Autore Diego Nuzzo
Titolo Come se non fosse successo niente
EdizioneRogiosi, Napoli, 2014, narratóri , pag. 200, cop.fle., dim. 13,2x21x1,2 cm , Isbn 978-88-97893-58-5
LettoreLuca Vita, 2014
Classe narrativa italiana , libri , citta': Milano












 

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Pagina 7

... e adesso che vi ho raccontato tutto di questa notte che sta per finire, non so neanch'io perché l'ho fatto, perché ho sentito il dovere di mettervi a parte di questa storia. Forse nella speranza di dare a tutto ciò un valore che non ha, di rendere epico e terribile ciò che è solo terribilmente semplice e umano. Forse perché senza omettere o aggiungere niente, senza cercare struggimento o nostalgia dove non ci sono, ho cercato di riassaporare con maggior consapevolezza queste ore passate. Forse perché raccontandovi tutto, ripercorrendo dal principio ogni passo, potessi riuscire anch'io a ritrovare l'istante in cui questa notte è iniziata. Perché, a differenza dell'epilogo, che è ora chiaro e argentino, è la genesi che per me è sempre stata incerta e che mi porta ad andare sempre più indietro e sempre più a fondo, in una spirale che non conosce fine. Forse aspetto solo che passino i residui minuti che mi separano dall'alba, nel silenzio irreale di questo giardino, con accanto solo il respiro euritmico di Mingus, il mio pastore belga, grosso e con la stessa orgogliosa barba del mio contrabbassista preferito; che il battito del cuore accelerato dai sensi abbagliati, lentamente si plachi e che si allontani da me lo spettro che l'ombra leggera di qualcuno, che per me è poco più di uno sconosciuto, possa diventare il mio ultimo, disperato sentiero; forse aspetto che questo odore di acqua e sapore di pane, che sono tutto ciò che di lui mi rimarrà mai, possano sparire assieme agli ultimi ricordi del buio. Forse perché era l'unico modo che ci fosse di far giungere presto quest'alba livida e chiudere una notte che sembra non avere mai fine. O forse sto solo aspettando che mio padre esiti ancora un po', prima di interrompere dolcemente quello che lui crede ancora essere il mio "sonno dei giusti", portandomi il caffè, dopo aver accuratamente preparato i suoi vestiti sul letto perché io li approvi. Fiero, guardandosi allo specchio, del fatto che, anche oggi, lui sarà il più bello di tutti e che, perfino in questo giorno, tutti non avranno occhi che per lui. Neanche Adriano attirerà a sé tanti sguardi: ma Adriano, si sa, non è bello. Eppure tra poche ore, quando mio padre, splendido e commosso, mi accompagnerà verso di lui, per me sarà bellissimo. E per questo a mezzogiorno lo sposerò, avvolta nel sorriso più pieno che possa mai aver sognato. Perché tutto ciò che questa notte con le sue malie ha saputo inventare, non è riuscito a far svanire la certezza che è lui e solo lui l'uomo che ho scelto. Perché è con Adriano che da due anni condivido ogni sogno e ogni incubo, perché non sono mai stata tanto felice e tanto infelice come con lui. Perché non ha segreti inconfessabili che io abbia desiderato di scoprire, né sguardi da poeta maledetto da cui dovermi difendere. Perché fa l'amore in maniera serena e senza rimorsi, a differenza di me, e riuscirà a insegnarmelo: perché s'impara tutto se solo si ha la voglia di imparare. Perché è solo con lui che potrei mai, d'ora in poi, fare l'amore. Perché ci sono alcune cose che devono restare territorio di una sola persona: e questo resterà per sempre il territorio di Adriano. Perché esiste uno e un solo modo d'amare: e quel modo è come lui ama me. Perché mai come questa mattina, desidero il suo abbraccio dolce e il suo sorriso pulito al mio risveglio. Perché voglio che la tenerezza non si sostituisca lentamente al desiderio, la familiarità non soppianti la curiosità. Per questo, e tanto altro, tra poco diventerò "la signora Spinelli", senza che neanche per un istante possa sfiorarmi l'ala leggera dell'incertezza, dell'indecisione, del dubbio; senza permettere a neanche uno dei feroci sguardi di mia madre di scandire – Ma-ria Giu-lia! – con quegli occhi che da sempre mi hanno richiamato all'ordine. Perché l'ordine, questa mattina, è solo tutte le energie che raccolgo con la gioia e la stanchezza dentro di me, inspirando l'aria bagnata di questo giardino d'aranci. Perché mi accorgo, non senza un briciolo di sollievo, che in più ho addosso soltanto l'odore della pioggia e in meno soltanto un libro: un piccolo, vecchio libro di racconti di Melville, non so se scelto a caso o con cura tra i tanti della biblioteca di mia madre, un libro degli anni '50 di nessun valore, con dentro la storia triste di uno scrivano che muore di solitudine, scelto perché gli restasse in tasca qualcosa di me. Lo sposerò senza dover mai pensare "nonostante": perché non esisterà alcun "nonostante", per questo volo sospeso di cui vi ho detto tutto, senza che neanche un particolare ineffabile sfuggisse alla memoria. Lo sposerò senza rinunciare, in ogni più piccolo frammento dell'esistenza, a ricercare ancora il mio sacrosanto diritto al più profondo dei dolori: quello che mi permette di non abbandonarmi a tutto ciò in cui la mia vita inciampa. Lo sposerò, perché voglio che da oggi i profumi e i colori, i suoni e le luci del mondo, mi siano svelati e rivelati solo dalla sua voce. Lo sposerò, perché Adriano è presente e discreto, perché più che assecondare ogni mio desiderio, lo anticipa; perché, racchiuso in un unico sorriso, c'è tutto il suo saper sdrammatizzare questa tenace costruzione dell'argine del mio dolore. Lo sposerò, perché questo sia l'ennesimo, e non l'ultimo, tassello di quello splendido mosaico bizantino, ricco e fastoso, che è il suo amore, la cifra della sua unicità. Lo sposerò, volendo con tutte le mie forze rinunciare alle passeggiate sulle chiane con Mingus, alle uscite in barca a Trentaremi in una mattina di novembre come questa, ad attraversare per l'ennesima volta Sant'Elmo e perdermi come sempre a Castel dell'Ovo e imparare ad amare Milano, la sua città, pur con la certezza che nessun luogo sarà mai per me abbastanza intenso, altrettanto assoluto come questi scogli che non saranno più i primi a darmi il risveglio. Lo sposerò, senza smettere mai per un istante di sorridere, sicura che mai sforzo alcuno dovrò fare per rispettare questo precetto. Lo sposerò, perché la prossima alba, quell'ora in cui i sogni sembrano così reali che aspettano solo la luce per realizzarsi, voglio sia solo la prima di tutte quelle cui Adriano ha diritto. Lo sposerò con tutta la stanchezza di questa notte che non cederà il passo alla gioia di vivere, regalandogli gli ultimi bagliori della mia insofferenza, di quella libera, eternamente libera, e selvaggia, ferocemente selvaggia, insofferenza. Lo sposerò senza che possa sfiorarmi il pensiero dell'amaro miele del sacrificio e dell'abnegazione. Lo sposerò anche per questi ultimi minuti, che trascorro avvolta solo in un maglione di lana mélange troppo largo a fasciarmi fianchi e seni ancora palpitanti. Lo sposerò, perché questa notte che avrebbe potuto spazzare come un ghibli i miei trent'anni, mi ha miracolosamente lasciato la sbiadita incertezza della ragione. Lo sposerò, perché tra poco mi accoglierà con quel sorriso di chi ti offre non il suo perdono, ma lo sforzo di comprendere e capire assieme: e io lo ricambierò portando dentro di me tutto ciò. E, tra ormai pochi minuti, lo sposerò con l'assoluta certezza di non poter dimenticare, finche avrò memoria, nulla di questa strana follia di mezzo autunno, i suoi istanti senza lacrime, il suo incanto. E quell'inafferrabile, anonimo amore.

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Pagina 43

Solo una volta Luca fece un vago riferimento a quelle loro missive, tutte rigorosamente vergate con l'inchiostro verde della stilografica che scorreva lento e stilizzato per Matteo e con la grafia nervosa e irregolare delle matite di Luca, mai sostituite dalla posta elettronica che entrambi usavano in maniera compulsiva per lavoro o per studio. Accadde una sera, una di quelle in cui la presenza degli altri studenti alle cene che Matteo periodicamente organizzava nell'ospitalità delle grandi stanze affacciate sull'ex foro romano, non avrebbe consentito repentine rivelazioni. Era una di quelle sere in cui una piccola moltitudine inventava un equilibrio sempre nuovo all'arredamento fatto solo di libri: antichi Baedeker accatastati sulle sedie che davano il senso di una biblioteca eternamente in fieri; volumi Penguin da due sterline dalle lucide copertine raffiguranti splendidi tagli di ignoti quadri, che sembrano nati, più che per ospitare le parole di Forster, di Henry James e di George Eliot, per essere portati a spasso a un tavolino di caffe ed essere felicemente sporcati di cioccolata calda; raffinate edizioni Gallimard o Flammarion dalle felpate copertine crema, nobilmente fuori misura per essere infilate nelle tasche di una giacca. Tutti erano appoggiati e mai disposti sulle maioliche settecentesche gialle e blu, sotto lo sguardo severo delle travi di castagno da cui, a intervalli irregolari, pendeva una lampadina in attesa di degno ricovero. Quei libri, che raccontavano sui frontespizi di lunghi soggiorni e di ritorni, segnati da appunti a margine, richiami e rimandi, zeppi di foglietti e di ritagli di giornale, erano così pieni di storia da sembrare coevi di quella stessa casa, ma lui non esitava ad alienarli se qualcuno che gli stava a cuore mostrava interesse per loro. Non amava prestare i libri. Non amava che quel suo mondo fosse condiviso per un certo tempo in condominio con qualcuno, ma sorrideva sereno donando per sempre un frammento del suo essere viandante a chi ne avrebbe riconosciuto i segni e imparato a farne parte. Gli piaceva, a volte, disseminare i libri come Pollicino con le briciole, sapendo di lasciare una traccia non per sé ma per altri. Aveva imparato a farlo grazie a un libro trovato per caso, una copia sdrucita dei racconti di Eduard Friderich Mörike, uno di quegli scrittori ormai dimenticati che si divertiva a scovare nelle librerie di seconda mano. Questa volta, invece, era stato il libro a scovare Matteo. A Torino, tra Natale e Capodanno, dove, nonostante le feste, Margheri lo aveva spedito in preparazione del convegno. Mentre passeggiava, ozioso e malinconico, aveva notato una ragazza alcuni passi davanti a lui. Aveva un twinset grigio chiaro e una sciarpa color ocra troppo leggera per quel clima, il passo sereno e curioso, come se cercasse un indirizzo, ma senza ansia alcuna. Poi aveva adocchiato una bicicletta legata con una catena davanti a una chiesa del centro: sul davanti una semplice cassetta per la frutta nera, di quelle in plastica, senza vezzi. La ragazza si era voltata per un attimo e Matteo ebbe modo di vederla in volto: poco sopra i trent'anni, capelli corvini corti, occhi nerissimi e un sorriso sornione. Aveva lasciato un libro nella cassetta di plastica con delicatezza, come se depositasse un bambino in una culla ed era andata via con lo stesso passo sereno. Matteo aveva aspettato qualche istante prima di cedere alla curiosità e prendere il libro. Era una vecchia edizione degli anni '40 delle novelle di Mörike: lo aveva sfogliato e si era accorto che sul frontespizio c'era un'etichetta "Questo libro non è stato perso, ma è stato liberato: dopo averlo letto, lascialo libero in un qualsiasi luogo pubblico. Oppure, se preferisci tenerlo, libera al suo posto un altro libro a tua scelta". Solo dopo aver letto quell'etichetta Matteo aveva alzato lo sguardo alla ricerca della ragazza dalla sciarpa troppo leggera. Non c'era più. Aveva letto il libro durante il viaggio di ritorno e aveva deciso di tenere fede al patto liberandolo di nuovo non su una panchina, ma lasciandolo nella tasca della giacca di Luca, con la promessa che non avrebbe spezzato quella catena e, una volta letto, avrebbe continuato a far passare quel vecchio volume di mano in mano. Perché voleva insegnargli che chi ama leggere ama anche condividere la lettura, che ci si fa forza nell'affrontare questa impervia dipendenza. "A che punto sei? Ancora lì?". Non è vero che leggere è un'attività solitaria. Spesso può apparirlo. Ma, al di là del luogo fisico in cui lo si fa, leggere un libro è un gesto che accomuna e che ci fa sentire meno soli.

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Pagina 84

    Archivio Notarile di Roma
    Via Padre Semeria n. 89 - 00154 Roma

    Testamento olografo di Marco Antonio Asprenio Diomede Pagano
allegato al verbale di deposito e pubblicazione a rogito notaio
Ivo Maria Mazzoleni del 7 febbraio 2011 per n. di repertorio 22.613



[...]

Voglio quindi che ognuna delle persone cui ho voluto bene riceva uno dei libri della mia biblioteca. Lascio anche questa incombenza a Paolo Cassola che è l'unico, per antico affetto e per la confidenza con i miei racconti, in grado di scegliere le persone che debbano esserne destinatarie. Desidero che tutti, nessuno escluso, coloro che a diverso titolo ho amato, abbiano a possedere uno dei miei libri. Che non si faccia una distinzione tra il volume antico e il tascabile di alcun valore. Che la cinquecentina scampata alla depredazione di mercanti ingordi e scaltri non venga destinata all'amico collezionista o al raffinato esegeta, ma riservata alla compagnia di una notte che nemmeno ricorda il mio nome ma che è stata capace di regalarmi uno degli ultimi beffardi sorrisi. E sorrido, ancora, al pensiero che uno dei pochi erbari settecenteschi scampati alla furia dei miei aguzzini, possa trovare da domani rifugio nelle mani di chi ieri sera andando via mi ha lasciato una camelia rossa in un bicchiere sbeccato.

Tutte le librerie e gli studi bibliografici di Roma hanno fatto affari con i miei volumi e il pasto consumato stasera lo devo al Talmud Babilonese stampato a Venezia da Giustiniani nel 1551 svenduto stamane con la stessa struggente amarezza con cui si impegna l'ultimo cappotto in pieno inverno. Non posso però che rallegrarmi del fatto che i miei fratelli ebrei si siano presi in carico la mia ultima cena.


Non ho più il Fracastoro del 1546, strappato dopo una lunga contrattazione a un mercante di Vienna; lo avrei lasciato con piacere a Paolo che potrà scegliere in alternativa il volume che più gli aggrada. Tenga per sé di certo la copia di Venere in cucina di Norman Douglas. È l'ultimo regalo che ho ricevuto: quel libro e chi me lo ha donato sono state le cose più preziose di questo stralcio di vita. E nelle sue cene sul terrazzo di via dei Giardini si ricordi di non far mai mancare, accanto a dei gamberi d'acqua dolce alla sibarita, una bottiglia di Chablis François Raveneau. Né ho più la Carta del Navegar pittoresco del Boschini, inseguito per anni nelle aste, che con gioia avrei destinato a Cesare dell'Agro: alla sua leggera e succosa intelligenza lascio una qualunque delle editio princeps mangiate dai tarli che gli strapperanno comunque una risata gustosa.


Non lascio speranzosi eredi, ché la solitudine questo ha di buono. Di questi anni mi restano i ricordi di compagnie occasionali cui sono grato, una ad una, per avermi lasciato il senso profondo di libertà, che neanche in questo momento si è saputo trasformare in solitudine.

So che a molti di loro un libro sembrerà un oggetto straniero, incomprensibile. Come incomprensibili sono sembrati spesso i miei scaffali stracolmi di volumi mai polverosi perché l'ultimo piacere rimastomi, fino a questa sera, è stato di sfogliarli con voracità mai paga. A molti di loro le edizioni rare, gli anni di pubblicazione, ma anche il titolo e i nomi stessi degli autori diranno ben poco. Né a qualcuno debba essere demandato il compito di spiegare cosa significassero quei tomi per me. Mi piace pensare che l'accostamento sia casuale, come casuale è stato in questi anni il mio accompagnarmi a loro, sodali di una sola notte o compagni di mute passeggiate nell'alba del Gianicolo. Conservo in questo momento la vanità di voler sopravvivere nel ricordo di qualcuno e ho solo i miei libri per poterlo fare. Come Ferdinand von Waldstein si augurava che lo spirito di Mozart "dalle mani di Haydn" trasmigrasse in quelle di Beethoven, io spero che in coloro che ho amato e che riceveranno uno di questi libri, si possa incarnare il mio spirito irrequieto.


Quando tutti coloro di cui mi sono circondato in questi anni avranno ricevuto uno, o anche più d'uno, dei miei volumi, lascio a Paolo il compito di dissolvere ovunque quelli rimasti. Voglio fortemente che questa mia biblioteca sia dispersa così, che nessun libro venga ulteriormente venduto per finire su una bancarella di Fontanella Borghese o da uno dei finti estimatori che hanno già depredato casa mia. Mi piace pensare che siano lasciati uno alla volta in giro in tutti i posti di questa città che ho amato. Ogni volta che Paolo verrà a Roma e andrà alla fontana di Monte Caprino, e ci andrà spesso, voglio che lasci un libro, in ogni giorno di sole che questa città vedrà, sul muretto verso il Teatro di Marcello; che ogni volta che Peppino Santacroce passerà davanti alla Casa dei Cavalieri di Rodi, dissemini un po' di vecchie edizioni tra quelle pietre; che tutte le volte in cui Monica Morosini prenderà la metropolitana per portare il suo quotidiano conforto a chi soffre, possa lasciare sul sedile di un vagone un volume con uno dei miei appunti. Mi assale un moto d'angoscia al pensiero che i miei libri possano essere ancora venduti, valutati da chi li scorge esposti in una cesta, le mie notazioni derise da chi non sa che quello che scrissi sul frontespizio de "I fiori blu" nel 1986 a Patmos era per me fonte di infinita dolcezza: preferisco che chi li ritroverà per caso li consideri un dono prezioso, come io ho considerato un dono prezioso ogni giorno strappato a questa esistenza.

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Pagina 96

25 ottobre


Stamane, di buon mattino, ho fatto dei biscotti allo zenzero; tu sai che mi vengono molto bene e che mi piace offrirli agli ospiti in libreria. Intorno a mezzogiorno è venuto un ragazzo che mi ha chiesto una copia di Bartleby lo scrivano. Gli ho sorriso incuriosita. Mi è venuto da chiedergli "Perché quel libro? Chi gliene ha parlato? Dove ne ha letto?", ma ho temuto potesse spaventarsi e scappare via. Mi sono limitata a dargli la copia Feltrinelli di qualche anno fa. L'ha guardata con malcelata delusione.

– È un regalo. Volevo una copia più... affascinante, diciamo.

Ho dovuto spiegargli che l'unica edizione d'antan è quella Longanesi del 1951 ed è di quasi impossibile reperibilità. Mi sono offerta quindi, a parziale compensazione, di raccontargli di quel libro tutti i più reconditi risvolti e ho concluso mettendogli a disposizione la ricetta dei biscotti che Bartleby era solito mangiare come unica forma di sostentamento. Fatti con il cremor tartaro e non con il lievito per dolci! Forse la lettura di quel libro e il dolore profondo che mi ha sempre instillato, mi hanno fatto pensare che quei biscotti non potessero essere legati alla sfera dell'eros. Invece Andrea, questo il nome del nostro nuovo giovane cliente, partendo proprio dallo zenzero, mi ha subito trascinato in una discussione sui cibi afrodisiaci. Non sembrava affatto annoiato dalla dissertazione sul mio eroe letterario preferito e, mentre continuavamo a giocare a tennis tra la passione di Odette de Crécy per il cioccolato e quella di dona Flor dos Guimarães per il brasato di tartaruga, lo osservavo: attento, curioso, con quella "punta di dolce", come avresti detto tu, inequivocabile. Rien a faire: non è interessato al mondo femminile se non come scambio di informazioni e confronto di gusti.

Alla fine, gli ho venduto una copia di Venere in cucina di Norman Douglas e gli ho fatto lo sconto senza che me lo chiedesse. Mi ha sorriso limpido e, una volta messo via il libro nella borsa, non ha minimamente dato l'impressione di voler sgattaiolare via. Ho ripreso il discorso quindi, ormai rassegnata all'ineluttabilità di poter essere per lui solo una consulente culturale, virando su Capri, complice proprio Norman Douglas. E dalle ricette scritte sotto pseudonimo dall'ineffabile esteta scozzese, siamo passati ai libri sull'isola e a quelli sui viaggiatori illustri che vi hanno soggiornato. Alla fine gli ho proposto quell'incantevole edizione inglese Chatto & Windus di Vestal fire di Compton Mackenzie, ma senza esito. Non parla inglese, solo francese. Altro indizio ancor più probatorio per il mio impianto accusatorio.

È inequivocabilmente gay! Saprò farmene una ragione.


Buona notte a me.

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Pagina 139

15 febbraio


Stamattina sono andata in gita! C'era da consegnare un pacco in via dei Giardini: un eccentrico signore ha telefonato ieri in libreria dicendo di aver letto sul catalogo che avevamo una copia del Vasorum Lymphaticorum Corporis Humani pubblicato a Siena, ex Typographia Pazzini Carlo, nel 1787. Un in-folio con una quarantina di tavole fuori testo dei disegni dei vasi linfatici incise all'acquaforte che faceva parte del fondo Corsini. "Un esemplare splendido", l'ho rassicurato. Mi ha chiesto se fosse possibile riceverlo a domicilio. Visto il prezzo, gli ho risposto che glielo avrei consegnato personalmente il giorno dopo. Ed eccomi stamattina accolta, con Haydn in sottofondo, dal dottor Paolo Cassola d'Angri, un dandy che mi riceve con schietta cordialità e in tweed e panciotto che non avrebbe sfigurato addosso ad Augustus Snodgrass o a Tracy Tupman o a un qualunque altro personaggio dickensiano. Mi fa accomodare in uno studiolo accanto all'ingresso con uno scrittoio in noce su cui troneggia, tra fogli di carta diligentemente ordinati e una serie di penne stilografiche, il busto in marmo bianco di un barbuto patrizio romano. Alle spalle dello scrittoio una finestra dà su un lussureggiante giardino interno: le piccole magie che questo quartiere ti riserva senza pena. Sorride contento, mentre sfoglia il prezioso volume e mi chiede, senza distogliere lo sguardo dalle incisioni su rame, se voglio una tazza di tè. Lo ringrazio anch'io distrattamente, perché sono assorta ad ammirare le xilografie e le puntesecche che rivestono integralmente la boiserie dello studiolo. Riconosco un'acquaforte di Pietro da Cortona e un'incisione della facciata del palazzo del duca d'Arcos di Vanvitelli datata 1772, di dimensioni imponenti. Dopo un po' il distinto gentiluomo d'altri tempi, soddisfatto dell'esame del suo atlante, mi chiede se può pagarmi in contanti; mentre gli rispondo di sì mi scappa un sorriso, immaginandolo saldarmi quanto dovuto in scellini e ghinee. Ma prima di salutarmi, mi fredda con una richiesta che mi lascia di sasso.


– Posso chiederle un favore? Lei ha l'espressione di una che i libri non li vende soltanto. Vorrebbe essere così gentile da lasciare – e su quel verbo accenna un sorriso malinconico sottolineato da una leggera pausa – in un qualunque posto che lei ritenga, come dire, propizio, questo libro?

E mi porge un'edizione Einaudi anni '80 de "I fiori blu" di Queneau con la copertina in avion intenso.

– Mi piacerebbe che qualcuno lo trovasse per caso e lo leggesse.


Ho preso il libro con delicatezza come si trattasse di una preziosa cinquecentina, gli ho sorriso e sono stata tentata di stampare un bacio sulla guancia ben rasata di quel vecchio gentiluomo. Ma sono uscita di lì con un semplice "Grazie". Appena fuori, sulla strada, non ho resistito e ho aperto il libro. Sul frontespizio un bell'ex libris: il disegno di un uomo che si ripara con un ombrello da una pioggia di libri, un motto "Dubitare necesse" e il nome del proprietario. Marco Antonio Pagano. E una dedica.


"Patmos, 23 luglio 1986. Perché mi troverai qui, quando vorrai, proprio qui, le braccia pronte ad accoglierti. Tuo Fabio."


Era un libro che questo Pagano aveva regalato al dottor Cassola? E chi era quel Fabio che aveva scritto la dedica? O, invece, era un libro che aveva comprato di seconda mano e dopo tanti anni se ne voleva disfare perché gli ricordava dolorosamente qualcuno? O piuttosto il distinto clinico era un nuovo adepto del bookcrossing troppo timido per disseminare la città di parole? Non lo sapremo mai, e chiunque ritroverà quel libro, che ho "liberato" poco dopo su un tavolino di "El Beverin", non potrà mai saperlo.


Contenta dell'esito della giornata mi concedo una digressione e mi dirigo verso Brera. Ne approfitto per una fuga dai miei vecchi amici. Oggi è stata la volta di Carlo Crivelli: sono entrata nella sala dedicata a lui, mi sono seduta sulla panca e, per una volta, ho lasciato stare Luca Signorelli ed Ercole de Roberti. I marmi screziati e i tappeti orientali, i tessuti damascati e i ricami, l'oreficeria e tutto il trionfo di sontuose ghirlande di frutta della Madonna della Candeletta, mi bastano per riempire gli occhi per un bel po'. La tessera di libero ingresso che mi regalò la direttrice per averle reperito un Roberto Longhi introvabile, mi permette di fare queste piccole puntate con frequenza. Volevo passare anche dalla "tua" Cena in Emmaus di Caravaggio, ma ho deciso che la riservo per quando sarai tornata. Scendendo dallo scalone vengo richiamata dalle voci degli studenti dell'Accademia e mi dirotto, come attratta, tra le aule. Nessuno mi ferma, nessuno mi chiede nulla. Curioso un po' tra le classi vuote e da una di queste mi affaccio sul giardino botanico. In tanti anni non l'avevo mai visitato, e così, dopo essermi lasciata guidare dal senso di orientamento, chiedo indicazione a qualche studente.


– Il giardino è chiuso al pubblico – mi dice una ragazza con piercing in ogni parte visibile del corpo – ma se arrivi alle aule di incisione, ce la puoi fare.


La ringrazio e mi avventuro per cortili interni, corridoi stretti e scale impervie, fino a raggiungere i laboratori di incisione nel seminterrato. Si trovano sotto la serra del Piermarini che si affaccia sul giardino. Ancora una scala stretta e ripida e di lì esco al centro del parco, ai margini della vasca settecentesca, accanto alla quale c'è il ceppo di un tiglio argentato. So che era un tiglio perché me l'ha detto il giardiniere che stava curando il giardino delle piante officinali. Poco più avanti, in uno spiazzo riparato dall'ombra di un colossale noce del Caucaso e di un acero americano, un gruppo di studenti sdraiati sul prato. Il giardiniere mi ha detto che ci sono anche due monumentali gingko biloba portati qui dalla Cina nel 1775: mi è sembrato un posto eccellente dove liberare Washington Square di Henry James. Lui ci sarebbe stato benissimo in quel giardino: sembra uscito proprio da una pagina di Ritratto di signora, anche se Isabel Archer a Brera non credo ci sia mai andata. È stata davvero una gioia lasciare quel libro appoggiato a una delle vetrate della serra: lui sì che è "la mia scrittrice preferita", non Jane Austen o le sorelle Brontë. I suoi erano ritratti di donne vere, imperfette, volitive, donne consapevoli, con una coscienza. Altro che Elinor Dashwood!

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Pagina 168

3 marzo


Clara "molto bella e gentile",

ieri sono andata a casa tua a ritirare la posta e a vedere come se la cavano le poche piante grasse. Ho pensato di lasciare uno dei libri nell'androne del tuo palazzo. Del resto, la mia città è anche questo, gli ingressi dei suoi palazzi borghesi e i cortili degli edifici popolari, quelli di via Vitruvio e quelli di via dei Giardini. Mi piace la zona dove abiti: ci mancavo da molto tempo e non ricordavo gli empori indiani, le macellerie halal, le lavanderie pachistane. Tutta la zona di Buenos Aires mi ricorda il quartiere di Ilford a Londra, dove ho vissuto per tre mesi dopo la laurea. Tu dici sempre di non essere milanese. Ma chi di noi lo è? Milanesi non si nasce, si diventa, e quel quartiere così melting pot mi ha messo di ottimo umore. Poi sono contenta, perché, anche questa volta, il libro mi è sembrato particolarmente adatto al luogo scelto: erano i racconti e le favole di Robert Louis Stevenson. Ricordi quella bella edizione Einaudi della fine degli anni '50 con la copertina cerulea e il dorso in tela? Be', ne avevamo due copie di cui una un po' stanca. Erano in catalogo da tre anni e nessuno si interessava a quei racconti.

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