Copertina
Autore Claude Olievenstein
Titolo La scoperta della vecchiaia
EdizioneEinaudi, Torino, 1999, Grandi Tascabili 656 , pag. 150, dim. 135x208x11 mm , Isbn 978-88-06-15317-5
OriginaleNaissance de la vieillesse [1999]
TraduttoreSilvia Marzocchi
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe scienze umane , psicologia , medicina
PrimaPagina


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Pagina VII

In California, una mattina, in cima a un colle. Guardo da un lato i riflessi del mare sul Golden Gate, e dall'altro la città che risplende, bella da lontano quanto da vicino. Siamo agli inizi degli anni Sessanta. Ho mandato giú un acido mangiando un hot dog kasher. L'autoradio trasmette Lucy in the Sky with Diamonds. Da allora non ho piú ritrovato un tale momento di felicità, di bellezza, di pienezza, di sapore, nella magia di quel luogo unico.

Per venticinque anni ho vissuto con la nostalgia, il dolore, di essere stato cacciato da un paradiso. Non sono piú tornato in quel posto preciso, senza dubbio per il timore di essere deluso rispetto a un ricordo inevitabilmente idealizzato. Avrei potuto tornarci, cercare di ricreare quel paradiso perduto. Non l'ho fatto. E poi un giorno, banale come tanti altri, ho capito, in modo assoluto, che non mi sarebbe piú stato possibile tornarci. Il ricordo era ancora presente, forse abbellito, ma non avrebbe piú potuto concretarsi. Mai piú. Il mio corpo, la mia mente, non erano piú in condizione di compiere un passo simile. Era troppo tardi. Un punto di non ritorno era stato superato. La rivoluzione del tempo era compiuta. C'erano un «prima» e un «dopo».

Quel che vorrei analizzare qui è questo slittamento, questo passaggio. Non con gli strumenti della demografia, della sociologia o della biologia, discipline che ci fanno progredire nella conoscenza «oggettiva» dell'invecchiamento, ma attraverso una fenomenologia dei sentimenti, delle sensazioni, delle emozioni, per tentare di circoscrivere ciò che vuole dire invecchiare. Il tempo d'imparare a vivere - scriveva Aragon - ed è già troppo tardi. Vorrei esplorare questa corsa contro il tempo perché, in un certo modo, è rivelatrice dell'umanità propria dell'uomo, in ciò che ha di grandioso e di vile. Gli interrogativi sull'invecchiamento sono interrogativi sulla finitudine dell'uomo e sulla sua libertà.

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Pagina 5

Capitolo primo

Li sento, i tormenti dell'invecchiamento. Ho sempre saputo che la canzone di Jacques Brel era vera. Adesso succede a me e ne conosco l'ineluttabile progressione. Ho ancora una certa libertà di movimento. Ma la memoria, quella, non sta al passo. Una qualsiasi lettera diventa un problema. Gli esercizi mentali si avvizziscono. Giro e rigiro nel cervello le stesse parole. Eppure, a parte questo, la testa funziona. Perde alcuni colpi, senza cessare, nei campi di sua competenza, di stupire, di essere un po' originale, vicina quanto possibile alla verità, al reale. Il corpo, invece, gonfio, panciuto, mi fa pagare ogni giorno di piú le sevizie che gli ho inflitto per molti anni.

Non rimpiango niente. Ho sempre piú paura, prima del tempo. Guardo con invidia i vegliardi, di vent'anni piú anziani di me, che corrono ancora, occupano le tribune o le presidenze nonostante la senilità, le dimenticanze, i buchi neri di un pensiero rimasto vivace. Soprattutto non diventare infermo, né rimbambito. Alla morte preferirei certo la dipendenza, anche se i legami con un'altra persona dovessero essere venali. Sono pronto ad accettare molte cose pur di vivere un po' piú a lungo. Forse, soltanto una sofferenza straziante potrebbe farmi cambiare idea.

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Pagina 30

Chi diventa vecchio è sempre ambivalente. Sa piú cose, impara a economizzare il tempo, a sprecarlo meno. D'altro canto avrà sempre piú nostalgia di quel che non può piú fare, anche se cerca, tramite la moda, il linguaggio, la musica, lo sport, di essere piú vicino ai giovani, il cui modello imperversa e sembra dominare il mondo. Nei fatti potrebbe essere il contrario, perché il potere appartiene ancora e sempre agli adulti, piú o meno anziani.

Insieme alla morte, e prima del sesso, il potere è diventato una delle cose piú importanti al mondo, soprattutto a partire dalla scomparsa di certi ordinamenti religiosi che mettevano i poveri con i poveri e i ricchi con i ricchi. Che si tratti del potere politico, economico, va da sé. Ma la nuova rivendicazione è il potere del piacere. E la posta in gioco di una competizione feroce, poiché il successo di massa di certi giovani idoli non deve farci dimenticare il dominio d'immense lobby sull'industria dello spettacolo o su quella della comunicazione. L'altro campo di battaglia è quello dell'informatica, in cui il sapere degli adulti è invecchiato improvvisamente, al punto che una delle date d'ingresso nella vecchiaia può essere quella del primo licenziamento per mancanza di competenza moderna.

[...]

Tra le tappe si vive quel che possiamo chiamare la monotonia del tempo. Diventa sempre piú difficile interessarsi alle novità, essere rivoluzionari. La monotonia sta nella ripetizione di atti che ritornano con regolarità, come una tassa, senza defezioni. Siamo obbligati a ripetere tali atti, quantomeno per sopravvivere. Non ci dispiace farli perché riempiono il vuoto, consentono di acquisire sempre piú esperienza, che sia familiare, professionale o sociale. Il grano va macinato, è un lungo processo, come illustra Umberto D. di Vittorio De Sica, in cui il tempo di macinatura è reale e invade tutto il film. La vita sta in questo, simile a quella macinatura in tempo reale dove lo sforzo per compiere tutte le azioni e i lavori necessari e insieme insopportabili è enorme ad ogni istante. Quando arriva il tempo del disincanto e tutto diventa lungo, senza sorprese, allora compaiono anche i segni di una certa vecchiaia, sempre piú ridotta ad atti semplici accompagnati dalla serie dei ricordi, dai piú idealizzati ai piú snaturati.

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Dando un senso alla propria vita diventa possibile, se non indispensabile, far pendere la bilancia dal verso giusto, vivendo la propria vita all'insegna di un paganesimo godereccio o, al contrario, aderendo a una fede, andando verso un Dio che organizza, trascendendole, tutte le tappe a venire. Credere in Dio non elimina l'angoscia di morte, ma la credenza che sfocia nella promessa di vita eterna consente una speranza, un antidoto al vuoto vertiginoso che ci invade quando il campo della coscienza è riempito dagli interrogativi sulla propria morte. Questa prospettiva permette piú facilmente il lungo lavoro del tempo, ma non è accessibile a tutti, o perlomeno non senza che persista un dubbio. Chi non si porrebbe delle domande sul senso dell'esistenza di Dio dopo Auschwitz o i massacri in Cambogia, in Ruanda, in Serbia?

Il guaio è che non c'è reciprocità tra Dio e l'uomo. Ci può essere solo un dialogo tra sordi. L'uomo deve avere fede a priori, per una data ulteriore, non fissata, mentre il genocidio alla luce del sole non aspetta, non è fuori dal tempo, è una prova in sé. Anche se l'uomo qualunque non si pone domande sul genocidio, la sola condizione umana, con le sofferenze, il cancro, la morte di persone care, è ampiamente sufficiente per dubitare dell'esistenza di Dio. Allora siamo soli di fronte all'assurdo, al caso, al ridicolo. Sta a ciascuno di noi fondare un senso, dare alla propria vita un senso. Quindi, se l'uomo è capace di dare alla vita un senso che sia saldo, credibile, strutturato, è di nuovo possibile credere in Dio, poiché l'uomo è capace d'inventarlo. Questa è la salvezza o la prova dell'impossibilità fondamentale e radicale di credere?

Lungo questo cammino, come lungo quello della morte, ognuno è solo, libero di scegliere nella misura in cui glielo permettono la sua affettività, la sua angoscia e la sua solitudine, e schiavo nella misura in cui glielo impongono la pressione sociale e le paure transgenerazionali intrinseche all'uomo.

L'uomo crea Dio a sua immagine, cioè a immagine dei suoi genitori, dei suoi nonni e di altri membri della parentela. Sin dall'infanzia sperimenta l'invecchiamento altrui. Sa che gli altri sono come lui, li osserva confrontandoli con se stesso. La vita comincia con lo stadio dello specchio che, durante tutto il cammino, diventerà il punto di riferimento. Lo specchio uccide, efficace come una pugnalata. Alcuni piú o meno lo nascondono, altri ne sono affascinati al punto da passarci davanti ore e ore, conferendo a questo strumento, anch'esso creato dall'uomo, poteri divini quanto quelli del grande Libro dei morti di cui abbiamo parlato. Narciso nasce tra questi dèi, trova il proprio posto in questo specchio che è l'acqua della fonte, tanto che vi annega per baciare la propria bellezza. Coloro che si guardano troppo allo specchio sono i fratelli gemelli di Narciso.

Un tempo (e oggi nei Paesi poveri) la forza lavoro, il posto occupato nella ripartizione dei compiti determinavano la nostra posizione. A ogni servizio reso corrispondeva un omaggio. Gli anziani continuavano ad essere nutriti dalla comunità, potevano partecipare alla vita del gruppo, ai consigli dei saggi, benché nei periodi di penuria, di carestia o di genocidio la loro sorte non fosse tra le piú invidiabili. Altrove le selezioni, franche o subdole che fossero, potevano essere spietate, come dimostra bene la prova della palma. Nei Paesi industrializzati il denaro modifica questo sistema di cose. Chi ne possiede non ha la stessa posizione del comune mortale rispetto all'invecchiamento. Il denaro permette di comprare la bellezza, un valore estremamente importante, la bellezza viva, plastica della giovinezza: comprare la nostra attraverso la chirurgia estetica e quella degli altri circondandosi di giovani - come quel famoso produttore discografico dagli innumerevoli matrimoni. Ma anche la bellezza delle collezioni d'arte, degli oggetti preziosi, delle ville hollywoodiane. Laddove i loro coetanei sono esclusi, i ricchi troneggiano con fare da padroni, scegliendo tra le giovani leve le piú servili, quelle pronte a tutto. Allora s'instaura un'altra regola sociale, quella del do ut des, la cui figura piú cinica e piú antica rimane «io ti do il mio corpo, tu mi fai viceré».

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I ricchi non invecchiano come gli altri. Se non possono comprare la giovinezza, possono curare di piú il proprio corpo e concedersi piú illusioni. Chi non ha presente quelle donne liftate, riliftate, straliftate, a volte nel desiderio patetico di trattenere un marito infedele o un amante piú giovane. È difficile crederlo, ma alcuni dirigenti d'industria fanno altrettanto. Perché oggi la giovinezza del corpo, la cura di sé sono punti a favore in una carriera, tanto piú che le serie televisive americane diffondono l'immagine quasi standardizzata del magnate tanto ricco quanto bello.

Parlare, scrivere, descrivere l'invecchiamento vuole dire imboccare la strada di un racconto storico. Niente ha significato se non la storia di una vita, che sia lineare o fitta di turbolenze. Forse vuole anche dire non rimanere passivi, dare senso a quel che non ne ha e analizzare quel che in apparenza sembra frutto del caso, il caos non previsto, per dimostrare a se stessi che esiste una vera strada. Costruire questo senso significa erigere un bastione contro l'ineluttabile che è il nonsenso della fine.

Analizzare incessantemente il nonsenso può essere una prova pericolosa che conduce a una profonda malinconia depressiva. Scrivere la storia della propria vita invece permette di lottare contro il nonsenso, di fare ordine nel caos, di sostituire la necessità alla fatalità. Secondo le circostanze l'uomo è diviso tra queste due posizioni, tanto piú che assistiamo alle morti altrui, spesso accompagnate da sofferenze inaudite, completamente ingiuste. Ogni volta si tratta per noi di un interrogativo. Allora, se la nostra volontà di vivere è reale, importante, immediata, bisogna sbrigarsi, lanciarsi di nuovo nella mischia, vivere pienamente l'istante che passa. Non fare troppo gli indifferenti di fronte a un momento di felicità. Possiamo essere in parte padroni del nostro futuro, influenzare il destino semplicemente perché decidiamo di dare un senso alla nostra esistenza. Non bisogna lasciare il tempo scorrere da solo, bisogna creare degli spazi, dei ritmi. La ripetizione è importante quando non è monotonia, una parte di sogno deve continuare a esistere senza che ci si lasci andare alle illusioni: non verrà alcun principe azzurro a svegliare la bella addormentata nel bosco, né una fata a portarci l'acqua della fonte dell'eterna giovinezza o a gettarci un sortilegio che ci faccia invecchiare píú in fretta o ci paralizzi dai dolori.

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Pagina 43

Solo la cultura, forse, permette di intravedere la possibilità di altre cose, di altri sensi. Anche le religioni hanno avuto il ruolo di dare un senso promettente a ciò che è extraterrestre, transfinito. L'uomo qualunque, quello che si sposa ad appena cinque chilometri di distanza da dove vive, anche se volesse non ha gli strumenti sufficienti per sfuggire all'immediatezza. La vecchiaia non è immediata, non arriva d'un tratto. In realtà nasce a poco a poco da gesti ed eventi sociali o da sintomi, fa il proprio letto come un fiume. Dapprima è un accumularsi di piccoli segni, di sintomi-segnali che prendono forma gli uni con gli altri. Il ruscello sfocia nel fiume che si getta in altri per arrivare al delta, quindi alla foce.

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Pagina 47

Gli acefali vivono, mangiano, defecano, borbottano, eppure la loro vita è vegetativa, senza linguaggio, senza comunicazione. Moriranno senza avere vissuto, senza partecipare della nostra vecchiaia, senza rendere conto al tempo. Non si pongono gli interrogativi sull'infinito, tanto meno sul transfinito. Ma, per quanto menomati, hanno volto umano. Se soffrano della vecchiaia, nessuno è in grado di dirlo. Conoscono la pubertà, ma non la soddisfazione sessuale poiché non hanno alcuna autonomia. Alla luce di questa realtà, la nostra riflessione sulla vecchiaia è seriamente messa in discussione, quanto il problema eterno della solitudine. Com'è la loro? A parte il dismorfismo, che cosa ci fa cosí paura in questa caricatura dell'essere umano? Questa assoluta differenza invalida i nostri interrogativi sul senso della vita? Il nostro rifiuto dell'assurdo, la nostra volontà di trovare un senso, attraverso le tappe della vita, sono vani? L'invecchiamento non è forse soltanto lo stato di un essere destinato a scomparire come un insetto, come un maggiolino la cui sola funzione è stata quella della riproduzione della specie, generazione dopo generazione?

Eppure pensiamo, creiamo Dio, le culture, le religioni, costruiamo delle città, degli arsenali e dei musei. Definiamo il bello e il brutto. Sappiamo amare e sappiamo odiare. Nessuna specie animale lo fa come noi.

È l'altro a dirci che la nostra esistenza ha un senso, ad attestare dopo la nostra morte che è vero, reale, che siamo esistiti, che la nostra vita si è svolta in questo o in quel modo. Sarà lui l'erede del nostro pensiero, la memoria della nostra memoria. Testimonierà quanto eravamo belli da giovani, come siamo ingrassati, come abbiamo perduto i capelli, sviluppato il diabete o scritto poesie. Soprattutto ci ricollocherà nella dimensione del tempo. Riceviamo dai nostri genitori per dare ai nostri figli. La vecchiaia diventa anche un passaggio transgenerazionale. Ha una missione. Non è solo subita. Partecipa di tutto il genere umano nella lunga catena della vita. L'altro ascolta, poi parla. Risponde a ciò che gli diciamo. Quindi non siamo qui solo per la riproduzione. Siamo creatori di storia e, conseguentemente, di senso. La nascita della vecchiaia è l'ingresso nell'età in cui la trasmissione può compiersi.

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Pagina 54

Dopo la cinquantina è in campo sociale quanto biologico che si valutano le possibilità, poi le concessioni, quindi i divieti dettati da se stessi o dall'esterno. La vita è spesso bella, arricchita dall'esperienza. Per i piú fortunati questo è il periodo del perfezionamento, in cui si legge Marcel Proust cogliendone i significati reconditi e in cui i rapporti sessuali non si limitano alla possessione. Certo stiamo uscendo dall'era del libro, tuttavia a cinquant'anni è possibile leggere meglio, apprezzare la lirica o le variazioni di Goldberg, scoprire una visione nuova di ogni opera d'arte, un significato che ne suggerisce un altro che sfocia a sua volta in un altro e cosí via. La vita è ancora dolce, meno violenta delle esplosioni dell'adolescenza. Questo non vuol dire che non si vivano piú le passioni (anzi, a volte possono essere fortissime), ma implica una maggiore possibilità di fare compromessi, di nutrire tenerezza, comprensione per i moti intimi dell'altro, degli altri. In un certo modo, in questa rinascita si può vivere una nuova luna di miele con la vita, sempre supponendo che i mezzi materiali siano sufficienti e che la dignità non nasconda né la miseria né la solitudine. Ma quel che turba fino allo spavento è l'ineguaglianza delle possibilità, una vita dura per gli uni, la gioia di vivere con tutti i vantaggi possibili per gli altri. Le risposte non sono già piú adeguate alle domande e rischiano di diventarlo sempre meno, di non mettere a frutto molte possibilità. Questa evoluzione fa di ogni uomo un infermo in potenza. Il destino di ciascuno è inscritto nel contesto materiale come in quello psicologico. Davanti alle difficoltà della vita alcuni cominciano presto la propria vecchiaia, vivono nell'anticamera della morte sin dalla cinquantina, fissandosi sul dolore o sulle avversità. Altri costruiscono un'immagine ingannevole di se stessi, essenzialmente per gli altri e attraverso gli altri. Sono orgogliosi del proprio senso di responsabilità, lo sguardo dell'altro li modella e al contempo li giustifica. Altri ancora sono edonisti, alcuni fino alla perversità, e approfittano della propria esperienza per raggiungere i loro fini. Se ne hanno le doti, dominano gli esseri piú fragili e piú giovani. Chiunque sia stato succube di un capetto lo sa, l'ha vissuto. Gli Oliver Twist sono piú comuni di quanto non si creda. Quindi, se per alcuni il fardello delle responsabilità è pesante, reale, per altri può essere l'alibi per un rapporto sadomasochistico.

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Pagina 84

[...] In genere nella vita di una società civile, dove la miseria è diventata marginale, i valori principali sono la salute, la conservazione degli equilibri, la negazione dell'età. Ognuno ha i propri rimedi. La pubblicità livella le differenze, crea una cultura di massa uniforme. Per esempio, l'ossessione del colesterolo o dell'ipertensione arteriosa fa parte dei miti del nostro tempo a tal punto che potremmo dire che siamo entrati collettivamente negli «anni colesterolo».

La cultura, che amalgama tutto, allo stesso tempo crea delle distinzioni per gruppi d'età. Non parlo della cultura elitaria dei secoli scorsi, ma di quella odierna che ci intossica attraverso la musica e le mode di massa. Una cultura che divide le generazioni crudelmente quanto la biologia. La discriminazione avviene in base ai gusti musicali, al look, ai luoghi che si frequentano. In alcune discoteche o in certe saune ci sono buttafuori che selezionano in base alla fisionomia o al modo in cui si è vestiti, dando cosí man forte alla tendenza generale: i vecchi con i vecchi, i giovani con i giovani. A volte la paura del ridicolo diventa a tal punto un valore in sé che perfino il denaro non è piú un rimedio. Esistono,luoghi corrotti dove la gioventú si vende al potere del denaro (cosa non faremmo per farci vedere su uno yacht a Saint-Tropez). Alcuni sfuggono alla regola comune, ma tutti, in massa o individualmente, con orgoglio o ritrosia, arriveremo alla vecchiaia, alle malattie, alle limitazioni.

L'intelligenza può aiutarci solo se ha il coraggio, la volontà, la competenza per sviluppare un pensiero, una cultura o per dar vita a un'opera. Forse questa è la ragione per cui gli intellettuali, piú delle persone mondane, sembrano attraversare meglio le età e si circondano in modo meno effimero di giovani piú sinceramente rispettosi che interessati. I veri intellettuali sono estranei alle mode. Appartengono sia al passato che al futuro, permettono ai giovani di credere nell'avvenire. Questo dovrebbe essere anche il ruolo delle Chiese, che in teoria ci preparano a una vita futura, oltre la morte. Ma si tratta di una consolazione, di un accompagnamento, mentre gli intellettuali dominano il corpo attraverso un pensiero, ridanno speranza attraverso un'etica di vita in quanto preferiscono la ricerca costante del senso all'autocommiserazione. Per di piú gli intellettuali hanno un alto ideale dell'io, che esige il superamento delle proprie possibilità. Questo permette di resistere meglio al logorio del tempo, di prepararsi meglio ad affrontare i segni dell'invecchiamento creando poli d'interesse sufficienti per vivere con se stessi. L'altra faccia della medaglia è che una sensibilità squisita può dar luogo, attraverso la ricerca del senso o di un'immagine positiva di se stessi, all'irruzione massiccia dell'angoscia di morte, accompagnata da vere e proprie malinconie depressivi che possono in casi estremi condurre al suicidio.

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Pagina 86

Che la soddisfazione del desiderio sia piú difficile da raggiungere e richieda sempre piú una messinscena d'ordine cerebrale non significa che il piacere diminuisca. Il piacere esiste a ogni età, ma i meccanismi si complicano e per via della stanchezza e del logorio si diventa piú esigenti. In questo caso l'invecchiamento sta nel sentimento di qualcosa di già vissuto, già provato, nell'assenza di mistero. Forse questa è una ragione del perpetrarsi delle religioni, in quanto vivere senza la speranza di un benché minimo mistero significa spalancare le porte al richiamo della morte. Per alcuni la presa di coscienza del proprio invecchiamento è segnata da un ritorno alla fede o dalla sua scoperta. Questo ritorno per alcuni funge, almeno in parte, da assicurazione sulla vita, anche se questo non ne mette in discussione la sincerità. Ma è un ritorno preceduto o accompagnato dall'angoscia di morte. Angoscia che invade il campo della coscienza e tormenta le notti insonni, dove si scontrano in un vortice i problemi personali, il peso degli sbagli commessi, gli insuccessi che ci aspettano domani, l'angoscia della propria morte, quella della morte di un parente, che sia annunciata o semplicemente temuta.

La fede prepara al decadimento, poi alla morte. Anche se essa fa di noi dei peccatori, l'inferno è sempre meglio del nulla. Inoltre la fede trascende il problema della bruttezza che invade il corpo nella fase del declino e segna profondamente il viso, fa pendere il mento, scava le orbite, assottiglia le labbra a forza di cattiveria. In assenza di fede queste stigmate logorano, tormentano, disperano. La fede considera relative le apparenze e valorizza una battaglia piú intima. Il senso di colpa può diventare un interrogativo positivo perché si profila la possibilità dell'eternità. C'è o può esserci un vero e proprio sistema di compensazione rispetto a ciò che viene a mancare sul piano dei rapporti sociali, della soddisfazione del desiderio, dell'esercizio del potere. L'uomo, certo, può chiedere di piú, può anche voler fermare il tempo. Vivere senza credere, agnostici, è piú difficile che aderire a un sistema che propone, in terra, luoghi di preghiera, incontri con altri credenti, riti che promettono, contro ogni evidenza, un futuro piú radioso. Per alcuni è probabile che col finire dell'edonismo comincino i guai, perché in qualsiasi situazione bisognerà dimostrare, provare, affermare la propria efficacia, imporsi come alla fine dell'adolescenza. È un gioco sociale che può rivelarsi ridicolo o pericoloso se le sue regole diventano crudeli per il narcisismo del soggetto.

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