Copertina
Autore Joseph O'Connor
Titolo I veri credenti
EdizioneEinaudi, Torino, 1996 [1995], Tascabili Stile libero 402 , pag. 214, dim. 120x195x11 mm , Isbn 978-88-06-14269-8
OriginaleTrue Believers [1991]
TraduttoreOrsola Casagrande, Miriam Alessandrini
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa irlandese
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Indice

p.  5     L'ultimo dei mohicani
   17     Le madri sono tutte uguali
   31     Il mago di Oz
   45     Ailsa
   55     Il fantasma
   73     Case di vetro
   89     Il lungo viaggio verso casa
  107     La festa beduina
  133     Il lavello
  141     L'uomo sulla collina
  171     Libertà di stampa
  179     La cosa piú importante è l'amore
  191     I veri credenti

 

 

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Pagina 31

Il mago di Oz

Alla fine telefonai a Ed e mi presentai. Ci misi una vita prima di riuscire a parlargli. Quella orribile donna continuava a dirmi con voce cantilenante, in puro cockney, che Ed era «in riunione» oppure «che aveva davvero molte richieste da soddisfare». Il vecchio Ed sembrava avere piú richieste da soddisfare del marchese de Sade. Finalmente, alla sesta telefonata, accettò di parlarmi. Da principio non sembrava avermi riconosciuto. Poi disse: - Ah, sei tu, Dave, cosí sei tu il mago di Oz -. Questa stessa battuta l'avevo già sentita almeno cinque miliardi di volte da quando ero tornato: dal mio vecchio, dai miei amici, da Noreen, da tutti. Ma dovevo ridere. Date le circostanze non c'erano altre possibilità. Chiacchierammo del piú e del meno per un paio di minuti e alla fine disse: - Ok, senti Dave, vediamoci a pranzo. Aspetta che arraffo l'agenda -. Aveva un buco libero il giorno dopo. - Da Scruples, - propose, un piccolo bar, non lo conoscevo? No, non lo conoscevo.

Ecco come mi è successo di ritrovarmi da Scruples in Charing Cross Road con Ed. Lo riconobbi appena entrò. Come tutti gli yuppie irlandesi, specialmente quelli che fuggono a Londra, sembrava leggermente a disagio in quell'abito costoso. Sembrava vestito per la cresima, o qualcosa del genere, capite? Si diresse verso di me e, tendendomi la mano, disse: - Ciao Dave. Ci avrei scommesso che eri quello abbronzato -. Si sedette al tavolo, schioccò le dita per chiamare il cameriere e disse: - Mein bost, por favor -.

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Pagina 33

- In ogni caso, - continuò, - basta per quello che riguarda me. Raccontami un po' di te, ragazzo, che cosa stai combinando? - Si accese una lunghissima sigaretta. Notai che come molti dublinesi emigrati qui, Ed imitava un leggero accento americano quando parlava.

Vediamo. Che cosa avevo fatto?

- Bella domanda, Ed, - risposi. Fece nuovamente quella fastidiosa risata. Gli dissi che ero stato a Sydney, naturalmente lo sapeva già, avevo lavorato in un bar, un sacco di responsabilità, clienti pochi.

- Oh un bel divertimento, amico, - continuò. Risi. - Molto genuino, amico, - disse, - Charlenes e Sheilas -. Risi di nuovo. - Koylie Meenowg, - aggiunse. Vidi una coppia seduta in un angolo bisbigliarsi qualcosa. I due si alzarono e uscirono.

Prima che potesse arrivare alle inevitabili battute su Crocodile Dundee, lo informai che nel bar dove lavoravo c'era un orologio a muro con i cocktail scritti tutt'attorno al posto delle ore. Pensavo che a Ed sarebbe piaciuta l'idea. Poi gli raccontai della sera in cui io e mio cugino ci ubriacammo finché le lancette non arrivarono alle nove e un quarto.

Fece la sua solita risata: - Finiscila, mi prendi per il culo.

- No, Ed, - ribattei io, - non ti prendo affatto per il culo.

Poi gli raccontai della casa galleggiante e della pazza che rubava tutte le nostre cose quando uscivamo. E di come non stavo piú con la stessa ragazza, perché lei aveva deciso di rimanere là. Beh, non mi andava di mettere il mio cuore affranto lì sulla tovaglia, non certo con Ed.

Ed ha questo grande posto ai Docks, uno di quei magazzini trasformati in case. Immagino che non sia un vero e proprio yuppie.

- Yuppie è un concetto cosí ridondante, - dice. In realtà è un nipple. Sí, Ed era un maledetto nipple, un New Irish Professional Person in London. Anzi, era il piú grande nipple che avessi mai visto. Foxrock, Blackrock College, Trinity, Democratici progressisti, Bmw, non è proprio d'accordo con Maggie, però lei sí che sta mettendo a posto quei fottuti sindacati, per Dio, di questo bisogna darle atto. Ecco che tipo era. Il tipo che dice «Yeah» dopo qualsiasi frase, seguito da un leggerissimo «?». Mettiamola in questi termini e vediamo che effetto fa, yeah?

Avete capito. Ed è anche di quelli che con le dita fanno nell'aria quel fastidiosissimo gesto delle «virgolette».

Versò un bicchiere di vino, lo tracannò ed esclamò: - Accidenti, questo sí che uccide tutti i germi, yeah?...

È un amico di mia sorella Noreen. Si sono conosciuti al Trinity, al Trinners, come lo chiama lui. Dice che Noreen è «un vero sballo, una goduria per gli occhi». Penso che sia cotto perso, ma non ha nessuna possibilità: adesso è fidanzata. Mia sorella Noreen è una specie di affarista: si è trasferita a Londra tre anni fa, è entrata nella categoria dei proprietari di case con i soldi presi per via di un incidente, s'è comprata un posto a 32 mila sterline e l'ha appena rivenduto per 535oo, adesso è fidanzata, mioddio, fidanzata, ha una macchina e un po' di azioni della British Telecom, vota per i Verdi perché le piace Jonathan Porrit, è contro l'apartheid naturalmente, anche se deve ammettere che forse a Londra ci sono troppi neri: ecco com'è lei, e io non ho ancora trovato un fottuto lavoro. Cristo.

Quando ritornai a casa da Oz mia madre cominciò a rompere le palle. Mio padre si controllava abbastanza, ma lei stava davvero diventando insopportabile. Cosí decisi di tornare a Londra alla veloce. Noreen aveva organizzato questo appuntamento con Ed, per vedere se riusciva a trovarmi un lavoro. Ed è il tipo che ha un sacco di contatti nella City. O meglio, il tipo che dice alla gente di averne tantissimi, il che è piuttosto diverso.

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Pagina 89

Il lungo viaggio verso casa

A mezzanotte meno dieci del 31 marzo, Ray Priest scese le scale in punta di piedi, uscí di casa e si diresse verso l'automobile. Girò delicatamente la chiave dell'accensione e il motore cominciò a borbottare. Quindi alzò gli occhi verso la finestra della camera dove aveva lasciato sua moglie immersa nel sonno. Ebbe un solo istante di esitazione, poi ingranò la marcia.

Ray Priest non sapeva dove sarebbe andato quella notte. Ma sapeva che era diretto da qualche parte, e che non sarebbe tornato indietro. Per settimane, dopo l'ultima violenta litigata, aveva continuato, poco per volta, a portare via da casa vestiti e scartoffie, accatastando tutto in scatoloni di cartone nel garage di suo fratello.

A mezzanotte e un quarto, come d'accordo, il fratello lo aspettava in giardino con una torcia. Sembrava infreddolito, avvolto nella vestaglia scozzese. Ray Priest scese dall'automobile, lanciò un'occhiata in direzione del cielo e disse che le previsioni annunciavano pioggia. - Dio, Ray, non so cosa dire di questa storia, - disse il fratello. - Non puoi darle un'altra possibilità? Non mi piace pensare che scappi cosí, nel cuore della notte.

- Sta' zitto, Frank, - disse Ray Priest.

- Hai quarant'anni, - ribatté suo fratello, - sei un adulto.

- E tu sei mio fratello, - disse Ray, quasi fosse un'accusa.

- Sí, ma questo non significa che la cosa mi debba piacere.

- Te l'ho già detto, - disse Ray Priest, - tra me e Maria è tutto finito.

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Pagina 133

Il lavello

Quando, di ritorno dal lavoro, vide nel lavello i piatti ancora sporchi, capí che l'aveva lasciato.

Allora sospirò, si tolse la sciarpa e si mise a rovistare nella credenza in cerca di una scatoletta. Poi si sedette a tavola e tirò una scorreggia. Evitò con cura di controllare sul frigo, tra l'aggeggio del pepe e la bottiglia del ketchup, se gli aveva lasciato un messaggio. Era da lí che di solito faceva partire le sue bordate. Non ci avrebbe guardato, che cazzo! Biglietti, comunque, non ce n'erano: ma una sbirciata con la coda dell'occhio destro non poté fare a meno di dargliela. Brutta puttana, pensò, manco si degna di lasciare un biglietto. Si alzò facendo cadere il cappotto sul pavimento della cucina e si aggirò per la casa, imprecando e spruzzando quella roba contro gli insetti. Ne fulminò uno sulla finestra e lo osservò contorcersi. Poi ne spruzzò un po' sulle sue care piantine - cosí imparava! - inondando ben bene le foglie lucide. Eccovelo qui, l'effetto serra.

Aprí la posta, diede un rapido sguardo alle ultime righe delle lettere e le lasciò cadere per terra. L'aeroplanino di carta che fece con la bolletta del telefono, invece, si andò a schiantare dietro la cornice del Fidanzamento di Van Eyck, sopra il calorifero. Poi lanciò insulti senza motivo, si sentí grande, e imprecò nuovamente. Mai prima d'ora aveva bestemmiato in casa ad alta voce, eccetto quando se la prendeva con lei. Continuando a inveire, accese la televisione e si grattò il cavallo dei pantaloni.

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Pagina 141

L'uomo sulla collina

Il volunteer Danny Sullivan stava immobile sotto la pioggia sottile, davanti al Dark Rosaleen Bar, la testa piegata da una parte, in ascolto. Cercava di capire quanto fosse distante il suono della sirena. Scrutò in lungo e in largo Duke William of Aquitaine Street con fare cospiratorio, proprio come l'eroe sospettoso di qualche vecchio film che non guarderesti affatto se non fosse l'unica cosa in tv e non fossi annoiato a morte dalle brutte notizie sugli altri canali. Era un'abitudine. Lo si vede spesso a Belfast, gente che sbircia in lungo e in largo le strade, talvolta senza alcun motivo. Talvolta. Gente che guarda di sottecchi. Che improvvisamente si gira e ripercorre i vicoli al contrario, si stringe nei cappotti, si allontana nel buio. Che aspetta davanti a una cabina telefonica sotto la pioggia. Come nei film. In giro per Belfast si vedono cose del genere. È un posto cosí, una città piena di segreti.

Bambini affamati correvano vociando lungo i vicoli. Il volunteer Danny Sullivan si sentiva la testa pulsare. Chiuse lo zip del giubbotto di pelle verde e si mise le mani in tasca, tastando gli spiccioli. I bambini giocavano ai soldati. Strepitavano nelle stradine laterali lanciando pietre, gridando e gracchiando nell'accento cockney di Lower Falls Road: - Fermati, bastardo, mani in alto! - I passi scalpicciavano sui ciottoli. Ricordava i fumetti di quand'era bambino, pieni di calciatori, cagnetti fedeli e soldati con la faccia dipinta di nero. Ricordò che ne sta- va leggendo uno quando vennero a prendere suo padre.

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Pagina 158

Il soldato semplice Henry Woods disse al volunteer Danny Sullivan che non aveva niente contro gli irlandesi. Una volta gli disse pure che era mezzo irlandese. Poi gli raccontò che si era arruolato nell'esercito subito dopo aver finito la scuola. C'era una giornata di visita nelle caserme. Lo aveva letto sul giornale della domenica. Aveva comprato quel maledetto giornale solo perché c'erano i mondiali di calcio. E in caserma non c'era andato per quella storia delle Falkland, comunque. Ti pagavano il biglietto dell'autobus e potevi rimanere in caserma tutto il pomeriggio. Beh, l'Inghilterra era stata eliminata, cosí non aveva niente di meglio da fare. Si poteva gironzolare, salire sui carri armati, fare dei test, arrampicarsi sulle corde e provare le poltrone in pelle della mensa ufficiali. Cosí si era arruolato. Per i carri armati, i soldi e le poltrone. E anche per un'altra ragione, naturalmente. Quella piú ovvia.

Lui lo aveva sempre saputo, ma non l'aveva mai detto a nessuno. Pensava che l'esercito gli avrebbe offerto delle opportunità. Come aveva detto l'ufficiale del reclutamento. Tantissime opportunità. Quella sí che era buona. E poi c'erano i viaggi. E anche se era solo un soldato semplice, era già stato nel Belize. Era in Centroamerica, aggiunse. Non era successo niente, ma si era abbronzato. Non aveva ben capito cosa ci stessero a fare lí. Qualche esercitazione. Fu in Belize che ebbe il suo primo incontro, dietro un cinema decrepito in un quartieraccio di Belmopan. Lui si chiamava Ramón. Belmopan era la capitale. Tutti insieme appassionatamente, il film.

- Gesú, - sospirò il volunteer Danny Sullivan, - la regina e la fottuta patria.

Il volunteer Danny Sullivan gli raccontò della sua famiglia. Di come nel I971 suo padre era stato assassinato con una pallottola di gomma dura. Come non gli avevano nemmeno lasciato vedere il corpo. Come avevano dovuto cercare il dente finto di suo padre nella fogna. Come quelli dell'Ulster Volonteer Force avevano lanciato pietre contro la bara, scolpito «Terrorista bastardo» sulla tomba e scritto, perdipiú sbagliando, «Ira = Natzis», sulla porta di casa di sua madre. Come gettavano la merda di cane nella buca delle lettere. Come i suoi due fratelli erano in carcere a Long Kesh. Il che - dovette spiegare - significava dentro senza processo. Come suo cugino fu tenuto sull'attenti per venti ore in una cella della stazione di polizia di Castlereagh, nudo e con una benda sugli occhi. Come i soldati erano venuti durante la notte, abbattendo la porta, con sua madre che urlava, e avevano portato via i suoi fratelli. Come avevano il viso dipinto di nero, tale e quale ai fumetti. E di altra gente, uomini e donne, che era stata arrestata, seviziata, minacciata, ricattata e picchiata fino a quando non ce la faceva piú, cedeva e impazziva. Di un altro cugino, un tassista, che come tutti i colleghi di Belfast, accettava chiamate notturne solo per la sua zona. Cosí quando i killer lo chiamarono erano sicuri che fosse un cattolico. Di come, quando ne trovarono il corpo, ogni centimetro di pelle era coperto di piccole ferite da coltello. Lamette, probabilmente.

Quando raccontò queste cose, sorrise. Non le disse aspramente. Le raccontò con il tono di un predicatore o di uno scienziato che confuta una teoria. Con quel sorriso particolare.

Il soldato semplice Henry Woods scosse la testa. Disse che non avrebbe immaginato che cose del genere potessero succedere in Gran Bretagna.

- Non parlare di Gran Bretagna, - lo ammoní il volunteer Danny Sullivan. - Questa è la maledetta Irlanda - . Il soldato rise. Disse che per lui era la stessa cosa. Disse che, se gli faceva piacere, l'avrebbe chiamata Irlanda.

- Se la mettiamo cosí, - disse poi, - assomiglia piú alla fottuta Beirut che all'Irlanda, - e aggiunse che aveva sempre sentito dire che gli irlandesi erano molto amichevoli, ma con lui non lo erano stati affatto.

- E io allora? - disse il volunteer Danny Sullivan, sbottonandosi lentamente la camicia. - Io sí -. Il soldato semplice Henry Woods sorrise e piegò la testa indietro.

- Sí, - mormorò, - tu sei l'eccezione che conferma la regola.

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Pagina 191

I veri credenti

Quando avevo sette anni - l'inverno prima che mia madre se ne andasse in Inghilterra e la vita della famiglia cambiasse per sempre - conoscemmo un'anziana donna di nome Agnes Bernardette Graham. Frequentava la nostra stessa chiesa, la Holy Family Glasthule. Fu lí che la incontrammo e fu lí che continuammo a vederla per un po' di tempo, per circa un anno, credo, ogni domenica.

Glasthule in irlandese significa «la mela verde» e quando ero piccolo, il nome di questo posto si confondeva nella mia mente con la storia di Adamo ed Eva, del frutto proibito, del giardino lussureggiante dell'innocenza e con il fatto che era stata una donna a portare il peccato in un mondo prima perfetto. Ogni volta che i miei genitori litigavano in cucina, mi sedevo a parlare di queste cose con Miriam e Ruth, le mie sorelline, nel grande giardino sul retro, all'interno della capanna che nostro padre aveva costruito per noi. Siccome eravamo bambini e non avevamo di meglio da fare, cercavamo insieme di immaginare come doveva essere il Giardino dell'Eden.

Ruth diceva che probabilmente era come Disneyland, un sacco di piscine, fiumi di cioccolata e castelli di panna montata. Per Miriam era un posto dove potevi esprimere tre desideri al giorno. E potevi usare questi tre desideri per esprimerne degli altri e questi altri per esprimerne altri ancora: potevi continuare in questo modo per tutta l'eternità fino ad avare una montagna di desideri, piú di quanti saresti riuscito a contarne, figuriamoci metterli in pratica. Nel Giardino dell'Eden se lo volevi potevi fare qualsiasi cosa.

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Pagina 208

La notte del funerale di Agnes non riuscivo ad addormentarmi. Erano, se la memoria non mi inganna, forse cinque mesi che mia madre se ne era andata.

Quando scesi al piano di sotto era ormai tardi. Mio padre era seduto nella poltrona in salotto ancora col vestito nero addosso. Si era tolto le scarpe e le dita dei piedi sbucavano dalle calze. Piangeva. Con le mani si toccava il viso e dolcemente ripeteva alcune parole. Il nome che pronunciava tra le lacrime: - Rita, oh Rita, oh Rita - era quello di mia madre.

Non era la prima volta che vedevo mio padre piangere. Ma fu la piú straziante. Stava seduto con la testa fra le mani quasi volesse spalancare all'improvviso le dita e urlare: «Bu!» Immobile, singhiozzava e respirava affannosamente ripetendo il nome di mia madre come se fosse una poesia o una preghiera. Sapevo che questa volta non stava recitando.

Allora ebbi voglia di piangere anch'io. Non perché fossi turbato, ma perché volevo piangere insieme a lui. Non volevo che piangesse da solo. Desideravo mi abbracciasse e mi lasciasse piangere fra le sue braccia fino a quando le nostre lacrime si fossero esaurite. In quel momento compresi che mio padre aveva il diritto di piangere; anch'io volevo farlo ma non ci riuscivo.

Quella notte segnò la fine della mia infanzia perché quando senti che i tuoi genitori, come te, hanno diritto di piangere, ti rendi conto di non essere piú un bambino.

Quella fu anche la notte che Dio morí nella mia vita. Mi trovavo in un mondo nuovo nel quale era penetrata la morte, un mondo in cui la morte era una possibilità e un fatto che - nella frazione di un secondo - aveva cambiato il mio modo di vedere le cose, come di solito avviene nei momenti piú importanti della nostra vita, senza che uno se ne accorga.

Piú tardi, sempre quella notte, mio padre e io entrammo in cucina. Prendemmo due hamburger dalla scatola nel freezer, li facemmo friggere con un po' di pane e ci sedemmo nel salotto a guardare Starsky e Hutch alla televisione. Bevve una lattina di birra, e io del latte. Continuava ad asciugarsi gli occhi con la camicia. Appena finiva una sigaretta ne accendeva subito un'altra.

- Immagino tu sia convinto che tuo padre è un uomo terribile, - disse, - che è solo un bambino.

- No, - risposi, - non è quello che penso.

- Sí, comunque non angustiarti, - proseguí. - Sei troppo giovane per preoccuparti delle cose importanti. Non ci scoraggeremo e le cose andranno per il meglio.

- Non mi preoccupo, - dissi, - prometto.

- Bene, figliolo, - disse con un sospiro. - Una lezione che devi imparare è che le cose non diventano piú facili se la gente la pensa in un certo modo -. Schiacciò la lattina di birra e l'appoggiò sul pavimento accanto a sé.

- Non mi dimenticherò mai di quello che hai detto, - affermai. Rise di gusto e il suo volto si illuminò; mi disse che era felice di sentirmelo dire.

Rimanemmo seduti in silenzio per qualche minuto ascoltando la pioggia che aveva cominciato a cadere dolcemente sulle finestre di casa. Da qualche parte per strada un antifurto gemeva e tutti i cani abbaiavano al rombo dei tuoni.

Mio pacìre volse lo sguardo verso di me e cercò di sorridere, anche se le lacrime di nuovo gli rigavano il viso.

- Ti ho mai detto, - chiese improvvisamente, - che in certi momenti sembri proprio tua madre da giovane, quando eravamo innamorati?

- No, non me l'hai mai detto.

Abbassò la fronte e si pizzicò l'attaccatura del naso. Rimase cosí per pochi istanti e io lo osservai finché rialzò lentamente il capo e si asciugò il naso con l'interno della manica. Mi scrutò negli occhi in un modo che non gli avevo mai visto fare prima. Scosse la testa una o due volte.

- No? - disse sommessamente. - Beh, è cosí.

Rimanemmo abbracciati fino a quando il telefilm terminò e trasmisero l'inno nazionale. Ascoltammo per un po' la pioggia che scrociava in giardino. Ci chiedemmo un sacco di cose, ma non saprei dire quali. Tutto quel che ricordo è il rumore della pioggia e come mi tenevo saldamente aggrappato a lui, il suo odore, la forza delle sue spalle, il battito forte e malinconico del suo cuore di vero credente.

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