mi toccava da vicino, e fu quella che mi bloccò, prima di tutte le altre, convincendomi che era meglio stare zitto, zitto con tutti, nessuno escluso. La verità è che Claudio Donat-Cattin, fratello di Marco, era amico mio, da tempo. Lavorava alla Gazzetta del Popolo, il vecchio palazzone dove tutte le volte che mi trovavo a Torino andavo a scrivere e a telefonare gli articoli, accolto con grande cordialità. Si può dire che ero di casa alla Gazzetta, soprattutto in Cronaca, dove Claudio Donat-Cattin aveva cominciato a fare il giornalista, anni prima: il suo posto era giù in fondo al salone, ultima fila a sinistra. Sembrava una scolaresca, la Cronaca della Gazzetta. A un certo momento, accanto a Donat-Cattin, che era alto e robusto, ne era arrivato uno piccolo di statura, mingherlino, magrolino. Si chiamava Mauro. Ezio Mauro. Per il momento, non dissi niente a nessuno. Non sapevo però come comportarmi per il futuro. Andare da Claudio Donat-Cattin e raccontargli quello che avevo sentito? Oppure avvisare i giudici che avevo sentito tutto (o, perlomeno, molto: quel che bastava, comunque) Scelsi la seconda soluzione. Andai al telefono e feci il numero della Procura. Rispose Caselli. Era appena tornato da Pescara. «Ho sentito tutto!» gli dissi. «Tutto che cosa?» Non feci in tempo a pronunciare quel nome che Caselli mi bloccò: «No! Non dica niente! Venga qua subito!». Andai subito. Gli uomini di guardia erano stati avvisati che stavo arrivando. In una stanza, mi aspettava uno squadrone di giudici. C'erano tutti: sostituti procuratori e giudici istruttori. Allarmatissimi. Caselli mi fece ripetere quello che avevo sentito. Glielo dissi. Alzò le braccia al cielo, in segno di disperazione. Poi mi ingiunse di non scrivere niente di niente, per carità! E di non dire niente a nessuno. Niente di niente. Non scrissi niente e non dissi niente a nessuno. Cosa, la seconda, che feci con grande sacrificio, dato che, per natura, non sono capace di tenere un segreto. Passai dalla Gazzetta del Popolo, ma non ebbi il coraggio di affrontare Claudio Donat-Cattin. Lo vidi da lontano e scantonai. A scrivere l'articolo, quella volta, andai in albergo, che non era lontano dalla Gazzetta. Quello stesso giorno del 7 maggio, Lotta continua uscì con un numero di sedici pagine dove venivano pubblicati i verbali di Patrizio Peci, con l'esclusione di alcune pagine, proprio quelle che riguardavano Marco Donat-Cattin. E proprio in quel punto, dove si parlava di Marco Donat-Cattin, una nota redazionale di Lotta Continua avvertiva che mancava un foglio. Ma, anziché la frase «a questo punto del verbale manca un foglio [ndr]», ce n'era scritta un'altra: «A questo punto del verbale manca un figlio [ndr]». Ndr voleva dire (chiaro): «Nota della redazione». Meno chiaro anzi, chirissimo, era quel refuso: figlio per foglio. Colpa di chi? Di un redattore? Di un tipografo? Di un correttore di bozze? È un mistero che nessuno ha mai spiegato, e qualcuno, un giorno l'altro, dovrà tentare di spiegarlo. E poi c'è un altro mistero: perchè Passalacqua è stato gambizzato lo stesso giorno (7 maggio) in cui stavamo partendo per Torino per andare a scrivere su Marco Donat-Cattin? | << | < | > | >> |Pagina 225Agosto-settembre 1980 Cavallo diceva che il golpe bisognava farlo di sabato, durante le ferie d'agosto, con le fabbriche chiuse per due settimane e le masse disperse in villeggiatura. Il golpe doveva essere di destra, sosteneva Cavallo, però doveva avere un programma di sinistra, di sinistra avanzata, così i fascisti venivano messi fuori gioco e gli antifascisti venivano spezzati in due. Cavallo e quelli che erano con lui volevano un golpe di centro, questo era chiaro. Ma cosa c'entravano le bombe, gli attentati, i morti? Portavo a passeggio Paolo e Alberto per i prati di Bratto e Dorga e per un po' riuscivo a staccarmi dalle piste nere, dalle piste rosse e da quelle incerte, a metà, un po' nere un po' rosse, un po' nere un po' bianche. Alberto si fermava davanti ai cavallini che dondolavano, chiedeva di farli dondolare con lui sopra. Paolo teneva alla Fiorentina e smaniava per Antognoni. Compravo la Gazzetta per Paolo e davo i soldini ad Alberto, il quale montava sul cavallo con una furia tale che il cavallo veniva preso da una tale frenesia che subito mi tornava alla mente il Cavallo del golpe del sabato d'agosto, il Cavallo che parlava di «Blitzkrieg», di «azione preparata in maniera indonesiana, cilena, greca, peruviana, brasiliana», chissà se tutto questo doveva essere preceduto dalle bombe, dagli attentati, dai morti? Cavallo auspicava «un nuovo 8 settembre», in vista di una «Europa libera, non più sottomessa alla Russia e all'America», e quindi esortava Sogno, Edgardo Sogno, la medaglia d'oro della Resistenza, a «mettersi al servizio della lotta antisistema». Andavo con Mita dagli amici di Bratto e Dorga e mi capitava di restare muto per mezz'ora filata (qualunque discorso che non fossero le piste nere e le piste rosse non mi interessava), tutti mi guardavano preoccupati perché solitamente ero un tipo ciarliero. Mentre loro parlavano, mi tornava alla mente il «Blitzkrieg» di Cavallo e, dopo quello di Cavallo, pensavo ad altri «Blitzkrieg», compreso il «Blitzkrieg» di Graziani, Clemente Graziani, esponente di Ordine Nuovo, latitante da diversi anni, che in un proclama quand'era in Italia aveva scritto: «Uccidere, o fare uccidere vecchi, donne, bambini azioni del genere sono state finora considerate alla stregua di crimini universalmente esecrati ed esecrabili e, soprattutto, inutili, esiziali ai fini vittoriosi di un conflitto. I canoni della guerra rivoluzionaria sovversiva sovvertono però questi principi morali e umanitari. Queste forme di intimidazione terroristica sono, oggi, non solo ritenute valide ma, a volte, necessarie per il conseguimento di un determinato obiettivo». Andandomene da Bologna, avevo portato con me i numeri di Quex che mi aveva dato l'avvocato Bezicheri, e avevo anche un discreto numero di altri fogli, documenti passatimi sottobanco («di lei mi fido») da un altro avvocato. Li avevo letti di corsa e ne ero rimasto molto impressionato, forse è meglio dire sconvolto, non tanto per quello che c'era scritto ma perché, da quei documenti, risultava tutto il contrario di quello che avevamo pubblicato sui nostri giornali con una uniformità esasperante. A differenza delle altre occasioni a Bologna nessuno faceva più ricerche personali, le notizie ci piovevano addosso dalla medesima fonte, che era poi il dottor Persico con i suoi resoconti quotidiani. Qualcos'altro era accaduto la sera stessa della bomba bolognese ed era accaduto a Roma, nel carcere di Rebibbia, dove un detenuto, tale Piergiorgio Farina, era entrato nella cella che aveva di fronte e al «collega» che era ospite là dentro aveva raccontato che quattro mesi prima, di maggio, un tale Pedretti (Dario Pedretti) gli aveva chiesto un quantitativo ingente di nitroglicerina «per fare un botto clamoroso con tanti di quei morti che se ne parlerà in eterno». Il «collega» che si trovava nella cella di fronte a quella di Piergiorgio Farina, era Silvano Russomanno, il vice capo del Sisde. In quel momento si trovava in carcere perché aveva dato al giornalista Fabio Isman i verbali sull'interrogatorio di Peci. Piergiorgio Farina era un tipo tutt'altro che raccomandabile. Truffatore e mitomane. Aveva un passato in Venezuela, dove un fratello faceva l'avvocato. E questo era vero. Ma Farina raccontava anche di essere stato confidente del capo del Sismi Santovito. | << | < | > | >> |Pagina 28117 marzo-2 settembre 1981 Cambiava tutto. Cambiava la tivù. Cambiava 1l Giorno. Cambiavano perfino gli avvenimenti, il loro modo di presentarsi. Anche se drammatici, sempre più frequentemente si presentavano dentro cornici buffe, farsesche, trasandate, prive di garbo. Come se qualcuno si divertisse a involgarire i momenti solenni, per renderli indegni di ogni ricordo. Il 17 marzo mi trovavo a Catanzaro, dove la giuria si accingeva a entrare in camera di consiglio per stendere la sentenza sulla strage di piazza Fontana. Il processo d'appello era finito. Il presidente, che si chiamava Gambardella, era già in piedi e stava per uscire dall'aula, insieme ai giudici togati e a quelli popolari, quando il cancelliere si avvicinò e gli porse un telegramma. Meravigliato, il presidente lo aprì. Fece una faccia strana, leggendolo. Ci pensò un po', poi si rivolse al cancelliere che nel frattempo si era seduto al suo posto, e dettò a verbale: «In questo momento ci giunge un telegramma del quale do lettura: "Prego rimandare processo perché ostacolato dai carabinieri a fare importanti rivelazioni sulla strage di piazza Fontana. Firmato: Cacchioni, Roma". Ci ritiriamo un momento per decidere il da farsi». Nessuno rise. Nessuno disse niente. Poi il silenzio fu rotto da un avvocato. «Cacchioni! Ma questo è uno scherzo! Uno scherzo di pessimo gusto.» «Be'» disse il presidente Gambardella, sempre più perplesso. «Noi andiamo un momento di là, per decidere cosa fare...» Mentre la Corte usciva, in aula esplosero i commenti. «E se questo Cacchioni dicesse la verità?» azzardò uno. «Ma cosa vuoi che dica uno che si chiama Cacchioni?» «E se questo Cacchioni fosse uno che si fa chiamare Cacchioni e invece è un altro, uno che sa e non vuole comparire?» «Secondo me, qui c'è qualcuno che sta giocando sul macabro...» Un quarto d'ora dopo, la Corte ritornò in aula. Ma il problema non era stato risolto.
L'Unità aveva qualcosa in più, quel giorno. Il titolo, a piena pagina,
riguardava la sentenza di Catanzaro (giudicata «un'offesa al paese e alla
giustizia») e però subito sotto, di spalla, in evidenza (anche se con un ritmo
stranamente traballante), veniva pubblicata una notizia: «Trovate dalla Finanza
ad Arezzo esplosive carte segrete nella villa di Gelli capo della P2». La
notizia era quel che si dice uno scoop (non ce l'aveva nessun altro giornale,
difatti), anche se i due giornalisti che avevano materialmente steso la notizia,
Maurizio Michelini ed Elio Spada, accennavano ai «cinquecento uomini d'oro» di
Sindona (non gli elenchi degli iscritti alla P2). E però, sempre in prima
pagina, l'Unità pubblicava un altro articolo (siglato Ub) con questo titolo:
«Quando Gelli diceva: "Sono il Burattinaio dei potenti"». Il riferimento era
all'intervista fatta da Maurizio Costanze a Licio Gelli sulla terza pagina del
Corriere della Sera del 5 ottobre 1980. I finanzieri erano stati messi in
movimento da due magistrati milanesi, Gherardo Colombo e Giuliano Turone, che
stavano conducendo alcune indagini su Sindona. Le indagini erano tre. La prima
doveva accertare chi aveva assassinato l'avvocato Giorgio Ambrosoli, nel luglio
1979 a Milano. Ambrosoli era stato incaricato dallo stato di liquidare la banca
italiana di Sindona, fallita. La seconda indagine doveva identificare l'autore
delle continue minacce al presidente di Mediobanca Enrico Cuccia, oltre che allo
stesso Ambrosoli. La terza indagine, infine, aveva come oggetto la misteriosa
fuga di Sindona da New York. La fuga era avvenuta nell'agosto del 1979 (qualche
settimana dopo il delitto Ambrosoli). Compiuto un giro in Europa, Sindona era
giunto a Palermo, in gran segreto, e a Palermo si era fatto sparare a una gamba
da un medico di fiducia, amico suo. Poi era tornato a New York, con la gamba
ferita, prova (secondo lui) dell'avvenuto sequestro. Ma i magistrati, sia quelli
americani sia quelli italiani, non c'erano cascati.
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