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| << | < | > | >> |Indice11 Introduzione 27 Mori Ogai: la vita, le opere 41 L'OCA SELVATICA 185 Note 191 Glossario |
| << | < | > | >> |Pagina 43È una storia di tanti anni fa. Ricordo che ebbe luogo nel tredicesimo anno Meiji [1880] per puro caso, in quanto allora stavo alla pensione Kamijó, situata proprio di fronte al grande cancello in ferro dell'Università di Tòkyò, e la mia stanza si trovava accanto a quella del protagonista della storia. L'anno dopo la pensione fu divorata da un incendio e io persi l'alloggio: ecco perché i fatti dell'anno precedente mi sono rimasti impressi. I pensionanti del Kamijó erano quasi tutti studenti di medicina, più qualche paziente in cura presso l'ospedale dell'Università. In ogni pensione c'è di solito un ospite che si distingue dagli altri per il portafoglio ben guarnito e per i modi premurosi. Non manca mai di salutare la padrona quando, passando per il corridoio esterno, la vede accoccolata davanti al suo braciere. A volte si siede anche lui all'altro lato e scambia con lei quattro chiacchiere. Organizza feste per gli amici nella sua stanza, per le quali fa preparare degli stuzzichini da accompagnare al sake. Fa in modo che la padrona si occupi di lui e, pur dando l'impressione di venire viziato da lei, in realtà le fa guadagnare qualche quattrino. È naturale che una persona del genere sia tenuta in considerazione e ne approfitti per ottenere tutto quel che vuole. Ma il mio vicino di stanza, che pure era l'ospite più in vista del Kamijò, era un tipo del tutto diverso. Si chiamava Okada; più giovane di me di un anno, era già prossimo alla laurea. Per spiegare che tipo fosse, devo cominciare col dire che era davvero un bel ragazzo: non di quelle bellezze effeminate pallide ed emaciate, ma di colorito sano e di robusta costituzione: in vita mia ben raramente avevo visto un volto simile. Molti anni dopo divenni intimo amico dello scrittore Kawakami Bizan, allora piuttosto giovane: lo stesso che, ritrovatosi senza via di scampo, pose tragica fine alla sua vita. Quando lo conobbi, somigliava un poco a Okada, salvo che quest'ultimo faceva parte di una squadra di canottaggio ed era di fisico assai più robusto di Kawakami. La bella presenza è di per sé una forte raccomandazione, ma non gli sarebbe bastata per conquistarsi un tale prestigio alla pensione. Se rivado con la memoria al suo comportamento e al suo carattere, all'epoca pensavo che ben pochi studenti conducevano una vita regolata quanto la sua. Non era di quegli sgobboni che ogni semestre si contendono il punteggio più alto per ottenere una borsa di studio. Lavorava con scrupolo, ma senza mai sforzarsi troppo, e si manteneva nella media evitando di scivolare in basso. Non mancava mai di divertirsi al momento opportuno. La sera, dopo aver cenato, usciva per una passeggiata, rientrando immancabilmente prima delle dieci. La domenica, se non era impegnato negli allenamenti, faceva qualche gita. Tranne quando pernottava a Mukòjima con i compagni di squadra alla vigilia di una regata, o tornava al paese per le vacanze estive, i suoi orari di entrata e uscita dalla pensione erano metodici. Se uno si dimenticava di aggiustare l'ora sul cannone di mezzogiorno, andava a domandarla a Okada; a volte, persino l'orologio all'ingresso del Kamijò veniva regolato con il suo. In chi lo conosceva e osservava il suo comportamento, aumentava il sentimento di fiducia nei suoi confronti. Proprio per ciò la padrona della pensione aveva preso a tesserne gli elogi, benché egli non si mostrasse troppo ossequioso, né propenso a dilapidare denaro. Non occorre dire che gran parte di questa stima era dovuta alla regolarità con cui pagava l'affitto ogni mese. «Prendete esempio dal signor Okada» la si sentiva spesso ripetere, tanto che certi studenti del Kamijò la prevenivano esclamando: «Non possiamo certo essere come Okada!». Così, senza dunque che si sapesse bene quando, era diventato una sorta di pensionante modello. | << | < | > | >> |Pagina 66L'incontro con Otama al ristorante Matsugen rappresentava per Suezò una vera e propria fête. Quando si parla di avari, si dice di solito che vivono come dei mendicanti, ma in realtà esistono varie specie di avari. Fare attenzione anche alle minuzie, tagliare in due la carta igienica prima di usarla, utilizzare una cartolina per concludere un affare scrivendo con caratteri così minuti da essere obbligati a usare un microscopio: queste sono piccole manie comuni a tutti, ma se esistono persone che arrivano a farne senza eccezione il principio regolatore della loro vita, finendo così per vivere come se si trovassero nella miseria più nera, altri invece si concedono delle piccole spese in certi campi, sì da avere qualche evasione. Il tipo dell'avaro fino a oggi descritto nei romanzi o rappresentato sulle scene sembra essere solo quello dell'avaro assoluto. Ma nella realtà, un gran numero di coloro che accumulano denaro non rientrano in questa categoria: alcuni, nonostante la loro avarizia, perdono la testa per le donne, altri invece si concedono inspiegabili lussi nel cibo. Ho già accennato al fatto che, quando ancora non era che un semplice inserviente del dormitorio studentesco, la sola debolezza di Suezò erano gli abiti eleganti. Nei giorni di vacanza, abbandonato il solito kimono a maniche strette in cotone di Kokura, indossava un abito adatto a un distinto commerciante, e se la godeva un mondo. Gli studenti, che raramente vedevano Suezò così impeccabile da capo a piedi, nell'imbattersi in lui quando uscivano a passeggio rimanevano stupefatti. Non aveva altri svaghi. Non intratteneva relazioni con donne dei quartieri di piacere, né passava da un ristorante all'altro. Di tanto in tanto si concedeva il lusso di una scodella di soba al Rengyokuan, ma fino a poco tempo prima non aveva mai permesso alla moglie e ai figli di accompagnarlo, perché l'aspetto di lei mal si accordava con gli abiti eleganti che era solito indossare. Ogni volta che la moglie lo infastidiva con qualche richiesta, Suezò immancabilmente la zittiva: «Smetti di dire sciocchezze! Per te non è la stessa cosa: io devo frequentare gente, non posso fare a meno di vestirmi come si deve». Dopo che il denaro prestato cominciò a fruttare, prese a frequentare i ristoranti, ma soltanto in occasioni che riunissero molti convitati, non certo come cliente singolo. Tuttavia, per il primo incontro con Otama, volle essere solennel e un improvviso senso di amore per la forma si impadronì di lui: per cominciare decise che doveva aver luogo al Matsugen. Quando il giorno dell'incontro si avvicinò, sorse un problema inevitabile: bisognava procurare un abito a Otama. E non si trattava soltanto di lei, perché bisognava pensare anche al padre. La vecchia che faceva da intermediaria era in grave imbarazzo, ma Otama obbediva al padre in tutto, e cercando di impedire a quest'ultimo di partecipare all'incontro si rischiava di rompere definitivamente l'accordo. Non si poteva fare nulla, perché il vecchio ragionava così: «Otama è la mia unica figlia, quanto di più prezioso abbia al mondo. Non è come le altre figlie uniche, perché è lei tutta la mia famiglia. Ho avuto una vita solitaria. Il mio unico sostegno era mia moglie, ma non riuscì mai a rimettersi dalla sua prima gravidanza, avuta a trent'anni passati, e morì subito dopo la nascita di Otama. L'ho allevata da solo, con il latte che cercavo di procurarmi in giro; a quattro mesi prese il morbillo, che allora imperversava in città; il medico aveva già rinunciato a curarla, ma io trascurai gli affari e tutto il resto per assisterla, e riuscii a salvarla. Era un periodo turbolento. In quell'anno un occidentale perse la vita nell'incidente di Nanamugi, due anni dopo l'assassinio di Sua Eccellenza Ii. Avevo perduto tutto, il negozio e il resto, e pensai allora di farla finita: ma non avevo il coraggio di uccidere con me anche la piccola e graziosa Otama che giocherellava con le manine sul mio petto e rideva guardandomi con quegli occhioni spalancati. Per lei sola sono sopravvissuto giorno dopo giorno, sopportando quello che non avrei sopportato altrimenti. Alla sua nascita avevo già quarantacinque anni, e inoltre, invecchiato com'ero tra mille difficoltà, dimostravo più della mia età. Un amico premuroso mi fece notare allora che è più facile sfamare due bocche che una sola, e che avrei potuto raccomandarmi a una vedova con qualche soldo da parte per andare a vivere con lei, a condizione però che affidassi mia figlia a un'altra famiglia. Ma per amore di Otama rifiutai risolutamente di seguire il suo consiglio. Si dice che la miseria renda stupidi: della mia Otama, che avevo cresciuto con tanti sacrifici, ho finito per farne il giocattolo di un uomo senza scrupoli, e non riesco a perdonarmelo. Fortunatamente, tutti dicono che è una ragazza a modo, sicché vorrei darla a una persona seria, ma dato che ne sono il padre, e che padre, nessuno la chiede in sposa. Malgrado tutte le nostre sfortune, non avrei mai acconsentito a farne una mantenuta; ma poiché lei mi assicura che il protettore è persona affidabile, e Otama l'anno prossimo compirà vent'anni, ho deciso di accettare per sistemarla prima che sia troppo tardi. A tutti i costi voglio però conoscere l'uomo a cui affiderò quello che è per me il bene più prezioso». | << | < | > | >> |Pagina 93Il mattino seguente Otama si recò in visita dal padre a Ikenohata, e lo trovò che aveva appena finito di fare colazione. Senza perdere tempo a truccarsi, aveva fatto la strada in gran fretta, sebbene temesse di arrivare un po' troppo presto; ma il vecchio, mattiniero per abitudine, aveva già spazzato e annaffiato per bene l'ingresso, si era ripulito, e in quel momento, seduto sul tatami nuovo, aveva appena finito di consumare la sua solitaria colazione. Di recente era stata aperta poco più in là una casa di appuntamenti, e a volte la sera c'era una certa animazione, ma le case vicine, sui due lati, tenevano sempre chiuse le porte a graticcio, e soprattutto la mattina la zona era molto tranquilla. Dalla finestra della casa del vecchio, tra i rami dei pini a ombrello, si scorgevano le fronde dei salici che oscillavano lievi alla fresca brezza del mattino e, più oltre, le foglie di loto che ricoprivano rigogliose la superficie dello stagno. In mezzo a quel verde spiccavano qua e là le macchie rosso chiaro dei fiori appena sbocciati. Dicevano che la casa, rivolta a nord, doveva essere piuttosto fredda, ma molto confortevole in estate. Fin dall'età della ragione, Otama si era sempre ripromessa, se la fortuna l'avesse aiutata, di fare per suo padre qualsiasi cosa. Nel constatare ora con i suoi occhi come si trovasse bene nella nuova casa, comprese che la speranza che non aveva mai smesso di coltivare poteva dirsi realizzata, e si sentì felice. Eppure alla felicità si mescolava una punta di amarezza. «Se potessi vederlo in altre circostanze, quanto più grande sarebbe la mia gioia!» pensava, profondamente irritata dall'impossibilità di cambiare il corso degli avvenimenti. Posati i bastoncini, il vecchio stava prendendo il tè che aveva versato in una tazza, quando sentì aprirsi il cancello d'entrata che nessun visitatore aveva ancora oltrepassato. Sorpreso, appoggiò il recipiente e volse lo sguardo all'ingresso. Il paravento di canne a due pannelli gli nascondeva ancora la figura dell'ospite, ma quando udì la voce di Otama che lo chiamava, represse l'impulso di levarsi per andarle incontro e restò immobile, riflettendo sulle parole con cui l'avrebbe accolta. Era tentato di domandarle: «Dunque non ti eri dimenticata di tuo padre?»; ma nel vederla entrare precipitosamente e farglisi accanto in atteggiamento affettuoso, quelle parole non vollero uscirgli di bocca e, pur furioso con se stesso, si limitò a fissarla in silenzio. Come era diventata bella! Di Otama era sempre stato orgoglioso, e anche quando vivevano in miseria aveva avuto cura che fosse impeccabile nell'aspetto, badando inoltre a non gravarla di compiti troppo faticosi. In quei dieci giorni in cui erano rimasti lontani, tuttavia, sembrava rinata. Per quanto duramente potesse lavorare durante la giornata, quasi per istinto aveva sempre fatto attenzione a tenersi in ordine; eppure, paragonata alla donna che ora dedicava del tempo alla sua toilette quotidiana, l'immagine rimasta nella sua memoria era quella di una pietra preziosa ancora grezza. Che si tratti di un figlio agli occhi dei genitori, o di un giovane agli occhi di un vecchio, quello che è bello resta bello, e genitori e vecchi devono piegarsi di fronte alla bellezza che ha il potere di ingentilire gli animi. | << | < | > | >> |Pagina 141Questo è quanto mi raccontò Okada. Le nuvole correvano rapide nel cielo e un vento furioso si era levato con impetuose folate che facevano turbinare la polvere nella strada; poi, passato mezzogiorno, era cessato. Okada, che aveva trascorso l'intera mattinata a leggere il romanzo cinese, sentiva la testa pesante e, uscito dalla pensione senza una meta precisa, per forza d'abitudine svoltò in direzione di Muenzaka. Aveva ancora il cervello annebbiato. Nei romanzi cinesi, infatti, e in particolare nel Jin Ping Mei, accade sempre così: dopo aver raccontato una storia molto tranquilla per dieci o venti pagine, lo scrittore passa a descrivere, come vuole la convenzione letteraria, fatti osceni. «Avendo appena letto un libro simile, dovevo avere proprio l'aria di un bruto!», esclamò. Poco dopo, giunto al punto in cui la strada costeggiava sulla destra il muro in pietra della residenza Iwasaki e scendeva impercettibilmente, vide sulla parte opposta una piccola folla. Si era raccolta proprio davanti alla casa a cui lui, nel passare, riservava sempre un'attenzione particolare, ma questo Okada nel fare il suo racconto si guardò bene dal rivelarmelo. Il crocchio era formato soltanto da donne, forse una decina. Una buona metà erano ragazzine che discutevano animatamente, ciangottando come uccellini. Prima ancora di avere il tempo di capire di che si trattava, o che si risvegliasse in lui la minima curiosità, mosse qualche passo verso il gruppo spostandosi dal centro della strada. Lo sguardo di tutte quelle donne convergeva verso un unico oggetto: non fece che seguirlo, scoprendo così la causa dell'agitazione. Si trattava della gabbietta dei bengalini appesa in alto, alla finestra con la grata di bambù. Le donne avevano ben motivo di fare tutto quel chiasso. Okada stesso rimase di stucco nel vedere quel che accadeva all'interno della gabbia. Un bengalino batteva le ali e svolazzava freneticamente in quello spazio ristretto. Pensando che qualcosa doveva spaventarlo, guardò meglio e vide che una grossa biscia verde aveva infilato la testa nella gabbia. Sembrava fosse riuscita a incunearsi tra le sottili canne di bambù, ma, almeno a prima vista, non pareva averle spezzate. Si era aperta un varco della grossezza del suo corpo e vi aveva infilato la testa. Deciso a osservare meglio, avanzò di qualche passo e si fermò dietro il gruppetto delle ragazze, disposte spalla a spalla. Di comune accordo, quasi l'accogliessero come un salvatore, le donne gli aprirono un passaggio permettendogli di farsi avanti. Fu allora che si rese conto che nella gabbia non c'era un solo bengalino. Oltre a quello che batteva le ali svolazzando in ogni dove, ce n'era un altro dello stesso piumaggio che la biscia aveva già afferrato. Un'ala era ormai per intero nelle sue fauci, e il bengalino, atterrito, sembrava già morto: l'altra ricadeva inerte e il corpo pareva un batuffolo di cotone. In quel momento una donna un poco più anziana delle altre, che aveva l'aria di essere la padrona di casa, si rivolse a Okada con tono ansioso, ma non senza un certo riserbo, domandandogli se poteva fare qualcosa. «Tutte queste ragazze, che erano nella casa vicina per la loro lezione di cucito, si sono precipitate in massa per aiutarmi, ma da sole che possiamo fare?». Una delle ragazze intervenne: «La signora, sentendo che gli uccellini facevano un gran baccano, ha aperto gli -cor shoji e vedendo il serpente ha lanciato un grido; allora noi abbiamo abbandonato il lavoro e siamo corse fuori, ma non c'è niente che possiamo fare! La nostra maestra è assente, e se anche fosse qui, ha una certa età, e non potrebbe fare nulla neppure lei». L'insegnante di cucito, difatti, non faceva vacanza la domenica, bensì nei giorni che terminavano per uno o per sei, ed ecco perché quel giorno le sue allieve si erano riunite senza di lei. A questo punto del suo racconto, Okada disse: «La padrona di casa era una donna molto bella», senza però rivelarmi che la conosceva già di vista e che era la stessa a cui rivolgeva il saluto ogni volta che passava di lì.
Prima di rispondere, si era quindi fatto sotto alla gabbia per osservare
meglio. La gabbietta era appesa alla finestra, dalla parte della casa della
maestra di cucito; la biscia doveva essere giunta dallo spazio tra le
due case, poi, strisciando sotto la tettoia, aveva adocchiato i bengalini e si
era infilata nella gabbia. Simile a una corda tesa, il suo corpo si allungava in
diagonale rispetto alla trave della tettoia, mentre la coda rimaneva nascosta
dal pilastro d'angolo. Era davvero molto lunga. Doveva aver vissuto nel giardino
della residenza Kaga, invaso da una fitta vegetazione, e in seguito al
cambiamento di pressione atmosferica degli ultimi giorni se ne era uscita,
vagabondando per un po', fino a che non era arrivata a mettere l'occhio sui due
bengalino. Okada esitò un istante senza saper che fare. Quelle donne non avevano
torto nel dire che non potevano intervenire.
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