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| << | < | > | >> |IndicePremessa 3 Non tutto è come sembra 13 Atto primo 15 Atto secondo 19 La vita di Porta Palazzo 23 I maleducati ogni tanto siamo noi 27 È il numero a fare la forza: l'unione viene dopo 30 Euse e Ruben diventano amici 33 Entra in gioco la polizia 35 Conosco il mio vicino di casa 39 Condivido con Ruben la mia esperienza 44 Non ci sono solo gli arabi 49 I divieti non valgono per tutti 53 Ricevo un ospite inaspettato 55 Pensiline e tritarifiuti 58 Il Balon 61 Il passato, a volte, ritorna 64 Incontri strani per le vie del borgo 67 Duecento metri non sono uguali dappertutto 70 Insegnamenti liceali discutibili 73 Mi illudo di lavorare nei Servizi Segreti 76 La neve fa fuggire la clientela del mercato 79 Negli inseguimenti vince solo chi è perfetto 84 Supermercato cinese con buttafori nigeriani 87 In piena notte non tutti dormono 90 Sono assalito da una furia statistica 93 Esami universitari con sorpresa 97 Si parla di immigrazione 99 Durante le Olimpiadi tutto cambia 105 Dopo, tutto torna come prima 108 Forti coi deboli e deboli coi forti 110 Una sorpresa mi aspetta 115 Quali sono le vittime? 121 C'è chi inizia la giornata in piena notte 126 Non sono sempre rose e fiori 132 Torno a casa e incontro Mohammed 138 L'approccio alla politica non è uguale per tutti 143 A casa mia non oso guardare fuori dal balcone 145 I film di Spike Lee sotto casa 148 Un'usanza araba è sconfinata in Europa 151 Hänsel e Gretel in versione macabra 155 Storie dell'immigrazione che si intrecciano 158 Una coperta cade e sparisce 164 Tra briscola e progetti 169 Il troppo stroppia 173 A tutto ci si abitua 179 Non bisogna avere paura 181 In Cina, passando per Mongolia e Russia 186 Il tempo sta per scadere 188 Se nessuno ha mangiato l'anguria 191 Ultimo giro e un commosso arrivederci a Porta Palazzo 194 |
| << | < | > | >> |Pagina 3PREMESSATorino, parco del Valentino; 22 giugno 2002, ore 23. Fa molto caldo. È un caldo arrabbiato e afoso, si fa quasi fatica a respirare. Sono a zonzo nella notte torinese con altri quattro ragazzi di ventitré anni: due colleghi universitari e due aitanti giovani valdostani. Chiacchieriamo, trovando un po' di refrigerio nella dolce brezza della riva del Po. Il parco del Valentino è molto affollato. Ci sono ragazzi che bevono birra, genitori con bambini vocianti al seguito, coppiette che passeggiano mano nella mano e gruppi di giovani stravaccati sul prato che fumano canne suonando gli djembé. L'atmosfera è rilassata, noi anche. Passeggiamo e chiacchieriamo. Chiacchieriamo e passeggiamo. Ogni tanto diamo qualche golata alla nostra birra ghiacciata. «Guarda che bella quella... eh, no, non si può andare in giro vestite così!» dice uno dei quattro. «Si può, te lo assicuro. E va benissimo così. Tu resta lì a guardare perché tanto me le faccio tutte io» risponde Socio, il mio amico. L'ho conosciuto all'università, per caso, il primo giorno. Per qualche misterioso motivo ci siamo seduti a fianco, abbiamo iniziato a scherzare e abbiamo subito legato. Ora ci vediamo quasi tutte le sere. In nome della nostra amicizia nasce il suo soprannome, "Socio", perché per me è un vero amico. Dell'altro suo soprannome, Zizzania, lascio intuire le motivazioni. Diciamo solo che nella vita gli piace un sacco rompere le palle. È un bravo ragazzo, brioso e intelligente, molto simpatico, grande imitatore di tutti i dialetti d'Italia, un po' sbruffone, un po' vanitoso. Sconfina nella molestia quando è ubriaco. Una volta per poco non ci siamo menati, o meglio, non ci siamo menati perché ci hanno divisi, altrimenti ce le saremmo date di santa ragione. Si esprime con un linguaggio colorito e ha un viso particolarmente espressivo, che lui sfrutta abilmente per risultare ancora più divertente. «Cosa vorresti fare tu?» gli rispondo; «Da quando ti conosco l'unica donna con cui ti ho visto parlare è tua madre!». «Oh, sciocchino,» mi dice Socio con aria boriosa e un'espressione insolente che mi fa un sacco ridere, «ho fatto più sesso io il mese scorso che tu in tutta la vita!». Scoppio a ridere, e mentre lo faccio vedo con la coda dell'occhio un gruppo di giovani nordafricani che corre. Un attimo dopo mi arriva addosso un getto di liquido. "Ah, finalmente un po' d'acqua", penso. Una frazione di secondo dopo sento bruciare. "Cazzo, è acqua bollente!" Passa un'altra frazione di secondo. "Cazzo, cazzo, cazzo, non è acqua bollente, questo È ACIDO!" Urlo come un pazzo e mi metto a correre verso il Po. Voglio buttarmici dentro. Intravedo una fontana. Correndo mi precipito sotto il getto d'acqua. Mi tolgo la maglietta. È ridotta a brandelli. Qualcuno prende un secchio e mi rovescia litri d'acqua addosso. Non capisco più niente. Sento bruciare anche la faccia, la testa e le braccia. Temo per il mio viso, per la mia schiena, per le parti del corpo che non riesco a vedere. Quelle che vedo mi spaventano. Sono viola, rosse, verdi. Non c'è più la pelle, vedo la mia carne. L'acido scava, scava, e io non capisco come sono conciato. So solo che molti passanti si girano increduli, si fermano qualche secondo per capire cosa è successo e fanno una faccia schifata. Sto male. Fisicamente e psicologicamente. Ripenso a quel giorno, a scuola, nell'aula semibuia di chimica. Un mio compagno di classe, che non spiccava per intelligenza, aveva rovesciato una boccetta addosso a un tizio con cui stava litigando. Sebbene la cosa non avesse avuto esiti tragici, non avevo mai visto il professore così arrabbiato. «Non si scherza nell'aula di chimica!» urlava paonazzo. A un certo punto aveva preso un'altra boccetta contenente acido e ne aveva rovesciato qualche goccia sul tappo della sua biro. Dopo qualche minuto il tappo si era sciolto. Ora, qui, al Valentino, qualche anno dopo, sono io che mi sto sciogliendo. Qualcuno, nel frattempo, ha chiamato il pronto soccorso. L'ambulanza non riesce a entrare nel parco a causa dei parcheggi selvaggi che sbarrano gli ingressi. Il dolore si fa sempre più intenso, e nel frattempo si lacerano anche i pantaloni. Arriva Euse, l'altro mio amico, colpito anche lui, ma molto meno. Un attimo dopo ecco arrivare gli altri. Per fortuna sono illesi. Anche loro inorridiscono alla vista della mia schiena, delle braccia e della faccia, ma lo fanno con le espressioni del viso, mentre a parole minimizzano. Mi dicono che le mie ferite non sembrano gravi, che poteva andare molto peggio, che comunque sta arrivando l'ambulanza e mi cureranno subito. «Non ti preoccupare» ripetono. Ma io leggo nei loro occhi. Stanno pensando il contrario di quello che mi dicono. Manca Socio. Chissà dov'è. Non ho il tempo né la forza di preoccuparmene. Finalmente arriva un'ambulanza, e anche Socio, colpito al viso. Al momento il più grave sembro io. Mi caricano sul mezzo della Croce Rossa insieme a un ragazzo maghrebino, il vero bersaglio del lancio di acido. Lui, sì, è conciato malissimo. Se a me l'acido è arrivato di striscio, a lui l'hanno rovesciato addosso. Parla a fatica. Durante il viaggio in ambulanza l'acido gli scava il viso. Guardarlo fa impressione. L'acido che ha addosso lacera la cinghia della barella. Arriviamo al CTO, reparto ustionati, dove ci curano alla svelta. Mi fanno un sacco di domande sulla sostanza che mi ha colpito. Mi chiedono quale tipo di acido sia. Visto che sto male e mi sembra ovvio che non ne ho la più pallida idea, mi spazientisco. «Cosa vuoi che ne sappia? La prossima volta che mi succede una cosa del genere urlo: "Mi scusi, signore, che tipo di acido mi ha lanciato?"» Mi versano addosso altre sostanze, mi massaggiano, mi parlano, mi toccano, mi bendano. Mi caricano su una barella e mi trasportano fuori dalla stanza del pronto soccorso. Sembro una mummia. Mentre sto uscendo dalla stanza incrocio Socio e Euse, anche loro in barella. Li vedo solo di sfuggita. Mi sembra che Socio abbia qualcosa che non va. Così è: mentre io venivo portato al CTO con il maghrebino, perché giudicato più grave, loro due rimanevano al Valentino in attesa di un'altra ambulanza. Poi li hanno portati al pronto soccorso di un altro ospedale torinese, dove medici e infermieri, colti alla sprovvista, erano incerti sulle modalità di cura. Al termine di lunghe discussioni, hanno deciso di dirottare anche loro al CTO, e quindi vengono curati un'oretta dopo di me. Sessanta minuti in cui l'acido ha proseguito il suo lento ma inarrestabile lavoro. Euse, colpito alla schiena, se la cava senza troppi problemi. Socio non è così fortunato: colpito anche in faccia, arriva in reparto con brutte ustioni di terzo grado sul viso. Quando tutti e tre siamo belli ricoperti di bende, ci portano in una camera dove rimaniamo da soli. Ci fanno ingoiare una lunga serie di farmaci e mettono degli antidolorifici nelle flebo. Ora, non so se questi medicinali hanno effetti stupefacenti, ma ho passato una delle notti più incredibili della mia vita. Nonostante lo spavento, le ferite e qualche preoccupazione, ho un vicino come Euse che mi fa ridere come un matto tutta la notte. | << | < | > | >> |Pagina 15ATTO PRIMODieci di sera, buio, freddo intenso. Ruben e io siamo in macchina diretti a Porta Palazzo, per prendere possesso della nostra nuova casa. Sta guidando lui, tra una risata e l'altra, in un clima festoso e disteso. Siamo felici. Finalmente vediamo apparire in lontananza il nostro caseggiato. Il quartiere è fatto di edifici vecchi, costruiti nella prima metà del 1800. I muri sono scrostati e sporchi, non vengono ristrutturati dall'alba dei tempi. Parcheggiamo la macchina in corso Regina Margherita, il viale che interseca la piazza del mercato. Un gruppetto di ragazzi di colore è in piedi alla nostra destra, portano il cappuccio delle felpe ben stretto sulla testa e sono disposti a semicerchio. Ci osservano senza parlare. Scendiamo dall'auto un po' intimoriti e ci incamminiamo verso casa. In piazza della Repubblica vediamo un altro gruppo di ragazzi, questa volta maghrebini, tutti giovani, sui vent'anni. Qualcuno è sicuramente minorenne. In mano hanno delle bottiglie di vetro. Passiamo tra i due gruppi. Con la coda dell'occhio ci accorgiamo che i nordafricani ci stanno seguendo. In un attimo ci ritroviamo divisi e circondati. Tra una frase in arabo e una in italiano, dopo una spinta, uno sgambetto e una manata, Ruben "abbandona" il portafoglio mentre io, che avevo nascosto soldi e cellulare prima di scendere dalla macchina, do l'addio a una pila da minatore comprata un mese prima a Glasgow. Entriamo nell'androne di casa. Con un cancello chiuso a proteggerci dai pericoli provenienti dall'esterno, il cervello si rimette in funzione e ricominciamo a pensare. Siamo un po' scossi: un conto è il fascino di Porta Palazzo, altro è viverlo sulla propria pelle. È la nostra prima notte nel quartiere, sono le dieci di sera e non le tre del mattino e non siamo riusciti a percorrere trenta metri senza farci rapinare. Siamo due fessi. I maghrebini ne hanno preso atto e ci hanno fatto capire che la vita di strada è difficile. Ci lasciamo alle spalle il vecchio cancello di ferro, attraversiamo l'androne fino al cortile, apriamo il secondo portone, ancora più arrugginito del primo, e saliamo sui lerci scalini di pietra. Le scale sono cupe, manca un'illuminazione decente. Siamo un po' turbati per l'accaduto, ma continuiamo a sorridere. Proviamo a prenderla con filosofia. «Prima sera e ci hanno già derubati... » mi dice Ruben. «Sì, ci hanno mandato il comitato di accoglienza! La Zidane non perdona!» gli rispondo. Nel gergo, la "Zidane" è il tentativo di borseggio tipico dei ragazzi maghrebini. Consiste nel presentarsi al malcapitato con il sorriso sulla bocca e, facendo finta di scherzare, ostacolarne il cammino facendo mosse simili a quelle con cui il calciatore franco-algerino Zinedine Zidane scartava gli avversari: in pochi attimi, mentre lo sfortunato è tutto preso nel tentativo di non cadere per terra, il portafoglio che ha in tasca passa di proprietà. Il ladruncolo poi, compiuto il furto, smette di sorridere e si dà alla fuga. L'avevamo visto fare tante volte, ma questa notte la Zidane è toccata a noi. «Se la situazione è questa, vivere qui non sarà per niente facile!» dice Ruben. Ci guardiamo negli occhi e ci intendiamo. Vogliamo reagire, tornare in strada e ritrovare il portafoglio, se non altro per non dover rifare tutti i documenti. Abbiamo imparato la lezione e, questa volta, nascondiamo i nostri averi in casa. Ci tastiamo le tasche per essere certi di non avere nulla addosso: è troppo rischioso. «La gente generalmente prima di uscire di casa controlla di aver preso tutto! Noi ci assicuriamo di non avere niente... siamo ben messi!» dico a Ruben. Ridiamo di gusto. Per la strada la situazione è sempre degna di nota. Gruppi di maghrebini ci vogliono vendere hashish e cocaina. Rifiutiamo con gentilezza. Gli raccontiamo la storia del portafoglio e chiediamo un aiuto. «Sono stati i romeni» ci risponde un ragazzo marocchino, spacciatore. Non può aiutarci. Anche lui deve fare attenzione a passare la notte senza subire rapine. Càpita. E poi non gli piacciono i romeni. Scambiamo ancora quattro chiacchiere. Ruben gli racconta che è stato molte volte in Marocco, a Casablanca e a Khouribga, e gli parla in francese. Il ragazzo marocchino ci dice che è nato lì. La conversazione presto finisce. Ha da lavorare. Nel frattempo conosciamo anche il suo amico che però non chiacchiera con noi. Anche lui non sa chi sia stato. Gli promettiamo dei soldi, se ci fa riavere il portafoglio; ma senza successo. Facciamo più volte il giro dell'isolato, e ci spingiamo oltre. Sembra che ogni strada sia controllata da un diverso gruppo etnico. Casa nostra è in piena zona nordafricana, corso Regina è territorio nigeriano-senegalese. La sensazione è che tra la piazza e il viale sia stato costruito un muro invisibile. C'è molta tensione a girare di notte nel quartiere. In giro non vediamo facce amiche, ma solo potenziali assalitori. La banda che ci ha rapinati sarà ormai fuori zona. Di poliziotti neanche l'ombra. Nella via dietro casa, noto una giacca blu per terra. È di marca, sembra costosa, mi chiedo perché sia stata abbandonata. La raccolgo. Vedo delle bruciature sulla giacca. Qualcuno, quella sera, prima di noi, ha subito un'aggressione con qualche sostanza acida. La cosa mi fa accapponare la pelle. «Torniamo a casa» dico. «Va bene Fiorenzo, andiamo» mi risponde Ruben, allarmato dalla vista della giacca, ma senza rendersi conto di quello che provo io. Il mio amico è ancora all'oscuro di ciò che mi è successo qualche anno fa. Non è una cosa che mi fa piacere condividere, nemmeno con una persona a cui voglio bene. | << | < | > | >> |Pagina 19ATTO SECONDOL'adrenalina scorre ancora, a fiumi. La rapina subita ci imprime una forte scossa e decidiamo di dormire nel nuovo alloggio, nonostante che i nostri progetti fossero diversi. Non abbiamo lenzuola né coperte. Inoltre, non c'è riscaldamento: la caldaia è rotta. Dobbiamo prendere qualcosa per coprirci, altrimenti moriremo di freddo. Ci svuotiamo di nuovo le tasche, portiamo con noi solo la patente e ci dirigiamo verso casa dei miei genitori dove prendiamo in prestito qualche trapunta e un sacco a pelo. I miei sono a letto, ma sono entrambi svegli. Gli dico che sta andando tutto bene. Forse capiscono che non è così. Riprendiamo la macchina di Ruben, ma guido io. La sua patente è nel portafoglio ora in mano straniera. È notte, le strade torinesi sono stranamente scorrevoli. Parcheggiamo dietro casa. Non capiamo se la zona è a pagamento o no: se lo fosse, dalle otto di domani mattina saremmo passibili di multa. Restiamo vari minuti a osservare i cartelli stradali, ma dall'interno dell'autovettura, perché nessuno dei due ha più voglia di scendere. Ruben attira la mia attenzione su un ragazzo grande e grosso, rasato a zero, con una giacca di pelle nera, fermo in mezzo alla strada. Sembra italiano, non si toglie mai le mani dalle tasche e ci fissa intensamente. «Sarà un poliziotto in borghese» mi dice Ruben. Non è zona blu. Parcheggiamo. Il ragazzo entra in un negozio, aperto, alle due del mattino. La sua figura ci incuriosisce. «Abiti qui? Noi ci siamo appena trasferiti», gli butto lì una frase, per vedere come reagisce. «Sì.» Non sembra voler parlare troppo. Capisco che la cosa migliore è spiegare cosa ci è successo. Essere una vittima può sempre tornare utile. Gli raccontiamo l'aggressione subita due ore prima. Lui risponde, sempre con le mani in tasca, che quello è un quartieraccio. «Ragazzi, questo è il Bronx, per vivere qui dovete organizzarvi.» Mentre dice questa frase, si toglie finalmente le mani di tasca. Nascondeva un coltello a serramanico. «Non sapevo chi eravate, e io ero pronto a tutto» afferma a muso duro, mostrandosi orgoglioso e compiaciuto. Nei due minuti successivi ci fa vedere, nascosti dietro la porta d'ingresso, una spranga di ferro e un machete lungo almeno mezzo metro. Il negozio è la sua casa, ci dorme tutte le notti. Ci dice che siamo stati fortunati: generalmente per le rapine partono subito con le bottigliate in testa. In effetti, a Porta Palazzo di notte non è difficile trovare per terra oggetti che possono essere utilizzati come armi, soprattutto bottiglie di vetro. E, come capiremo più avanti, sicuramente non è frutto di casualità. Il ragazzo ci dice che lui, che non è «un pivello», di recente è stato aggredito con un altro suo amico quarantenne, «che non è un pivello neanche lui», davanti al distributore automatico di sigarette, cioè sotto casa nostra. Il suo discorso non è ben chiaro, ma ci fa capire che si sono difesi con le unghie e coi denti. La conversazione procede serenamente. Ogni tanto scappa qualche risata. Soprattutto quando il ragazzo capisce che lavoriamo per un'Associazione che fa dell'accoglienza e dell'integrazione i suoi cavalli di battaglia. «Chi è origine dei suoi mali... » dice, scuotendo la testa. Ci consiglia anche, per le prossime elezioni, di «votare dall'altra parte». «E spostate la macchina da lì. Non mettetela mai in questo angolo. Spesso di notte qui si prendono a bottigliate e sassate. Ogni tanto si tirano i tombini. Chi ne fa le spese scappa da questa via e le bottiglie vanno a finire sulle macchine.» Ci mostra dove parcheggiare, noi spostiamo la macchina, lo ringraziamo e ci congediamo. Ci dice che è di estrema destra. Ma questo l'avevamo già capito. Torniamo a casa, con le coperte in mano, guardandoci attorno con apprensione. Con noi sta rientrando anche un signore non più giovanissimo. Ci parliamo. Sono le tre del mattino, noi siamo due ragazzi impauriti, mentre questo tizio se ne torna a casa tranquillissimo e da solo in piena notte. Ci guardiamo negli occhi, allibiti: i conti non tornano. Dopo le reciproche presentazioni e la sua frase di benvenuto, il vecchio ci dice che in quel condominio «sono tutti dei poveri cristi». Salendo le scale, indica tutte le porte di ingresso delle abitazioni, dicendo: «Vedete, lui è un povero cristo, lei è una povera crista, loro sono dei poveri cristi. Tutta gente che lavora». Gli rispondiamo che anche noi siamo dei poveri cristi e gli diamo la buona notte. Rientriamo a casa. Finalmente. Ci hanno derubati, abbiamo visto le svariate zone di competenza della delinquenza straniera, abbiamo conosciuto il "Fascio", il "Povero Cristo", i due spacciatori marocchini. Abbiamo visto tanta gente veramente strana. È un bell'inizio. Prepariamo i due letti, pisciamo e ci sdraiamo. Guardo l'ora. «Ruben, cazzo, sono le tre e mezzo! Abbiamo vissuto Porta Palazzo quattro ore e mi sembrano passati quattro giorni!» gli dico. «Abbiamo trovato il posto giusto, Fiorenzo!» mi risponde Ruben. Ci addormentiamo. | << | < | > | >> |Pagina 99SI PARLA DI IMMIGRAZIONEA casa il freddo è pungente. Prendo in prestito il piumone di Ruben. Lui non è ancora tornato e non ho voglia di morire per assideramento. Lo studio mi innervosisce, soprattutto in queste condizioni. Fuori urlano tanto. Stanno di nuovo litigando. E in casa ci saranno una quindicina di gradi. Un conto è starci mezz'ora, un conto è rimanerci per metà pomeriggio e tutta la serata. Vado al bar dei romeni a scaldarmi un po'. Stranamente sotto casa nessuno mi dà fastidio. Ormai mi conoscono. Al bancone due uomini nordafricani, dall'aspetto e dai modi colti e raffinati, stanno discutendo con un italiano vestito molto elegantemente. Mentre mangio un'ottima pizza al tegamino, non posso fare a meno di tendere l'orecchio in quella direzione. «Alla televisione si parla di immigrati solo nei fatti di cronaca nera» sta dicendo uno dei due nordafricani, quello alto e magro, con la schiena un po' ingobbita. «Sì, soprattutto se si tratta di un extracomunitario e se la parte lesa è un italiano» prosegue l'altro, con un'ottima parlata senza inflessioni. «Procedendo su questo passo, l'opinione pubblica sarà sempre più ostile agli immigrati. Anche perché non si parla mai della maggior parte di noi» continua l'uomo, nervosamente, «quelli che lavorano, che faticano, che vivono gli stessi identici problemi quotidiani di tutti voi italiani, e forse di più». L'italiano li provoca: «Sapete cosa vi dico? Io non penso che ci siano tanti italiani che rubano agli immigrati, non siete d'accordo? Forse è per quello che se ne parla tanto. Perché voi rubate a noi mentre noi vi offriamo una sistemazione e un lavoro!». «Punto primo» gli risponde il tizio alto, evitando gli occhi dell'interlocutore ma mantenendo un tono di voce severo e sicuro: «Chi lo dice che gli italiani non rubano agli immigrati? Hai mai sentito parlare di contratti in nero, turni di lavoro di dieci o dodici ore? Paghe da fame? Non è rubare questo?». Il nordafricano si sta innervosendo, i suoi modi raffinati si trasformano presto in grossolani, quasi offensivi. «Punto secondo: gli immigrati» prosegue «sono tantissimi. Molti non hanno i soldi per mangiare né un posto dove dormire e purtroppo qualcuno non si comporta come dovrebbe. Ma quello che dovete capire è che gli scippi, le rapine, le risse, danno più fastidio a noi che a voi!». «Non penso proprio» gli risponde l'italiano, «perché tanto il portafoglio lo rubano a me e non a te!». «Ma cosa stai dicendo? Cosa stai dicendo? Due mesi fa quella gentaglia mi ha strappato via il borsellino che mi portavo sempre dietro, con i documenti, i soldi e il mio permesso di soggiorno! Quindi se non sai non parlare!» Il tono è sempre più brusco, gli occhi si incendiano, le mani si muovono da una parte all'altra all'impazzata. Il nordafricano beve un lungo sorso della sua bevanda ghiacciata. Nel frattempo, il silenzio. Quando riprende a parlare è molto più calmo. «Ti assicuro che per ogni atto di violenza e per ogni scippo fatto da qualche delinquente ci rimette l'intera comunità di immigrati. Te lo ripeto: queste cose danno più fastidio a noi che a voi. È per colpa di quei delinquenti se gli italiani hanno paura, se non ci rispettano e se qualcuno ci odia.» Iniziato a tre, il dibattito ormai è circoscritto tra l'italiano, sempre più beffardo, e il nordafricano, sempre più infervorato nello spiegare le sue idee. «Bravo, mi hai quasi convinto» gli risponde l'italiano con un sorriso di scherno. «Sai qual è il problema? Girando tra queste vie, scusami se te lo dico, mi sembra che non ci sia solo "qualche delinquente", ma ce ne siano centinaia. E mi sembra anche che i tuoi amici musulmani sputino tanto sul cristianesimo ma intanto vadano tutti a mangiare e a dormire ospitati dalle organizzazioni religiose italiane e cattoliche. Perché non fate un bel progetto anche voi? Le moschee le avete, e non mi sembrano povere. Come mai non organizzano qualche progetto sociale? Come mai non si oppongono come si deve alla delinquenza, allo spaccio di droga? C'è forse qualche interesse dietro?» Domande di questo tipo me le sono poste anch'io in questi mesi. Come mai l'associazionismo migrante, soprattutto religioso, fa così poco? La disorganizzazione dei centri islamici torinesi è obbligata o voluta? «Siccome siamo musulmani» ha scritto Mohammed Lamsuni, poeta e scrittore di Casablanca immigrato a Torino, «dovrei dire forse che il Cottolengo fa schifo e i due centri islamici vicini sono migliori o perfetti? Il primo serve cinquecento pasti il giorno e offre vestiti e medicine agli stranieri, a noi; i secondi fanno solo affari e discorsi sulla menta e sullo zucchero». È una questione da approfondire. Allungo l'orecchio il più possibile per sentire bene la risposta del nordafricano. «La comunità marocchina è troppo frammentata purtroppo, e non abbiamo esponenti rappresentativi che possono parlare per tutti.» L'italiano lo interrompe, quasi urlando: «Sì, tanto voi avete gli imam che parlano per voi e vi dicono cosa pensare!» La conversazione si fa sempre più tesa, i toni sono aspri e forti. Non ci sono più solo io a osservare. In molti nel locale ora stanno seguendo il discorso. Qualcuno si è anche alzato e prova a fare da paciere. «Tu» risponde il nordafricano, che adesso ha gli occhi arroventati, e quasi balbetta per quanto è arrabbiato, «mi vuoi provocare! L'unico nostro luogo di incontro, oltre alla piazza del mercato, è la moschea, o un centro islamico. Noi andiamo lì per incontrarci, lo sai? Andiamo lì per vedere gli amici e per chiacchierare, per avere notizie da casa, e per pregare anche, certo! Non è mica colpa nostra se alcuni imam si sono autoproclamati rappresentanti della comunità». «Adesso vuoi farmi credere che nessuno gli dà retta!» fa l'italiano. «No, amico, ti sto solo dicendo che di propria iniziativa si sono arrogati il diritto di parlare per tutti. E i media italiani li intervistano. Sono i giornalisti tuoi connazionali, prima di noi, ad alimentare la forza degli imam, e il risentimento della gente.» «Il potere della comunicazione!» risponde l'italiano. «Ma senti che argomenti tira fuori questo» e lo indica con la mano a beneficio dei presenti, tutti interessatissimi alla discussione, «per non prendersi le sue responsabilità. Il problema vero è che voi extracomunitari siete troppi. In Italia già non c'è lavoro per gli italiani, figuriamoci per gli stranieri». Se prima la conversazione mi interessava, quest'ultima frase non mi è piaciuta. In Italia non c'è lavoro per gli italiani... una banalità del genere fa sorridere ascoltarla da un ragazzino, figuriamoci da un uomo, e di cultura. «Scusami ma non è vero» intervengo io, d'istinto: «Guarda che solo in provincia di Torino nel 2005 ci sono state 23.000 domande di regolarizzazione. Operai generici o specializzati, muratori, operatrici domestiche. Quella è tutta gente che lavora, anche sottopagata. Di lavoro ce n'è. Il vero problema è che le quote previste per la provincia di Torino nel Decreto Flussi 2005 fissavano non più di un migliaio di regolarizzazioni. Sai cosa vuol dire? Che ci sono almeno 22.000 persone che vivono e lavorano onestamente in città, a cui non viene riconosciuto alcun diritto». L'italiano mi guarda torvo e, incredibilmente, anche il nordafricano non sembra troppo felice del mio intervento. Probabilmente sono stato un po' fuori luogo inserendomi di prepotenza nel discorso. Non pensavo di ottenere queste reazioni. Gli altri clienti del bar mi guardano senza espressione. Io arrossisco il giusto e finisco con calma la mia pizza mentre loro continuano a parlare con un tono molto più pacifico e composto. Anche impegnandomi non riuscirei più ad ascoltare ciò che si dicono.
"Non sono stato gradito, ma perlomeno ho tranquillizzato
un dibattito che stava diventando troppo focoso", penso
uscendo dal bar dei romeni, per risanare l'orgoglio ferito.
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