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| << | < | > | >> |Pagina 9Non esco da settimane. Quando la vita ti precipita addosso, non ti concede scampo. La luce della candela affonda fievoli tralci nella dura tenebra, guida lo sguardo nell'oltretempo, alla linfa della terra. L'illusorio silenzio s'infrange tra i gemiti della casa, dentro all'eterno riassetto delle sue articolazioni maltrattate dai venti e dall'incuria. Il sibilo della fiammella sullo stoppino si scompone nel raschio del pennino sui fogli. Il pagliericcio, dove mi distendo a riposare le poche ore nelle quali il sonno si sostituisce alla mia veglia balbuziente, emana un odore vegetale di decomposizione ripudiata. Dalla sua monacale sobrietà promana un che di insalubre. Forse ha assimilato l'odore del mio corpo macerato, o forse l'odore della mia età estenuata. Al buio gli odori diventano più acuti, si fanno dominanti, hanno contorni precisi. Alla luce del sole invece sfumano, perdono compattezza. La luce disvela e mistifica perché dispensa un ardore che eccita e confonde.Mi sono risolto a scrivere perché tutto è compiuto e l'ombra lunga della morte calpesta da settimane il mio sentiero. Tossisco. La fiammella della candela oscilla. Gli occhi mi dolgono. Me li strofino con la mano libera. Non immaginavo che ricordare richiedesse fatuca e dolore. Esistono amarezze che si formano per accumulo e poi dilagano, diventano incontenibili, agiscono come un veleno somministrato con oculatezza da mano esperta. Il vento si appropria delle stanze vuote, introducendosi attraverso fessure e squarci, sfruttando ogni minimo spiraglio; dove il terreno spiana corre verso l'Øresund, trascina la bruma, scuote i cespugli, scompone la superficie degli acquitrini e delle vasche per i pesci mezze interrate. Un tempo, qui sotto, nel ventre della casa, non si percepiva il fischio del vento. Il solo rumore era quello del fuoco, incessante e monotono. Le fornaci restavano accese giorno e notte, la legna non si esauriva, imbarcazioni la trasportavano dalle foreste della costa, e ovunque era rumore di febbrili attività, di inesausto movimento. Ora le aperture dei forni sono bocche vuote, senza denti, orifizi che vomitano un soffio gelido, alito di morte. Tutto è intaccato dalla lebbra della distruzione. La fattoria è crollata, la cartiera è stata abbattuta, la fucina depredata, le dighe si sono aperte, gli orti e i frutteti sono incolti. La casa è un guscio vuoto che tutti hanno abbandonato. Odo animali camminare negli angoli e, poco dietro, il passo dei predatori che li cacciano. Sono i soli a percorrere i corridoi gelati, le stanze spoglie che riecheggiano i suoni. A volte fantastico che siano il riverbero di passi lontani che hanno forzato le onde del tempo, il rimasuglio di suoni antichi rimasti prigionieri dentro al lento perimetro dei muri, incapaci di trovare una via d'uscita. Dove sono Flemløse, maestro di letture, dove Sophie ed Erik, maestri d'alchimia, e Morsing, il compilatore del libro del tempo? Dove Gellius, Longomontano, Gemperle il pittore e Labenwolf il costruttore di fontane? E la vecchia Live, la silenziosa Kirsten, l'altera Elizabeth, l'astuto Tengnagel, la bella Magdalene? Le loro voci e le loro risa non si rincorrono attorno alla tavola imbandita, il loro assorto silenzio non scivola dentro le pagine aperte dei libri, il loro sguardo non si leva ai cieli con ansia indagatrice. Sussistono nell'imperfezione della memoria come figure affievolite che si muovono con passi che hanno perduto ogni vigore. Alcuni sono partiti per un viaggio che non ha ritorno e covo nell'animo una pungente invidia per la loro sorte: ai loro occhi non è toccato conoscere la rovina dopo lo splendore.
Il passato scorre in un suo alveo ben definito senza debordare mai.
Per lunghi anni mi sono illuso che la mia presenza fosse sufficiente a evitare la distruzione, che le mie pratiche alchemiche e i miei elisir bastassero a trattenere il rancore degli abitanti, che la mia volontà servisse a continuare un lavoro che nessuno mi ha mai affidato. Un uomo si affanna per generare solo tracce destinate a scomparire, tracce che segnano il mondo solo per momenti brevi e inconcludenti. È impotente, perché nulla può contro il deperimento che lo consuma giorno dopo giorno. Hans si aggira nei dintorni, mi porta qualche rara volta del cibo, cerca di intuire le mie condizioni di salute, però rimane sulla soglia, in cima alla scala. La vista del mio corpo deformato credo gli provochi ribrezzo. Mi teme per un malcelato senso di superstizione, per lontane parole che un giorno, in sua presenza, scambiai con la madre. Altrimenti mi avrebbe già calpestato. Non è certo uomo che si lasci ostacolare da un nano. Gli avanzi che depone all'ingresso salgo a prenderli quando sono certo che non può scorgermi. La sua finta pietà non m'inganna, è una forma di elemosina che ho già sperimentato. Appena si allontana sparla di me, racconta che faccio malefici, che nel buio dei sotterranei pratico ogni genere di stregoneria. Se un essere immondo e deforme è latore di tanta sapienza, è solo perché ha stipulato un patto con il diavolo, sibila nelle assemblee pubbliche all'orecchio del pastore e del balivo. Perché dovrei indignarmi? È il degno comportamento del figlio di una meretrice, che ha avuto in dote questa terra per il solo privilegio d'essere stata una delle puttane del re; una delle tante, invero, e nemmeno tra le favorite. Come l'alterna fortuna che domina il mondo innalza e distrugge seguendo il proprio impenetrabile capriccio! I comportamenti degli uomini rivelano, più delle parole e dell'ipocrisia alla quale si sottomettono, la meschinità che alberga nel loro cuore.
È anche merito delle maldicenze di Hans se gli abitanti
dell'isola hanno maturato nei miei confronti una diffidenza
che, in una certa misura, giustifico. È la comprensibile diffidenza verso chi è
stato nelle stesse condizioni, anzi era bersaglio del pubblico disprezzo, e poi
ha imparato il latino e a studiare i cieli e ha avuto accesso a ciò che era
impensabile. La loro parlata rauca e insicura, dissonante negli accenti
terminali, che ben si accosta alla lentezza del loro pensare, tradisce il timore
e l'astio che gli anni hanno imputridito.
Hanno iniziato a demolire l'ala settentrionale, dove stavano la cucina e il pozzo che scendeva nella terra come una ferita mai chiusa. Di giorno sento i rumori delle pareti che crollano, delle pietre che si frantumano incuranti. Le pietre possiedono una rassegnazione che le rende eterne, si lasciano prendere e portare via senza opporre resistenza. Hanno un'anima minerale di Zolfo e Mercurio forgiata dal fuoco dei secoli che ha precipitato la materia in una forma definita, sono immagine della Grande Opera macerata dal calore latente dell'athanor. Niente le può veramente scalfire o spezzare.
Hans vuole costruire una nuova dimora solo per sé e la
sua famiglia, e non gli importa di chi c'era prima di lui, di
ciò che abbatte per edificare la suprema allegoria della
propria arroganza. È il nuovo signore, e i nuovi padroni
seppelliscono i vecchi molto in fretta, cancellandone i resti
e anche i ricordi. La sua dimora sarà il simbolo del suo
potere, così come Uraniborg è stata il simbolo del potere di
Tycho.
Ma si tratta di poteri diversi, fondati su modi
diversi di intendere la vita e il pensiero. Non credo nemmeno che Hans sia in
grado di capire quale centro del
sapere per l'intera Europa siano state quest'isola minuscola e questa casa. A
nulla giovano torce, luci o
perspicillum
a chi non può vedere. Lo riconosco, è giusto così. Il tempo
accomoda le cose, riassegna a ciascuno il proprio ruolo,
spiana le asperità, riduce a insignificanti rilievi cime insormontabili. Le
vicende degli uomini hanno un inizio e una fine che ben descrivono la loro
limitatezza e, forse, anche la loro superbia.
Ho ricordi solo del tempo con Tycho. Gli anni con lui sono abbacinanti, quasi bianchi nel loro chiarore sfolgorante, mentre ho cancellato il resto. C'era ben poco da conservare. Di mia madre ricordo il corpo disfatto dalla fatica e lo sguardo da serva, umile e rassegnato. La povertà è un male che ti rende marginale, sostituibile, ti abitua al disprezzo altrui. Forse non ero nemmeno figlio suo, forse ero stato abbandonato e lei mi aveva amorevolmente accolto nonostante il mio aspetto ripugnante. Nelle lunghe notti delle mie osservazioni solitarie mi sono perfino immaginato creatura nata da Tycho, dal rigonfiamento di una sua costola, da una pustola del suo corpo. E a questo parto innaturale ho anche attribuito la mia deformità, la gobba che mi crocchia sulla schiena, il corpo da nano, il mio aspetto ridicolo. Un buffone. Chi nasce deforme è condannato a una vita deforme, esasperata nel bene e nel male, nel tragico e nel ridicolo. | << | < | > | >> |Pagina 31Il balivo e il pastore convocarono un'assemblea della comunità. Dissero che avrebbe partecipato anche il nobile Tycho, ma il motivo della convocazione rimase misterioso. Si faceva ogni genere di ipotesi. Ne avevano discusso le donne al pozzo, ne avevano discusso gli uomini all'osteria o agli angoli delle strade, ne discutevano i contadini e i fattori, ognuno tra i suoi pari. Ma non era emerso niente che nessuno già non sapesse o non avesse visto con i propri occhi in quelle settimane di disgelo. Tycho, dal giorno della sua prima visita, era tornato più volte. Aveva perlustrato accuratamente l'isola e, dopo che la neve si era sciolta, aveva piantato dei piccoli pali di legno nella sua parte centrale, in presenza di un'altura di pochi piedi danesi, delimitando un'area che apparteneva alle terre coltivate in comune. Era un suo diritto, ma la cosa aveva dato vita a non pochi mugugni. Qualcuno non faceva segreto del proprio malumore per un sopruso che andava contro abitudini che si perdevano nel buio dei tempi andati e sosteneva che avrebbe approfittato dell'assemblea per palesare la propria disapprovazione. Nel frattempo approdavano quotidianamente imbarcazioni provenienti dalla costa che scaricavano legname e altro materiale da costruzione. Ma a che servivano? Nessun nobile si era mai sognato di vivere sull'isola.
Mia madre mi fece indossare il vestito buono; un vestito
da bambini, perché non c'erano soldi per confezionarne uno
da uomini della mia misura. Mi aiutò a infilare la blusa dalla
testa e mi riempì di mille raccomandazioni, come se avessi
avuto cinque anni. Come potevo pretendere che gli altri mi
considerassero adulto se anche mia madre continuava a trattarmi da bambino?
All'ora convenuta tutto il villaggio era all'interno del circolo
di massi, accanto all'edificio che fungeva da tribunale. Tycho
si presentò con un seguito di alcuni servi, accompagnato da
una donna in abito grigio, con i polsini e il collo di pizzo chiaro, e da un
cancelliere notarile. La donna avanzò tra la folla
con passi vaghi e si sedette su una pietra bassa, accomodandosi accuratamente la
lunga gonna. Tycho prese posto in
piedi, alle sue spalle. Al suo fianco si allinearono il parroco, il
balivo e i fattori più importanti dell'isola. Questi ostentavano
folte barbe, alla maniera contadina, e indossavano lunghi calzoni, bluse dal
bianco collare a gorgiera e alti cappelli dal
bordo stretto, di colore scuro. Tycho invece vestiva come si
confaceva a un nobile di Danimarca, con stivali, calzoni alla
zuava, spada al fianco, veste ricca di bottoni, camicia di lino,
corta mantellina dal collo alto e berretto adorno di piume.
Subito fu evidente che solo la sua maniera di vestire erigeva
una barriera insuperabile tra lui e i presenti. Per l'intera durata
dell'assemblea, tra l'altro breve e povera di polemiche, non
pronunciò parola. Si limitò a rimanere in piedi, accanto alla
donna vestita di grigio, lasciando che altri parlassero per lui,
che altri dicessero ciò che andava detto. Come un signore,
nell'esercizio del proprio potere, non si abbassò a discutere
di dettagli o a mettere in dubbio decisioni che erano state
irrevocabilmente prese in altri luoghi, da altre persone. Il
distacco, che impose da quella prima assemblea, era il segnale di un radicale
cambiamento nella vita di tutti.
Mia madre si tenne in disparte, ai margini del cerchio di pietra, insieme alle donne e ai contadini che lavoravano nella fattoria. Per tutto il tempo non levò gli occhi da terra e non guardò in viso nessuno. Nessuno, del resto, le rivolse parola. Il nostro padrone aveva preso posto vicino a Tycho, con tutti gli altri fattori. I bambini si rincorrevano e lottavano nel prato, noncuranti dei vestiti buoni che le madri li avevano obbligati a indossare. Uccelli neri volavano alti nel cielo azzurro. Le donne indossavano bluse dalle maniche lunghe e vesti di lana colorata con ampi grembiuli. Solo le maritate si coprivano il capo, le più giovani avevano lunghe trecce che ricadevano sulle schiene robuste. Mi feci largo tra la folla. Attirava la mia curiosità la donna accanto a Tycho. Il suo volto aveva un'espressione assorta, emanava una luce che possedeva lo stesso freddo e incorruttibile splendore delle stelle; gli occhi chiari e silenziosi, la bocca piccola, segnata da labbra incolori, i denti allineati come tante perle. L'austera dignità che le conferiva l'abito privo di orpelli contrastava e nello stesso tempo perfezionava l'eleganza di Tycho. Le mani posate sulle ginocchia, il volto stretto nella cuffia bianca, gli occhi che si spostavano dalle sue mani ai volti degli astanti senza lasciar trasparire finta umiltà, le pieghe del vestito che celavano il petto minuscolo. Tutto in lei, ogni gesto e ogni posa, sprigionava un senso di composta appartenenza, una consapevolezza del proprio ruolo e della propria vita che si traduceva in una sorta di serenità che irradiava intorno.
Mi avvicinai spingendo, strisciando tra le gambe di chi non voleva lasciarmi
passare. Qualcuno mi assestò anche un
paio di calci, ma non mi fermai fino a quando non fui il più
vicino possibile a lei, la sola che in quella folla mi paresse
degna di attenzione. Tycho si accorse di me, forse mi riconobbe. La luce radente
del giorno creava riflessi di metallo
sul suo naso, ma io non avevo occhi che per quella donna
sulla cui spalla lui, con un movimento quasi invisibile, forse
inconscio, aveva posato la mano.
La parrocchia sorge accanto al bosco. La gente arriva alla funzione sbucando da sentieri invisibili, smarriti nell'erba o nel fogliame. La chiesa si riempie in fretta, famiglie di contadini compaiono come per incanto dal nulla. Fili di fumo si sollevano sopra l'intrico dei rami del bosco. Lei è sempre vestita sobriamente, con abiti dal collare di pizzo e la cuffia bianca, anche se non è ancora sposata. L'opposto delle contadine, coi corpi segnati dalle gravidanze, compressi dentro ai loro abiti sgargianti, oppure con i capelli al vento, fermi in trecce o altre acconciature, e il volto dalle guance rubizze sempre pronto al riso. Kirsten, la chiama il padre, siedi qui. Lei obbedisce di malavoglia. Il posto è vicino al banco dove siederà Tycho con la madre e le sorelle, accanto agli stemmi degli antenati dei Brahe. Non è posto per lei, non è posto per la figlia di un pastore. Ha visto il castello di Knutstorps, con il maestoso ponte levatoio, il lago popolato di cigni, il cortile circondato da quattro file di edifici, i tetti spioventi, i frontoni scalinati e ne ha avuto timore. A Kirsten piace quel giovane nobile, dal portamento fiero – così diverso dagli altri giovani della sua età, quelli che Kirsten sente schiamazzare dopo la funzione – ma ne è anche intimidita. È cosciente della differenza che li separa, anche se alla domenica lui siede nel banco poco distante da lei e ogni tanto la guarda, però nei pochi minuti nei quali si rivolgono la parola ne è conquistata. Tycho le parla del cielo, dei suoi studi di alchimia, dell'abbazia di Herrevad, oltre le colline circondate dal bosco, dove si reca quotidianamente per seguire le sue ricerche. C'è un entusiasmo nella sua voce, quando racconta dei suoi studi, che lei non ha mai incontrato in nessuno. Sua madre gli dice di lasciar perdere i suoi interessi scientifici, degradanti per un nobile che ha compiti di governo, e lo invita anche a non perdere tempo con ragazze come Kirsten, che non hanno nulla a che vedere con la casata dei Brahe, ma Tycho non segue i suoi consigli. Kirsten gli piace per il modo che ha di guardarlo, per come sa ascoltare in silenzio, per come si veste e si comporta. La sua testa è piena di vecchie storie di nobili cavalieri che sacrificano le loro giovani vite per bellissime dame.
Quando lui glielo chiede per la terza volta, Kirsten accetta
di vederlo, di nascosto, in una radura del bosco. Si incontrano
che è quasi buio. Il freddo di novembre li costringe ad abiti
pesanti. Quando si incontrano, sono accaldati per il cammino.
Lui è agitato, sembra non capire più niente. Le parla di una
nuova stella apparsa in cielo da un giorno all'altro, nata dal
nulla, le parla di Aristotele e dell'immutabilità dei cieli che per
la prima volta viene negata. Le dice che dovrà ritornare all'abbazia, che la
notte è serena, propizia per nuove misure. Lei lo
ascolta senza fiatare, le ombre notturne offuscano presto l'intrico dei rami.
Prima di ripartire lui la bacia. Un bacio rapido,
di circostanza; lei non coglie nemmeno il calore delle sue labbra e lui non
smette un secondo di pensare alla nuova stella.
Il cancelliere notarile avanzò di un passo e srotolò una pergamena dopo aver spezzato davanti al pastore e al balivo i sigilli reali con gesto teatrale. Il suo vestito nero metteva in evidenza il pallore del viso concavo, abituato alle atmosfere viziate dei luoghi chiusi, alle polveri degli archivi. Era quasi con una smorfia di disgusto che esercitava, senza esserne avvezzo, al sole e all'aria aperta.
Interrompendo il fragile silenzio dei presenti, intimoriti da
quel cerimoniale estraneo, il cancelliere proclamò: «Noi,
Federico II, rendiamo noto a tutti gli uomini, che con il nostro
speciale favore e grazia abbiamo conferito e accordato in
feudo, ed ora per mezzo di questa lettera aperta conferiamo e
accordiamo in feudo, al nostro diletto Tyge Brahe, figlio di
Otto, di Knutstorps, nostro uomo e servo, la nostra terra di
Hven, con tutte le proprietà e gli affittuari e i servi della
Corona che laggiù risiedono, con tutte le rendite e i beni che
da essa ne derivano e sono dovuti a noi e alla Corona, e la possegga, ne goda,
la usi e la tenga, privo d'obblighi e liberamente, senza affitto alcuno, tutti i
giorni della sua vita, tanto lungamente quanto vivrà e desidererà continuare a
seguire i suoi
studia mathematices,
ma in modo che tratterà gli affittuari che
laggiù vivono secondo la legge e il diritto, e non danneggerà
nessuno di loro contro quanto affermato dalla legge o introducendo nuovi
obblighi o altre tasse inusuali, e in tutto questo resterà fedele a noi e al
regno, e si preoccuperà del nostro benessere in ogni maniera e difenderà il
regno dai danni e dai pericoli che lo minacceranno. Deciso in Frederiksborg il
XXIII giorno del mese di maggio dell'anno 1576».
Il balivo aggiunse che Tycho avrebbe presto edificato una fattoria per sé fino a quando non sarebbe stata pronta una dimora degna del suo rango e della sua nobile persona, nella quale avrebbe abitato negli anni a venire, esercitando sull'isola e i suoi abitanti i propri diritti di feudatario. Un brusio percorse l'assemblea ma nessuno si oppose, nemmeno chi nei giorni precedenti aveva giurato di protestare contro l'usurpazione delle terre comuni. La folla si disperse in poco tempo. Le donne per prime, richiamando i figli dai prati, e gli uomini subito dietro, incolonnati verso il villaggio, la testa bassa e le mani dietro la schiena, rimuginando parole amare. Le navi nelle acque grigie e verdi dell'Øresund avevano gettato l'ancora in attesa di pagare il pedaggio reale e ripartire per le loro destinazioni. Navi cariche di barili di aringhe affumicate, di legname delle foreste della Skåne, di grano del Baltico, di tessuti delle Fiandre, di sale estratto dalle miniere di Wieliczka e di Bochnnia. Sull'isola, i diritti feudatari rivendicati da Tycho avevano generato scontento. Alcuni tra i più giovani, dopo l'assemblea, partirono, credendo di trovare meno ingiustizie altrove. Pochi ritornarono, della maggior parte non si ebbero più notizie. Forse perirono, forse fecero famiglia e fortuna senza desiderare di dar più notizia di sé. Presto ci fu però una seconda lettera regale che proibì ai contadini anche di lasciare l'isola, per non privare Tycho di preziosa manodopera. Il re si era schierato definitivamente dalla sua parte. Tutti si rassegnarono così a cedere una quota del raccolto al nuovo signore e a concedergli due giornate settimanali di lavoro dall'alba al tramonto, perché così era il volere della Corona e al volere del più forte, da quando il sacro piede di Adamo aveva calpestato per la prima volta il suolo del paradiso terrestre, il più debole aveva sempre chinato la testa. | << | < | > | >> |Pagina 45Un blocco liscio, di porfido nero, era stato posato all'angolo sudest dello scavo. Un'iscrizione dedicava alla dea Urania la costruzione che sarebbe presto sorta in quel luogo. Gli ospiti si erano dispersi per il prato; nobili e studiosi, abbigliati secondo il loro rango, che confabulavano in piccoli gruppi oppure andavano in giro a braccetto delle loro signore, ostentando riverenze a destra e a manca. Parecchi erano arrivati da più di una settimana, Tycho li aveva fatti sistemare nella sua fattoria e anche in qualcuna delle altre. Illustri dame avevano caricato sopra ai carri i bauli che si erano portate nel viaggio e che robusti marinai avevano scaricato dalle imbarcazioni.Nel prato erano stati allestiti tavoli colmi di cibi e di bevande fresche. Per proteggerle dal sole estivo, erano state montate cinque tende colorate, aperte sui lati, come baldacchini, sorrette da quattro pali dello stesso colore delle tende. L'aria muoveva le stoffe e faceva oscillare debolmente gli scudi di legno appesi ai pali, con i simboli della famiglia Brahe. Servitori giunti per l'occasione da Copenaghen e Landskrona riempivano i bicchieri vuoti con ossequiosi inchini, spostandosi di gruppo in gruppo a offrire i propri servigi. Io mi muovevo invece cercando di non perdere di vista Tycho. Ero diventato abile a occultarmi, a collocarmi ai limiti del campo di percezione altrui, dove nessuno riusciva a distinguermi. Mi illudevo d'essere invisibile, d'essere altro da ciò che ero, di vivere pezzi di una vita che non mi apparteneva. Assieme agli aromi dei vini, dei piatti ricchi e colorati, delle salse piccanti, l'aria stancamente spandeva attorno stralci di discorsi in lingue differenti; francese, tedesco, latino. Lingue che non conoscevo e che mi incuriosivano con la loro sonorità aliena. Tycho era forse il solo a parlare danese con un gruppo di professori dell'università di Copenaghen. Indicava la pietra con l'iscrizione e diceva d'essere convinto che le stelle, soprattutto le stelle erranti, determinassero il carattere e la predisposizione di un uomo al momento della sua nascita, ma che la volontà di questo potesse condizionare il proprio destino, perché Dio aveva dato a ogni uomo l'uso della ragione e del libero arbitrio. E che la ragione era lo strumento più prezioso per penetrare i misteri della natura e costruire conoscenza, l'unica via per creare un'unione spirituale tra l'umanità e le forze immateriali e nascoste del mondo naturale. L'animo umano, quale immagine divina, rifletteva nel proprio intimo l'armonia delle sfere celesti che ruotavano senza posa dalla creazione del mondo. Uno dei professori alzò un coppa al cielo e gridò: «A Uraniborg!». Anche gli altri professori alzarono le loro coppe e ripeterono in coro: «A Uraniborg!». Tycho si avvicinò alla pietra scura, distante pochi passi, e versò parte del vino contenuto nella sua coppa sull'iscrizione: «A Uraniborg» disse «alla città di Urania! Che abbia lunga vita e riveli i segreti che i cieli ancora ci nascondono, che il giorno scelto per la posa della prima pietra le sia propizio».
Il mare luccicava verso meridione come una lamina di
metallo sbalzato. Tra le spire di una foschia vaporosa pareva
di intuire il profilo di una costa lontana.
«Non è forse già stato tutto rivelato da Aristotele e da Tolomeo il grande? Che altro c'è da conoscere?» osservò uno degli invitati che si era avvicinato piano piano al gruppo e, dopo aver prestato orecchio ai discorsi che vi si tenevano, interveniva forse inopportunamente. Indossava un abito leggero e colorato, la pelle del suo viso era bianca come la tela del fazzoletto che di quando in quando avvicinava alle labbra con un gesto ricercato e privo di scopo. «Al contrario, ogni cosa è ancora da rivelare» rispose Tycho, verso il quale tutti si erano rivolti. «Non sarete pure voi uno dei seguaci delle tesi di Copernico ?» «E perché no? Le tavole pruteniche che Reinhold ha compilato seguendo le indicazioni contenute nel De revolutionibus funzionano meglio delle tavole alfonsine, compilate ormai secoli addietro secondo i dettami dell' Almagesto. Questo è evidente a chiunque osservi i fenomeni celesti con regolarità. Lo stesso Regiomontano ne aveva ampiamente riferito.» «Quindi anche voi credete che sia la Terra a ruotare attorno al Sole?» «Io credo a ciò che vedo. E i miei occhi hanno visto comparire una nuova stella in Cassiopea e l'hanno vista brillare per alcuni mesi come un nuovo sole nel mezzo della più distante e incorruttibile delle sfere aristoteliche.» L'altro sorrise. «Sì, mi hanno parlato del vostro De stella nova, nel quale, al contrario di altri, affermate che tale fenomeno non avviene nel mondo sublunare, palesemente contraddicendo il pensiero degli antichi.» «Non l'ho affermato, l'ho dimostrato con le mie misure, descrivendo anche con precisione gli strumenti che ho utilizzato. D'altronde anche altri illusti studiosi, come Mästlin o l'inglese Digges, confrontando la sua posizione con quelle di altre stelle fisse, hanno concluso che la nuova stella non presentava parallasse e da ciò deducendo la sua appartenenza alla sfera più lontana.» «Eppure altri affermano che si sia trattato di una cometa o di un effetto ottico della luce di altre stelle nell'attraversamento delle sfere cristalline inferiori. È un fenomeno che è già stato descritto, come la scomparsa della settima delle stelle delle Pleiadi il giorno in cui cadde Troia o la più recente temporanea scomparsa della Stella Polare quando i Turchi hanno conquistato Costantinopoli. È una questione che mi pare capziosa, uguale a quella che divide in opposte schiere i sostenitori di Copernico e Tolomeo , questione sulla quale, per inciso, le Sacre Scritture non danno adito a fraintendimenti. Come si può stabilire quale dei due abbia ragione?» Tycho attese prima di rispondere e poi concluse: «Osservando il cielo, con strumenti precisi, notte dopo notte, per molti anni a venire». | << | < | > | >> |Pagina 80Mi sentivo un assistente rimanendo al contempo il giullare di Tycho. Recitavo e studiavo. Vivevo due vite. Godevo di una condizione particolare e ambigua. Non avevamo stipulato accordi o sottoscritto contratti, il nostro rapporto si basava solo su quello che c'eravamo detti una notte lontana, il cui ricordo avevo forse ammantato di sensi che non le appartenevano. Le mie capacità incuriosivano Ticho, ma di una curiosità allo stesso tempo razionale e superstiziosa. I suoi comandi mi giungevano per interposta persona, come se mi stimasse e contemporaneamente mi temesse, o mi volesse mantenere alla distanza che competeva al mio stato. Me li riferivano Flemløse o Morsing, gli assistenti anziani, i punti di riferimento di tutti gli studenti. «Non ha voluto che tu imparassi il latino solo per raccontare storie ai suoi commensali» mi confidò Flemløse una sera, poco prima che ci ritirassimo nelle nostre stanze. E infatti ero stato sollevato dai lavori pesanti. Al più dovevo impegnare mezza giornata in faccende di poco conto, che sbrigavo frettolosamente: verificare consegne di materiali, occuparmi della spedizione della posta. Per il resto potevo dedicare il mio tempo allo studio. Avevo libero accesso alla biblioteca e ai testi che vi si trovavano. Leggevo avidamente, affidandomi ai consigli di Flemløse che, a seconda delle mie domande e delle mie curiosità, mi indirizzava verso un testo o un altro. Non di rado portavo i libri anche nella mia stanza e durante la notte, alla luce della candela e delle stelle, rimanevo desto a leggere. Era una febbre, una malattia. La vita mi appariva in quei giorni breve, avevo l'impressione che il tempo mi sfuggisse, che non mi sarebbe bastato per arrivare a imparare tutto ciò che avevo desiderio di conoscere. Sprofondavo dentro ai libri, come una pietra nell'acqua torbida di un stagno. Il resto del mondo scompariva, si nascondeva dietro una cortina d'acque scure che ovattavano luce e suoni. Mi sembrava d'entrare nella testa di altri uomini, nei loro pensieri, e soprattutto di penetrarvi diversamente rispetto a quanto di solito mi accadeva.| << | < | > | >> |Pagina 132Erik Lange durante i suoi soggiorni a Uraniborg lavorava con Sophie. La sua ossessione era riuscire a trasformare il piombo in oro. Ma Sophie tentava in ogni modo di dissuaderlo. «Se lo desideri con tanta intensità non ci riuscirai. L'alchimista non cambia il piombo in oro, ma cerca nella materia il riflesso di una realtà solo spirituale, il trascendente che si è occultato nel mondo sublunare, l'eco presente nell'imperfezione di una realtà assoluta e immutabile.»Anche Tycho collaborava con Sophie. Assieme conducevano complicati esperimenti per produrre medicamenti o altre essenze e commentavano i loro insuccessi per lungo tempo, correggendo i procedimenti a volte anche solo in particolari minimi, agli occhi dei più trascurabili. Quel loro continuo confabulare per vagliare ogni passaggio ricordava il lento lavorio dell'acqua che, goccia a goccia, buca le pietre. Chiesi a Tycho che cosa lo spingesse a occuparsi di alchimia, ad avvicinarsi a un sapere tanto antico e tanto diverso da quello che lui stava tracciando in astronomia. «Non esiste una sola via. Tutto in natura è legato» rispose «i cieli, la terra, i destini degli uomini. E non esiste un'unica maniera per svelare la trama dei fili che legano tra loro gli oggetti della creazione. L'uomo nella sua piccolezza è un riflesso del cosmo. Studiando i cieli e tutto quello che esiste sulla Terra arriva a comprendere meglio se stesso. Anche tu hai accesso a modalità che ti permettono di conoscere il passato e il futuro degli uomini, di leggere nei loro pensieri. Sono doti singolari, ma non per questo le ho mai messe in dubbio.» Come durante le misure astronomiche con i suoi assistenti, accadeva che si limitasse a osservare Magdalene e Sophie impegnate a rimestare, mescolare e diluire, ma al suo sguardo non sfuggiva quasi nulla. In piedi e un poco in disparte, per non distrarre le due donne, seguiva ogni operazione, all'apparenza indifferente ai fumi e al sudore. Era prigioniero di una concentrazione in quei momenti che lo trasformava in una statua, in uno di quegli automi che Labenwolf posizionava in cima alle sue fontane. Con il semplice movimento degli occhi sembrava annotare e catalogare nella sua mente ogni fase degli esperimenti. Sapeva poi discutere e commentare quanto aveva visto accadere. Più lo conoscevo, più la mia devozione nei suoi confronti cresceva. Forse si amava così un padre. | << | < | > | >> |Pagina 245Dall'esterno giungeva il rumore delle martellate di alcuni operai che stavano inchiodando delle assi sotto la finestra della nostra stanza.«Ha parlato con Tycho?» Annuii. Longomontano era intento a copiare e a correggere i valori di alcune osservazioni, confrontando una serie di calcoli suoi con una tabella sulla rifrazione compilata alcuni anni prima da Tycho. «Hanno discusso per più d'un'ora» aggiunsi. «Si fermerà?» « Keplero ha assoluto bisogno dei dati in possesso di Tycho; le misure di Marte, in particolare, sono quelle che gli interessano di più. Avete raccolto osservazioni di dieci opposizioni, non c'è nessuno al mondo che abbia misure tanto precise. E Tycho, parimenti, ha bisogno di lui, per confermare la correttezza del suo sistema. Sono uomini d'indole opposta sotto certi aspetti, e identica sotto altri; stenteranno ad andare d'accordo, ma hanno bisogno uno dell'altro. In condizioni differenti non credo che potrebbero collaborare.» «Ma è un copernicano. Tycho non può affidarsi a qualcuno che non crede al suo lavoro!» Distolsi lo sguardo e osservai il cielo grigio fuori dalla finestra; aveva cessato di nevicare da poco. «So che avresti voluto che Tycho affidasse il compito a te, ho visto i fogli con i tuoi calcoli.» «No» rispose amaramente Longomontano «Tycho ha ragione. Conosce i miei limiti in matematica.» Intuii quanto gli era costato ammetterlo. Aveva terminato di trascrivere i valori e si era soffermato a osservare il cielo che si stava scurendo. Anche gli operai, nel cortile, avevano smesso di martellare. «Tycho ha percepito che Keplero è l'uomo giusto» dissi. «Giusto per che cosa?» «Per dare all'astronomia l'ordine che le manca. In questi anni Tycho ha predisposto il materiale, ma adesso è necessario un architetto che pensi e porti a termine l'edificio. L'astronomia ha bisogno di essere rifondata, di avere una nuova casa.» «E si affida a un copernicano?» «Tycho ha colto più in là della superficie» dissi. «Si affida a chi ha le capacità per portare a termine il compito. In fondo spera che, Keplero, cercando di dimostrare le proprie teorie, arrivi a dimostrare la correttezza del sistema tychonico.» Longomontano corrugò la fronte. «Hai ragione» disse «però ti conosco abbastanza per capire che c'è dell'altro che ti lascia perplesso, che non ti persuade.» «Sì» ammisi. «Che cosa?» «Keplero è come perennemente inseguito da uno stuolo di fantasmi, che lo circonda, lo strattona, lo tormenta; fantasmi che si porta dietro dall'infanzia. Un'ombra di follia lo segna e lo rende sfuggente, imprevedibile, facile agli sbalzi d'umore. Parlando con lui, in alcuni istanti ho avuto timore, ma non saprei spiegarti di che. Qualcosa, nel suo modo di fare, mi richiama con insistenza la morte.» «Ne hai parlato con Tycho?» «Certo» risposi. «E lui?»
«Ha risposto che un'oncia di pazzia deve essere presente
in ogni uomo che voglia ambire a demolire credenze millenarie.»
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