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| << | < | > | >> |Pagina 3 [ inizio libro ]In primavera attraversava cespugli di cisto, macchie di timo, fazzoletti di erba, veronica, ciuffi di valeriana rossa aggrappati ai muri, lance d'origano e di timo, onde di lavanda e di ginestrini. Mentre al riparo degli ulivi aglietti e iris blu rasentavano isolotti di borragine, acetoselle e piselli odorosi.A giugno sotto gli ulivi c'è il giglio arancione di San Giovanni. Dopo ulivi: querce, lecci, carpini, noccioli, castagne e sui prati primule, brughi, rose canine, crochi, timo, prugnoli e "puiot" di lavanda. | << | < | > | >> |Pagina 37Oleandri, lentisco, euforbia, mirto, timo, ginestra, ginepro, lavanda, rosmarino, pino marittimo, pino d'Aleppo, leccio, farnia, carpino nero, rovere, acero, castagno, erica, maggiociondolo, noce, faggio, abete bianco, abete rosso, larice, pino montano, cembro, mugo, nocciolo. E poi un sottobosco di felci, muschi, licheni, mirtilli, erica, rododendri. Dal mare fino ai 2000 metri e oltre piante erbacee pioniere.Questo ventaglio di verde attraversarono i Saraceni quando fuggirono da Frassineto: uomini giovani e vecchi, donne giovani e già anziane, ragazzi, bambini. Si lasciarono alle spalle i venti di Ponente e di Levante, i profumi mescolati del Mistral, l'eco del mare, un "auro foulo". Camminavano, s'arrampicavano impacciati mentre l'aria intorno cambiava sapore. Quando la vegetazione lo consentiva lanciavano lancia e freccia verso tordi, merli, pernici rosse e bianche, gracchi e poiane. Abbattevano cinghiali e marmotte, camosci e stambecchi. Quando non trovavano selvaggina si dividevano un pugno d'acciughe conservate sotto sale. - E andata cosí? - chiede Ugo. - Potrebbe, non ti pare? - rispondo. - Fino a quando non son scivolati giú dal costone di Pagliares... - Da quello di Santa Margherita, dove si son fermati a riprender fiato. - E da dove non si son mossi... - Ma solo per un po', perché il richiamo del mare è un canto di sirena... | << | < | > | >> |Pagina 38 [ bagna caoda ]Da tempo Vasco voleva portarmi verso Cuneo a cercare un acciugaio che da ragazzo girava i paesi con la bicicletta e il suo barattolone legato al portapacchi, dietro al sellino.- Prima, - gli ho chiesto, - fammi vedere come si fa una bagna caoda. Sono andato in cucina, a casa sua, in via Casteggio, dove una volta abitavo nell'alloggio dove ora sta lui. Mi fa vedere un mucchietto di acciughe belle grassottelle. -Piú le lavi e meno forte rimane la bagna, - dice. - Se son buone le devi spaccare longitudinalmente, ricorda. Devi metterle per una decina di minuti in un piatto fondo coperte d'acqua e un po' d'aceto di buon vino. Perdono sale e si sgrassano leggermente. Poi l'aglio. Se ce l'hai di Cap d'Ail, quello rosato, meglio. Una testa a persona. Togli per bene la pellina e anche l'anima, che fa solo pesantezza di stomaco. Poi ti prepari le verdure. Il cardo, di Nizza Monferrato, è il piú delicato. Lo tagli e lo tieni a bagnomaria in acqua e limone perché non ossidi. Fai lo stesso anche con i topinambur. Ricordati le foglie del cavolo, quelle vicine al cuore e ricordati di prendere, a Porta Palazzo li trovi, i peperoni sotto raspo d'uva, lavali con cura. E lava bene le barbabietole. Fai cuocere una cipolla al forno, con la buccia, che peli dopo. Ci vuole anche una bella noce, senza pelle. Per levarla si butta nell'acqua bollente e poi sotto il rubinetto della fredda. Poi pesta bene la noce. Vasco prende le acciughe dal piatto, le apre, le lava ancora sotto l'acqua fredda e poi le asciuga su fogli di scottex. Si avvicina a una terrina e ci versa due bei bicchieri d'olio e una noce di burro. A questo punto ci versa la noce tritata e accende a basso fuoco. Con una paletta di legno amalgama olio, burro e noce. E ci lascia cadere con religiosità le acciughe, una per volta e gira con polso di velluto. A parte ha fatto bollire nel latte l'aglio e ora, che è freddo, dopo averlo asciugato, lo schiaccia con il palmo della mano e lo butta nella terrina. - Ti faccio una bagna delicata, - dice. E continua a girare, ad amalgamare. Tiene il fuoco ancora per un quarto d'ora, poi dice che è pronta. Ci sediamo a tavola, con la terrina di fronte. Vasco ci íntinge un pezzo di pane. - Non male, - dice. Non è il «brodo» di Ernè, ma il suo ricordo è forte. Dico a Vasco che la bagna caoda viene dalla Liguria. Ride. Gli dico che poco prima di Natale l'abbiamo mangiata a Dolceacqua. E che non credo che sia solo la presenza di «foresti» torinesi ma anche di un ricordo tornato alla memoria, dopo secoli. Cosi, all'improvviso. Vasco è scettico. - In Piemonte la facevamo già con l'olio di noci. Io penso ai Saraceni di Moschiéres, al fumo dei loro camini che sapeva d'acciuga e aglio. | << | < | > | >> |Pagina 64 [ Moschiéres ]Per lui Moschiéres significa: insieme di "mas", insieme di fattorie. E che la mia ipotesi di toponimo con origini saracene è fuori strada.Lo ringrazio e ci penso su. Il paese che ho visto con Ugo è un vero insieme di "mas", il piccolo borgo non mi è sembrato ricco di stalle, inoltre la sua posizione cosí incassata nella valle che pascolo a mucche e pecore poteva offrire? I pianori erano distanti, troppo, per donne e ragazzi. La tesi di Arneodo mi sembra piú probabile di quella di Bruno sulle mosche. Eppure... Provo a ripensare al pomeriggio azzurro sotto Santa Margherita, mentre salivamo verso Moschiéres. Ero attratto da tanti verdi contro il cielo celeste e il campanile bianco di Santa Margherita. Ma ero attratto anche da altro, da cosa? Un pulviscolo nero a mezzo cielo, come una nuvoletta di caligine che si spostava qua e là sopra i tetti del paese; ondeggiava da un capo all'altro, compatta e brusiante. Cos'era? Erano mosche, una nuvola di mosche su un paese abbandonato senza uomini e animali. Perché erano lí, le mosche, aspettavano forse il ritorno di uomini e animali? Forse, ma non bastava. Forzando la memoria, cercando le immagini di allora. C'era altro, non una immagine, non un suono. Ma un odore, si. Un odore. L'odore di acciuga. Le mosche aspettavano inutilmente il ritorno delle acciughe. Erano sempre arrivate lí attirate da quell'odore che vestiti e pelli e barilotti lasciavano nell'aria. Dunque Moschiéres poteva essere il paese delle mosche attratte dall'acciuga. E questa ipotesi mi suggeriva che c'era stato un tempo in cui il paese e i suoi abitanti furono senza nome, invisibili, nascosti. Un tempo lungo in cui smisero di essere saraceni o si negarono dall'esserlo, per poi diventare con il mestiere di acciugai paese e abitanti. Diventarono Moschiéres e di Moschiéres. | << | < | > | >> |Pagina 65,chiavi fine_libro Telefona Ugo. - Mi ha chiamato Piero Raina, - dice, forse ricorda come si chiamava la donna dai capelli rossi, l'ultima preda del "cavié", di Bruna.- Olga? - Vi siete già parlati? - chiede. Non rispondo. Gli parlo di Moschiéres, e mentre sento la mia voce andare gli occhi si riempiono d'estati e di reti, di polpa rossa di ricci e limoni gialli, quando ascoltavamo solo Rino Gaetano: «Il sole il mare il vento è ping pong / l'amore in un momento e poi / amarsi amarsi dentro / tutto è ping pong / il sole il mare il vento è ping pong / l'amore in un momento e poi amarsi ancora dentro». E le sere sul terrazzo con Chiara, Vladimiro e Valentina cantavamo con i Mutus tammuriate. E la notte finiva con Paolo che diceva sulla chitarra la fine di Orlando «con trecento cavalieri accanto».
E l'angelo della morte, era ancora lontano da lui, in
viaggio fra le stelle e le nubi di Magellano. Ma quella di
Paolo è un'altra storia...
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