Copertina
Autore Omero
Titolo Iliade
EdizioneLa Lepre, Roma, 2010, Visioni , pag. XX+1076, bilingue, cop.fle., dim. 13,6x21x4,8 cm , Isbn 978-88-96052-30-3
CuratoreGiulia Capo
PrefazioneEva Cantarella
TraduttoreDora Marinari
LettoreGiangiacomo Pisa, 2011
Classe classici greci , storia antica , paesi: Grecia
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Indice


  VII   Prefazione di Eva Cantarella
 XIII   Premessa


        ILIADE

   3    Libro primo
        Commento al Libro primo, 34

  47    Libro secondo
        Commento al Libro secondo, 92

        [...]

 987    Libro ventiquattresimo
        Commento al Libro ventiquattresimo, 1029


1045    Nota al lettore
1049    Indice dei personaggi e delle divinità
1069    Indice dei luoghi e dei popoli


 

 

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Pagina VII

Prefazione


Θ bello veder pubblicata una nuova traduzione dell'Iliade. Sono tempi difficili per gli studi classici, questi. Ai giovani, negli anni della formazione, vengono date possibilità sempre più limitate di conoscere le culture antiche, ed è del tutto superfluo insistere sulla gravità di una simile perdita. Le conoscenze acquisite negli anni della scuola sono un patrimonio che ci accompagna per tutta la vita, e lo studio della civiltà greca è uno dei pilastri sui quali questo patrimonio si fonda. Le origini della nostra cultura, come è ben noto, affondano in quel mondo. Certo, oggi nessuno scriverebbe più, come faceva nel 1821 Shelley (nella "Prefazione" a Hellas, dopo la celebre dichiarazione «We are all Greeks», «Siamo tutti greci») che «se non fosse stato per la Grecia... saremmo ancora selvaggi o idolatri». La Grecia allora, non solo per i poeti, ma anche per chi la studiava professionalmente, era considerata un miracolo, il famoso "miracolo greco": la terra prodigiosa dove, nella Atene del V secolo a.C., si pensava fossero fiorite, quasi dal nulla, la democrazia, le arti, la filosofia, il teatro, la storiografia... la civiltà, insomma. Certo, dicevamo, oggi nessuno scriverebbe più alcunché di simile. Come la storiografia ha da tempo giustamente denunciato, la Grecia, per troppo amore, era stata mitizzata. Oggi, a partire dagli studi pionieristici di Louis Gernet, precursore troppo spesso dimenticato della "antropologia del mondo antico", i Greci sono stati sottratti al mito e riconsegnati alla storia. All'incirca a partire dalla metà del secolo scorso, della Grecia (finalmente "senza miracolo", come nel titolo di un libro di Gernet) si è andata profilando un'immagine che di quella civiltà riconosceva gli indiscutibili meriti, senza tuttavia nascondere alcuni suoi aspetti per noi difficilmente accettabili. A prescindere dall'oppressione della componente servile e di quella femminile della popolazione (anche se in forma e in misura diverse), basterà ricordare i sacrifici cruenti, o l'abitudine di tenere in vita i pharmakoi, poveri derelitti mantenuti a spese pubbliche al solo scopo di essere messi crudelmente a morte quando, per evitare sciagure annunziate o temute, si riteneva necessario eliminarli per purificare la città.

Ma anche questa visione più equilibrata della Grecia era destinata a essere messa in discussione. Sul finire degli anni Ottanta (nel 1987) venne pubblicato un libro intitolato Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, destinato a suscitare tra i classicisti (e non solo) un feroce dibattito. Secondo Martin Bernal, autore di quel libro, le conquiste intellettuali che abbiamo sempre considerato merito dei Greci, dalla filosofia alla teoria politica, dall'arte alla storiografia al teatro, sarebbero merito delle popolazioni asiatiche e africane. Di veramente greco, in Grecia, ci sarebbe stato ben poco, per non dire nulla. A cominciare dalla religione. Atena, infatti, sarebbe stata una dea africana, di nome Neith. Come segnala il titolo del libro, di pelle nera. Esattamente come Socrate, il filosofo dal naso camuso e i capelli ricci (secondo una celebre iconografia), a sua volta di origine africana. Secondo Bernal, tutto quel che i Greci ci hanno tramandato non lo avrebbero inventato, si sarebbero limitati a recepirlo. Le radici della loro civiltà, e dunque della nostra, andrebbero cercate nella cultura afroasiatica.

Il successo del libro andò ben al di là della cerchia degli specialisti. A darne un'idea basterà ricordare che in Italia un amatissimo gruppo rock, gli Almamegretta (di recente tornato alla ribalta), cantava che «Athena was black, if you look back». Ovviamente, non è questo il momento e il luogo per ripercorrere il dibattito che divise i classicisti. Qui basterà ricordare che gli eccessi di Black Athena sono stati da tempo denunziati. A dimostrarlo, basterà citare opere quali Not out of Africa. How Afrocentrism Became an Excuse to Teach Myth as History, di Mary Lefkowitz (1996) e Black Athena Revisited, a cura di Mary Lefkowitz e Guy MacLean Rogers (1996). Per non parlare delle critiche di autori quali Arnaldo Momigliano. Colui che fu per unanime riconoscimento uno dei più grandi, se non il più grande storico del secolo scorso, reagì infatti con forza contro il modo inaccettabile in cui Bernal era arrivato a cancellare il contributo dei Greci alla cultura occidentale, contrastando con particolare decisione l'affermazione che la storiografia non fosse nata in Grecia: una cosa è registrare alcuni eventi su lapidi o materiale di altro genere, come si faceva in Oriente, egli osservò; un'altra è inventare un genere letterario che si prefigge di raccontare gli eventi e individuare i metodi e fonti di questo "scrivere la storia". La storiografia nacque in Grecia, perché li — e non altrove — nacque l'atteggiamento critico verso la registrazione degli eventi, vale a dire lo sviluppo di metodi critici che consentono di distinguere tra fatti e fantasie.

Gli estremismi di Bernal vennero dunque un po' alla volta superati, sostituiti da un'immagine della Grecia che da un canto rifiutava l'idea del miracolo, ma dall'altro aveva smesso di vedere la Grecia come un mondo a sé, diverso, superiore, autonomo, anche intellettualmente, dal mondo mediterraneo del quale era parte. Con il passare degli anni era andata crescendo la consapevolezza della frequenza, a partire dal terzo millennio, degli intensi rapporti non solo commerciali ma anche intellettuali tra Oriente e Occidente (dei quali, va detto, il libro di Bernal aveva certamente contribuito a sottolineare l'importanza). Oggi sappiamo che alle spalle del cosiddetto miracolo greco stanno secoli di civiltà, di cui la Grecia fin dall'inizio della sua storia fu parte integrante, anche se periferica. Sappiamo che sin dai secoli nei quali il centro, anche se non geografico, della civiltà mediterranea era la Mesopotamia, i Greci intrattennero con gli altri popoli che gravitavano su quel mare intensi scambi che correvano in due direzioni: dagli altri popoli (sia indoeuropei sia semiti) verso i Greci, e dai Greci verso gli altri popoli.

Da tempo (a partire dal libro pionieristico di Santo Mazzarino, Fra Oriente e Occidente, 1946), siamo a conoscenza delle vie attraverso le quali si diffusero le correnti artistiche, insieme alle idee religiose, le teorie scientifiche, le conoscenze tecniche, i costumi e le tradizioni. E di recente la decifrazione delle scritture cuneiformi, finalmente portata a termine, ha consentito di andare al di là del generico riconoscimento che la civiltà greca non è nata dal nulla, contribuendo a individuare i debiti specifici dei Greci nei confronti degli altri popoli: tra i quali (per venire al tema che più direttamente ci interessa) anche molti temi mitologici. Per limitarci a un esempio, i miti teogonici: quello del greco Urano, nel racconto di Esiodo castrato dal figlio Crono, trova impressionanti paralleli non solo in un mito hittita, descritto nel testo noto come Regno in cielo (Kinship on Heaven), pubblicato nel 1946 (che racconta la castrazione del dio dei cieli da parte di Kumarbi), ma anche in analoghi testi semiti, provenienti da Ugarit. E nonostante raramente vi si presti attenzione, anche i poemi omerici confermano le antiche frequentazioni orientali. Limitiamoci a uno degli esempi più noti: naufragato a Itaca e accolto alla corte di Alcinoo, re dei Feaci (siamo ai canti IX-XII dell'Odissea), Ulisse racconta le sue avventure agli astanti: storie fantastiche, favole antiche che correvano da secoli sulla bocca dei marinai e dei viaggiatori che percorrevano i mari e le strade delle civiltà che gravitavano attorno al Mediterraneo. Storie di maghe con la bacchetta, come Circe; di ninfe benefiche, come Calipso; di pericolose incantatrici, come le Sirene; di mostri, come i Lestrigoni e i Ciclopi... Ma attenzione: il racconto di Ulisse non è solo ripetizione. In Omero le antiche favole sono ritoccate, modificate, rimaneggiate. Come è ben noto, i poemi omerici pretendevano di raccontare storie vere, avventure e gesta di personaggi realmente esistiti. E come in tutte le civiltà orali il racconto di queste storie era il solo modo di trasmettere di generazione in generazione il patrimonio culturale del gruppo, i valori cui ispirarsi, i modelli di comportamento da tenere o da evitare, a seconda dei casi. Gli elementi magici dei racconti popolari, dunque, devono essere utilizzati nel quadro di una rappresentazione che, comunque, nonostante la fantasiosità dei temi, deve svolgere la sua essenziale funzione pedagogica. Ed ecco che le avventure raccontate da Ulisse, pur riproducendo temi del folklore, vengono usate per trasmettere alcuni fondamentali insegnamenti civici e morali, tipicamente Greci. Come dimostra, per tutti, l'esempio del Ciclope.

Nel folklore internazionale, cui Omero attinge, quel che segnalava la mostruosità del personaggio era in primo luogo il suo cannibalismo. Ma Omero a questo segno della sua inciviltà ne aggiunge un altro. A ben vedere, nel racconto di Ulisse l'elemento più inquietante della vita del Ciclope, quello che sopra tutto e inesorabilmente lo confina nel mondo della barbarie, è il fatto che l'organizzazione sociale del suo gruppo si ferma al livello della famiglia. Come dice Omero, i Ciclopi «non hanno assemblee di consigli, non leggi, / ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime / in grotte profonde; fa legge ciascuno / ai figli e alle donne, e l'uno dell'altro non cura» (Od., 9,112-115, trad. di R. Calzecchi Onesti). Qui sta alla radice di tutto: "ciascuno fa leggi ai figli e alla donne". I Ciclopi non riconoscono l'esistenza di un'autorità sovraordinata a quella dei capifamiglia. Vivono in una società dove "nessuno si cura dell'altro", in quanto ogni capofamiglia ha un solo obiettivo: difendere se stesso e il suo gruppo, affermare la propria superiorità. La vita del gruppo familiare è regolata dai poteri del suo capo, ma i rapporti fra capifamiglia, in assenza di istituzioni pubbliche, sono affidati inevitabilmente alla regola della forza, al regime della vendetta pura, senza limiti e senza controllo. L'opposizione alla polis è evidente: i Ciclopi non hanno l'Assemblea, quel momento di incontro che, pur non avendo ancora poteri istituzionalmente previsti, è — comunque — il momento più importante della vita pubblica, la "gloria degli uomini" (Il., 1,490), il crinale che separa barbarie e civiltà. Inoltre essi non conoscono la giustizia e le leggi (indicate dalla parola themistes, da tithemi, "ciò che è posto"). Ascoltando la storia fantastica del Ciclope, i Greci che vivono nel momento in cui le strutture della polis si vanno formando e lentamente consolidando imparano qual è la via che conduce verso una convivenza più ordinata e pacifica. Imparano, insomma, ad apprezzare la nuova organizzazione politica, che nel momento stesso in cui priva alcuni di loro di qualche potere, garantisce ad altri una vita più libera. Capiscono che il superamento della famiglia come organismo sovrano e la nascita di organi nei quali gli appartenenti alle diverse famiglie si riuniscono e si confrontano segnano una tappa fondamentale nella loro storia. Sanno, perché vedono che sta accadendo, che il regime della vendetta incontrollata sta per finire, che ad esso si vanno sostituendo nuove regole di comportamento basate su valori più collaborativi; capiscono che il primato del diritto è un momento importante del passaggio verso una vita più pacifica, e – con tutte le cautele del caso nell'usare questo termine – anche in qualche misura più democratica.

Il fatto che molti aspetti della cultura greca (ivi compresa quella poetica) derivino indiscutibilmente da suggestioni orientali, insomma, nulla toglie, in alcun modo, ai meriti di quella civiltà. Accogliendo le suggestioni che venivano dall'esterno, i Greci le rielaborarono al punto da far assumere loro una nuova forma, le trasformarono in vere e proprie invenzioni: per usare le parole di Arnaldo Momigliano, i Greci operarono, sulle suggestioni esterne, una "trasformazione creativa". Colui (o coloro) che mise per iscritto le storie della guerra di Troia e del ritorno di Ulisse, utilizzò (o utilizzarono) racconti antichi, trasformandoli – oltre che in poemi di insuperata bellezza – anche in testi che documentano il momento nel quale, in Grecia, fecero la prima comparsa i concetti alla base di quella forma di organizzazione sociale che chiamiamo "politica". Ecco perché, oltre che per il piacere insuperabile che dà la sua lettura, oggi bisogna difendere la presenza di Omero, e più in genere della cultura classica, nelle scuole. Non ha bisogno di essere un "miracolo", la Grecia, per essere il luogo nel quale nacquero concetti base della nostra civiltà, come cittadinanza, libertà di parola, uguaglianza e democrazia.

Eva Cantarella, agosto 2010

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Pagina XIII

Premessa


L'Iliade è una storia di contrasti: si comincia con quello tra Agamennone e Achille, e si seguita con scene incessanti di battaglia. Però noi ascoltiamo questo canto, lungo ventiquattro libri, rendendoci conto che il vero argomento non è un contrasto, ma il costante confronto tra diverse interpretazioni del senso della vita e dell'ordine delle cose. Dico "ascoltiamo", perché il poema è nato per essere cantato a voce, scandito dal suono della cetra. La gente sentiva un racconto di fatti già conosciuti, che era tuttavia proprio per questo affascinante: perché il modo in cui questi fatti erano detti proponeva, appunto, un'impostazione, una riflessione tutt'altro che assodata. E così si ascoltava, si ragionava, e si mettevano a fuoco idee e pensieri.

Noi le stesse cose le leggiamo: in un testo scritto. Non abbiamo perciò la suggestione del suono della cetra, e ci fermiamo invece spesso a considerare un'immagine, una frase, che sta lì, sulla carta, a nostra disposizione. La nostra riflessione è quindi individuale e ha tempi lunghi a volontà. Quella del popolo per cui l'Iliade è nata era collettiva, durava il tempo dell'ascolto e aveva il tono alto di un canto impostato secondo ritmi ben definiti. Noi non possiamo che leggerlo, Omero. E quando leggiamo l' Iliade rimaniamo stupiti di quanto ci sappia incantare, nonostante la forma approssimativa in cui veniamo a conoscerla e nonostante, soprattutto, la presenza infinita della guerra: il che, per moltissimi, sarebbe un motivo sufficiente per escludere teoricamente questo poema dalle cose da poter amare.

Quando però entriamo nell'Iliade, ci accorgiamo che si tratta, assolutamente, di un canto sull'Uomo. Sull'Uomo e sugli uomini. Sull'Uomo e su Dio. Sulla domanda se di Dio si possa fare a meno. Su che cosa si arrivi a immaginare dell'ordine dell'Universo. Su che cosa resti dell'individuo, una volta considerato irrinunciabile il suo inserimento in un contesto generale. Su quale peso abbiano le cose che gli uomini riescono a fare sulla faccia della Terra. Insomma: ci accorgiamo che questo poema, nato probabilmente verso la fine dell'VIII secolo a.C., registra nel canto lo stesso fermento che conduceva, in quegli stessi anni, allo straordinario sviluppo nel mondo occidentale del pensiero filosofico, della scienza, della matematica.


Infinitamente si è discusso dell'epoca in cui il poema è stato composto, del suo autore, del luogo in cui si venne creando. Quello di cui però ci si rende subito conto è che si tratta di una storia nata sul margine di due civiltà, la cui contemporanea sopravvivenza risulta del tutto impossibile.

Da una parte c'è una città bellissima e potente. Si chiama Troia, ed è situata immediatamente a sud dell'Ellesponto, lo Stretto dei Dardanelli, quasi sulla sponda di quella regione che i Greci chiamavano Anatolia — "la terra da cui sorge il sole" — e che è la parte dell'Asia che si affaccia sull'Egeo. Noi la chiamiamo Turchia, e la sentiamo come terra di confine tra due mondi.

Troia è una città perfetta. Le sue mura sono state costruite da Apollo e da Poseidone. Il suo sovrano, Priamo, è un uomo giusto, che conosce gli uomini e che rende il loro onore agli dèi.

Troia è la "città ideale": rappresenta la migliore forma di convivenza che mai gli uomini siano riusciti a realizzare. Patriarcale, fedele a se stessa nel corso delle generazioni, solidamente priva di dubbi su come altrimenti potrebbe essere una comunità umana.

All'epoca di cui canta Omero — e siamo a storie più antiche di lui di cinque, sei secoli almeno — la gente di Troia aveva in comune con quelli che vennero ad assediarla lingua, tradizioni, divinità.

Troia era una potenza di terra, e si trovava a est dell'Egeo. La sua ricchezza si basava essenzialmente sul controllo dei commerci dal Mar Nero: a quel tempo le navi non erano in grado di attraversare i Dardanelli, e i traffici diretti al Mediterraneo — di grano, di metalli, di prodotti di paesi asiatici lontani e quasi sconosciuti — si svolgevano via terra e rendevano potentissima Troia.

Quelli che attaccarono Troia, noi li chiamiamo Greci.

Omero li chiama Achei, Argivi, Danai: e nella pluralità stessa dei nomi riscontriamo il fatto che si trattava di tante comunità, per lo più piccole, che avevano alle spalle antiche guerre per la conquista delle poche terre greche che si prestassero all'agricoltura e all'allevamento — nell'Iliade, di queste guerre del passato si ha ampia traccia, soprattutto nei racconti che fa il vecchio Nestore, re di Pilo, dell'epoca in cui lui era un giovane guerriero.

Adesso, però, queste comunità si sono coalizzate per proiettarsi sul mare, razziare le coste dell'Anatolia e cercare il predominio commerciale.

Alla fine della guerra di Troia l'Egeo diventerà il centro del potere: l'Egeo, non la Grecia. L'asse si sarà spostato a ovest, dall'Asia verso l'Europa: ma si impianterà sul mare.

Che dopo la fine di Troia non si sia creata una nuova potenza terrestre, nel paese dei Greci vincitori, è implicito in quello che il mito racconta. I nostoi, i ritorni in patria dei vittoriosi re che hanno distrutto Troia, sono quasi tutti tragici, o almeno molto difficili: nessuno avrà un futuro veramente grandioso, e l'aria che circonda le loro vicende è proprio da Gφtterdδmmerung.

Noi avvertiamo, insomma, che con la fine di Troia finirà tutta la civiltà che questa città rappresentava: la propria e quella dei suoi distruttori, che è poi la stessa. Non per nulla, il giovane, feroce guerriero che ucciderà il vecchio Priamo, il figlio di Achille che arriverà a Troia dopo la sua morte, si chiamerà Neoptolemos, "guerra nuova": cioè cultura, umanità, modo di essere diverso da prima.


Come rimettere insieme quello che l' Iliade ci racconta con quello che sappiamo dagli studi storici e archeologici?

Quando si parla, nel canto di Omero, dei tempi in cui Nestore era poco più che un ragazzo, forse si tratta dell'epoca in cui i primi popoli che parlavano greco lottarono per la conquista della penisola, vinsero e si insediarono in località i cui nomi erano Argo, Pilo, Sparta, Micene... Erano ben organizzati, sul piano militare, e arrivarono a imporre il loro controllo sulla più grande delle civiltà che li aveva preceduti in quegli orizzonti geografici: sull'isola di Creta. Nell' Iliade troviamo il re cui fanno capo le cento città di Creta. Si chiama Idomeneo ed è grandemente onorato da tutti: ma è in posizione subalterna, rispetto ad Agamennone, re di Micene.

E "micenea" noi definiamo l'epoca della piena affermazione di questa civiltà.

L'episodio culminante di questa fase è la guerra di Troia, la guerra per imporsi sui traffici dell'Egeo.

Ma dopo la conquista di Troia le cose non vanno bene: i grandi sovrani, tipo Agamennone, spariranno, e comunità più povere e più chiuse si insedieranno al posto dei regni precedenti.

Θ la realtà storica del periodo in cui l' Iliade nacque, e noi la vediamo apparire nei passaggi più realistici e concreti del poema: per lo più nelle similitudini – scene di vita familiare a chi ascolta, che legano la narrazione fantastica dei fatti antichi all'esperienza diretta delle situazioni presenti. In questo modo viene continuamente percepita l'unità dell'intera storia umana, e chi sta ascoltando il canto di Omero avverte all'interno del mito temi veri, ragionamenti che è necessario affrontare.

La storia di quegli anni – del cosiddetto medioevo ellenico, di un'epoca cioè che consideriamo di arretramento perché la gente non sa più scrivere – ci si mostra, nell'incredibile vastità e varietà dell'opera di Omero, come quella di un'età vitalissima, in cui è in gestazione un mondo nuovo.

Insomma, si individuano nell' Iliade almeno tre momenti: l'età dell'affermazione dei primi Greci che conosciamo – la giovinezza di Nestore; quella del pieno della loro espansione – la guerra di Troia; quella coeva al canto dell' Iliade – il periodo degli agguati ben poco eroici del decimo canto, ma anche delle vivissime scene rappresentate sullo scudo di Achille.

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Pagina 3

Libro primo


Dea, canta per me l'ira di Achille,
quell'ira distruttrice che arrecò ai Greci infiniti dolori,
che gettò nell'Ade tante forti vite di eroi
e lasciò i loro corpi in preda ai cani e a tutti gli uccelli rapaci.

Si compiva così il volere di Zeus, da quando per la prima volta si divisero,
e divennero nemici,
il figlio di Atreo, capo degli eserciti, e il glorioso Achille.
Quale degli dèi li spinse a combattersi?
Apollo, il figlio di Latona e di Zeus,
che, adirato contro il capo dei Greci, diffuse tra l'esercito un terribile morbo
— e i soldati morivano a schiere —
perché il figlio di Atreo aveva insultato il suo sacerdote Crise.
Questo era andato fino alle navi veloci dei Greci
per riscattare la figlia, portando splendidi doni
e stringendo tra le mani le bende sacre di Apollo lanciatore di saette
sopra lo scettro d'oro;
e supplicò tutti i Greci,
e soprattutto i due figli di Atreo, condottieri di eserciti:
«Figli di Atreo, e voi altri Greci dai forti gambali,
a voi gli dèi che abitano le case dell'Olimpo
concedano di espugnare la città di Priamo e di tornare salvi in patria,
ma voi liberate mia figlia e accettate i doni,
rispettando il figlio di Zeus, Apollo, lanciatore di saette».
Ma questo non piacque ad Agamennone figlio di Atreo,
che con cattiveria lo scacciò, e aggiunse anche parole dure:
«Che io non ti ritrovi, vecchio, presso le navi ricurve,
sia che tu ci resti ora, sia che poi ci ritorni:
non potrebbero salvarti né lo scettro né la benda del dio.
Io tua figlia non la libererò: la coglierà prima la vecchiaia in Argo,
in casa nostra, lontana dalla sua patria,
intenta a tesser tela, o dividendo il letto con me.
Ora vai, non irritarmi se vuoi tornare vivo a casa».
Così disse, e il vecchio ebbe paura e obbedì al comando
e andò via in silenzio, lungo la riva del mare risonante.
Ma molte preghiere il vecchio rivolse in disparte, mentre così andava,
al potente Apollo, figlio di Latona dalla bella chioma:
«Ascoltami, dio dall'arco d'argento,
che proteggi Crisa e la sacra Cilla, e che dall'alto regni su Tenedo.
O Sminteo, se qualche volta ho eretto per te un tempio,
se talvolta ho bruciato per te vacche grasse, cosce di buoi o di capre,
e se tu l'hai gradito, adempi questo mio voto:
paghino i Greci con le tue frecce il mio pianto».

Così pregò, e lo esaudì Febo Apollo.
Discese adirato dai monti dell'Olimpo,
con l'arco sulle spalle e con la faretra piena:
agitato dall'ira, i dardi risuonavano sulle sue spalle,
e lui scendeva scuro come la notte,
e un orribile suono uscì dall'arco d'argento.
Colpì per primi i muli e i cani veloci,
ma poi, scagliando le dure frecce, mirò agli uomini,
e sempre bruciavano fitti i roghi dei morti.
Per nove giorni volarono sul campo le frecce del dio;
il decimo Achille convocò l'esercito in assemblea:
questo, infatti, gli suggerì Era dalle bianche braccia,
che si preoccupava dei Greci perché li vedeva morire.
Quando li vide tutti riuniti, alzandosi in piedi,
parlò Achille dal passo veloce:
«Figlio di Atreo, io credo che presto, sconfitti, torneremo indietro,
se pure sfuggiremo alla morte,
perché la guerra e la peste, insieme, distruggono i Greci.
Consultiamo dunque un qualche indovino o un sacerdote,
o un interprete di sogni
— perché anche il sogno viene da Zeus —,
che possa dirci perché è tanto adirato Febo Apollo,
se ci punisce per una preghiera o un'ecatombe mancata,
o se vuole, invece, fumo di pecore e capre adulte,
per poter allontanare da noi questo male».
Dopo aver detto così, sedette,
e si alzò Calcante figlio di Testore, il migliore degli indovini,
che conosceva le cose che sono, che saranno e che sono state
e che aveva guidato le navi dei Greci fino a Troia,
con la capacità di indovinare che gli aveva concesso Febo Apollo.
Parlò con grande saggezza e disse:
«O Achille caro a Zeus, tu vuoi che io spieghi l'ira di Apollo potente,
che colpisce lontano,
e dunque ti dico: tu ascoltami e giura
che mi sarai favorevole e mi proteggerai con le parole e con gli atti,
perché io credo che farò adirare l'uomo più potente tra i Greci
e a cui tutti i Greci obbediscono.
Θ sempre il più forte un re, quando si adira con un inferiore,
e se per un giorno reprime lo sdegno,
chiude poi dentro di sé il suo rancore, finché si vendica.
Tu dimmi se sei disposto a difendermi».
Gli rispose Achille dal passo veloce:
«Sii fiducioso e dicci quello che sai del volere degli dèi.
In nome di Apollo caro a Zeus,
che tu invochi per rivelare ai Greci il volere degli dèi,
nessuno, finché io vivo e sto in piedi sulla terra,
porrà le mani su di te, per farti violenza, presso le navi ricurve:
nessuno, anche se tu facessi il nome di Agamennone,
che ora si gloria di essere il più potente di tutto l'esercito».
Allora si rincuorò, e parlò così il veggente infallibile:
«Non ci punisce per una preghiera o un'ecatombe mancata,
ma per il sacerdote che Agamennone ha insultato:
non ha liberato la figlia e ha rifiutato i doni.
Perciò ci ha mandato sciagure il dio saettatore e altre ce ne manderà,
e non allontanerà dai Greci la peste crudele
prima che sia restituita al padre la fanciulla dagli occhi splendenti,
senza alcun prezzo e senza riscatto,
e prima che si mandi a Crisa una sacra ecatombe.
Solo così placandolo potremo ottenere il perdono».
Detto ciò, sedette, e innanzi a loro si alzò, furioso,
il forte figlio di Atreo, il potentissimo Agamennone.
Tutto il suo cuore era oscuro e pieno di violenza,
i suoi occhi ardevano come fiamma
e guardando minaccioso Calcante gridò:
«Profeta di sventure, non hai mai detto una cosa che mi facesse piacere!
Vuoi sempre predire sciagure,
non hai mai detto né fatto niente di buono,
e ora, profetando tra i Greci,
dichiari che il dio saettatore infligge loro tante pene
perché io non ho voluto accettare gli splendidi doni
offerti per la figlia di Crise
e perché voglio ad ogni costo averla in casa.
Infatti la preferisco a Clitennestra, mia moglie, perché non le è inferiore
né di viso, né di statura, né per i sentimenti, né per le azioni.
Tuttavia accetto di restituirla,
se questo è meglio per noi,
perché io voglio l'esercito salvo e non distrutto;
ma preparate subito un'altra ricompensa per me,
perché non è giusto che io solo tra i Greci resti senza il mio premio:
vedete tutti che la mia ricompensa mi viene tolta!».
Gli rispose il nobile Achille, potente nella corsa:
«Tu, famosissimo figlio di Atreo, sei il più avido di tutti noi.
Come possono darti una ricompensa i Greci magnanimi?
Sappiamo che non c'è un tesoro comune,
ma tutto quello che abbiamo saccheggiato delle città
è stato già diviso, e non è giusto che l'esercito lo rimetta insieme.
Tu ora offri questa donna al dio,
poi i Greci ti ripagheranno tre o quattro volte,
se Zeus ci concederà di saccheggiare Troia dalle grandi mura».
Gli rispose il potente Agamennone:
«Per quanto tu sia valoroso, Achille simile a un dio,
non nascondermi così il tuo pensiero,
perché non puoi ingannarmi né persuadermi.
Tu vuoi tenerti la tua ricompensa e privarmi della mia,
e vuoi che io la restituisca?
Sì, ma solo se i Greci magnanimi mi daranno una ricompensa
che risponda ai miei desideri
e che sia di pari valore.
Se non me la daranno, verrò a prenderla io stesso,
o la tua o quella di Aiace, o prenderò quella di Odisseo,
e si infurierà quello a cui la sottrarrò!
Ma di ciò parleremo dopo.
Ora, invece, spingiamo nel grande mare una nave nera,
troviamo i rematori adatti, poniamoci sopra un'ecatombe,
e facciamoci salire la figlia di Crise dalle belle guance.
E la guidi uno dei membri del Consiglio:
o Aiace, o Idomeneo, o il nobile Odisseo.
Oppure tu, figlio di Peleo, il più tremendo fra i guerrieri,
fai tu il sacrificio, per placare il dio che mira lontano».
Guardandolo torvo, gli rispose Achille dal passo veloce:
«Uomo senza vergogna, assetato di guadagno,
quale dei Greci potrà più seguirti e obbedirti
nell'affrontare una spedizione, o nel combattere contro i nemici?
Io non sono venuto a combattere qui a causa dei Troiani,
che non hanno colpe verso di me:
essi non hanno mai rubato le mie vacche o i miei cavalli,
né hanno mai distrutto i raccolti dentro Ftia, ricca di uomini e di beni,
perché ci separano tanti monti ombrosi e il mare risonante.
Noi abbiamo seguito te, spudorato,
per farti piacere, per vendicare contro i Troiani
l'onore di Menelao insieme col tuo, cane affamato!
Ma tu di queste cose non ti commuovi e non ti curi,
e proprio tu minacci di strapparmi la ricompensa per cui ho tanto lottato,
e che mi hanno dato i combattenti greci.
Mai ottengo una ricompensa pari alla tua
se i Greci espugnano una popolosa città troiana:
il più, nella battaglia tumultuosa, lo fanno le mie braccia,
ma quando si divide il bottino
la tua ricompensa è sempre maggiore,
e io ne porto sulle navi una più misera, pagata cara,
dopo essermi sfinito nel combattimento.
Ora me ne vado a Ftia,
perché è molto meglio che io torni a casa con le mie navi ricurve,
e non voglio restar qui umiliato,
raccogliendo beni e ricchezze per te».
Gli rispose Agamennone, il capo degli eserciti:
«Fuggi pure lontano, se così desideri,
io non ti prego di rimanere qui per me:
altri mi onoreranno, e soprattutto Zeus sapiente.
Tu sei per me il più odioso tra i re protetti da Zeus;
tu cerchi sempre risse, battaglie, lotte,
e se sei molto forte, te lo ha concesso un dio.
Vai a comandare ai Mirmidoni: io non mi curo di te, né temo la tua ira.
E voglio prometterti questo:
poiché Febo Apollo mi toglie la figlia di Crise,
io la rimanderò con la mia nave e i miei compagni,
ma verrò io stesso nella tua tenda a prendere per me la tua ricompensa,
Briseide dalle belle guance,
affinché tu impari quanto io sono più forte di te,
e nessun altro osi parlarmi da eguale e misurarsi con me».
Così disse, e un gran dolore colpì il figlio di Peleo,
e nel suo petto villoso il cuore andava in due direzioni:
o, sfilando dal fianco la spada tagliente, allontanare gli altri
e uccidere il figlio di Atreo,
o frenare lo sdegno e contenere l'ira.

Mentre così si dibatteva con la mente e col cuore,
estrasse dal fodero la sua grande spada.
Ma dal cielo giunse Atena, e la mandava Era dalle bianche braccia,
che amava e proteggeva ambedue allo stesso modo.
Gli si fermò dietro e prese il figlio di Peleo per la chioma bionda:
era visibile solo a lui, nessuno degli altri la vedeva.
Achille spaventato si volse indietro e riconobbe subito Pallade Atena
— terribili apparivano i suoi occhi —
e parlandole pronunciò parole irate:
«Perché sei venuta qui, figlia di Zeus armato dell'egida?
Forse per assistere alla violenza di Agamennone figlio di Atreo?
Ma io ti dico questo, e credo che questo accadrà:
presto, per le sue prepotenze, lui perderà la vita».
Così gli rispose Atena dagli occhi azzurri:
«Sono venuta a placare la tua ira, se mi vuoi obbedire;
vengo dal cielo e mi manda Era dalle bianche braccia,
che ama e protegge ambedue.
Tu ora rinuncia alla lotta e non stringere in mano la spada:
rimproveralo solo con parole giuste.
Io ti preannuncio ciò che avverrà:
un giorno ti saranno offerti doni tre volte più splendidi,
per la violenza subita;
ora calmati, e obbedisci agli dèi».
Le rispose Achille dal passo veloce:
«Θ necessario, dea, che io obbedisca ai tuoi comandi, anche se sono adirato;
è meglio così, perché chi obbedisce agli dèi è ascoltato da loro»,

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Pagina 34

Commento al Libro primo


L' Iliade, il poema di Ilio, la rocca della città di Troia, è in realtà il poema che racconta dell'ira di Achille. Ira, ménin, insostenibile risentimento causato da un'offesa che scardina il senso stesso dell'esistenza. Θ la prima parola del primo verso del primo Libro dell' Iliade.

Sono fatti noti, e la gente che sta a sentire il canto del poeta, dell'aedo, li conosce e li ricorda; perciò lui si rivolge alla Musa, alla figlia della Memoria, perché la canti lei, questa storia.

Θ così che nasce un'opera che è detta a voce, da uno che va ritmando le sue parole sul suono della cetra: e gli altri sentono e riflettono sul modo in cui lui riferisce di cose che sanno anche loro, ma su cui è bello ragionare insieme. Perché il valore di questi canti è proprio nell'esporre fatti la cui interpretazione fa discutere su comportamenti e regole, sui criteri base della convivenza.


Qui il discorso è questo: i Greci hanno preso e distrutto molte delle città alleate di Troia. Hanno portato via tutto, e si sono poi divisi il bottino.

Ad Agamennone, capo supremo della spedizione, hanno poi assegnato un dono speciale, una fanciulla dalle belle guance, kallipareon, Criseide. Il padre, Crise, che è sacerdote di Apollo, il luminoso figlio di Zeus, si è presentato davanti agli Achei, soprattutto ad Agamennone e a Menelao, fratello di lui: aveva in mano lo scettro d'oro, le bende sacre del dio, e portava un riscatto infinito, per riavere Criseide. Ha invocato gli dèi perché loro, i nemici che hanno distrutto la sua città, possano tornare salvi in patria: ma che liberino la sua creatura, mostrando così rispetto per Apollo.

Tutti gli Achei, che ascoltavano, hanno chiesto che fosse accolta la supplica di Crise.

Ma Agamennone si è opposto, e ha cacciato il vecchio con parole cattive, offensive e volgari: e lui, andandosene umiliato, in silenzio, lungo la riva del mare urlante, è arrivato lontano, in un punto dove non c'era nessuno, e ha chiesto ad Apollo di vendicarlo, di far pagare ai Greci il suo dolore.

Apollo ha sentito, si è indignato per il disprezzo mostrato al suo sacerdote ed è venuto giù dall'Olimpo, scendendo come la notte, con le sue frecce — quelle che portano malattia e morte — chiuse nella faretra: e a ogni passo, a ogni lungo passo del dio che scendeva, punitore, al campo acheo, le frecce risuonavano dentro la faretra.

Apollo si è fermato lontano dalle navi e ha scagliato la sua prima freccia: il ronzio è stato spaventoso. Prima sono stati colpiti i muli, poi i cani, poi gli uomini. Per nove giorni Apollo ha scagliato le sue frecce, e gli uomini morivano fitti, e le pire ardevano in continuazione, a cremare i cadaveri. Questo, per i Greci, significavano le frecce di Apollo: incomprensibile male che afferra i viventi. Pestilenza, epidemia.

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