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| << | < | > | >> |Pagina 5 [ inizio libro ]Lei, Clementina, voleva ritrovare il cranio dell'elefante scomparso quando era stata fatta brillare la barma dei Balzi Rossi. Era certa che qualche frammento dovesse ancora trovarsi fra le rocce della spiaggia.Com'era sicura che quella fosse la testa di uno degli elefanti di Annibale, caduto nel Rodano quando il generale punico aveva tentato di attraversarlo sul ponte di barche. Cosı, la notte, mentre i genitori dormivano, lei usciva di casa con il fratello Miro. Anche lui aveva un'ossessione in testa: quella di raggiungere l'uscita secondaria del Casinò per vedere Josephine Baker. Aveva in camera, incollato sull'armadio, un manifesto con la sua immagine e una grande scritta, come fosse la fronte di un palcoscenico: «Casinò di Montecarlo». La ballerina color del cioccolato mostrava grandi denti bianchi, una scollatura profonda e gambe lunghissime. Miro l'aveva ormai consumata con gli occhi e con le dita che passava sopra le cosce, sui seni tondi e su quel buffo gonnello di banane che le stringeva la vita. «Quelle banane», sospirava Miro, con un'eco di aggressività in gola. E spiegava a Clementina, come già fosse stato testimone oculare, che «quelle banane» erano l'accessorio di un numero spettacolare, rocambolesco e particolarmente erotico. | << | < | > | >> |Pagina 16Ma non era andata cosi. Quella notte Miro aveva deciso di aspettare Josephine Baker all'ingresso secondario del Casinò. Si era costruito due gigantesche ali con bucce di banana e si era arrampicato sopra l'ingresso del Casinò. Nei suoi piani c'era una grande planata ai piedi della Baker, una volta che l'avesse vista uscire.E cosi andò, o quasi: quando alle cinque del mattino la Baker oltrepassò la bussola girevole del Casinò per scendere verso la Rolls-Royce che l'aspettava, Miro si era buttato verso il suo sogno. Ma non planò. Come un Icaro superbo e infelice andò a schiantarsi ai suoi piedi, maciullandosi da un gradino all'altro. La Baker aveva urlato, senza rendersi conto di quanto avveniva perché subito venne spinta in macchina. Miro rimase agonizzante fino a quando un portiere non riuscí a capire che quell'impasto giallo e rosso era umano. Allora chiamò un'autoambulanza. | << | < | > | >> |Pagina 39Fu Rinaldo, conte di Ventimiglia, a metterci un castello, lassú a Villa Giunco, verso il Mille. E lí, il 10 giugno del 1625 era nato Giovanni Domenico Cassini, mentre il paese già si chiamava Perinaldo, nel marchesato di Dolceacqua. Diocesi di Ventimiglia, feudo dei genovesi Doria.Un suo zio notaio, Antonio Crovese, giudicandolo sveglio lo prende ai genitori e se lo porta a Vallebona, dove lo affida al padre Francesco Aprosio perché gli insegni l'abbicci della grammatica. La terra è la stessa, con castagni e pinastri. Anche il cielo è lo stesso, o appena un poco piú in alto perché, rispetto a Perinaldo, Vallebona è piú in basso. Si ferma poco il giovane Cassini fra le capre e i muli del paese, il suo talento lo risucchia verso il Collegio dei Gesuiti in Genova, sul mare, verso l'esercizio della «Ratio Studiorum». Davanti al cardinal Durazzo, già pochi anni dopo, è in grado di discutere di filosofia e teologia, mentre con i compagni scrive poesie e sale in palcoscenico. Quando il sole scende oltre la Lanterna consulta i trattati di Euclide, sfoglia le tavole alfonsine, nelle quali el sabio re di Castiglia, Alfonso X, aveva riassunto la scienza astronomica. Ma la sua meraviglia la riserva per quelle rodolfine ricavate dalle osservazioni celesti di Keplero e Brahe. Sui libri impara l'astrologia divinatrice, utile agli oroscopi, le predizioni, fondamentale per entrare poi nel cielo dell'astronomia, nelle rivoluzioni di Copernico e Keplero. E' ancora astrologo quando cambia città, da Genova a Bologna. Era il 1649 e Innocenzo X stava preparandosi a dar battaglia al duca di Parma e per questo motivo aveva assoldato in Genova il comandante Ottavio Sauli, astrologo dilettante e curioso dei movimenti celesti. Ora accadde che da comuni amici il Sauli venne a sapere che il giovane studioso Cassini guardando le stelle aveva predetto che il duca di Parma avrebbe perso lo scontro. Cosi Innocenzo X e Sauli dopo la vittoria chiamarono il Cassini a Bologna per affidarlo al piú grande cultore dell'astrologia e astronomia emiliana: il marchese di Malvasia, che aveva una specola celeste a Panzani. E fu lí che poco tempo dopo il Cassini suggerí al marchese: piú astronomia e meno astrologia. Già dal 12 aprile del 1650 tiene da cattedratico le letture universitarie in astronomia. E' succeduto all'Archiginnasio al grande Bonaventura Cavalieri, l'autore della «Geometria degli Invisibili», dopo aver sostenuto un duro esame davanti al gesuita Riccioli e ai professori Ricci e Bettini. I suoi occhi, mentre la bocca non si nega un tortello al ragú e qualche fetta di mortadella e i ciccioli che tanto gli piacciono, vagano, attenti, nelle pieghe del cielo. E nel Natale del 1652 vede la prima «spina celeste», una cometa. E' a Panzani dal Malvasia, chiuso nella specola, e la cometa è in alto, proprio sullo zenit di Bologna. La guarda e la riguarda e non crede che quella luce sia dovuta a esalazioni terrestri. Pensa piuttosto a un corpo celeste, dall'incedere regolato. Cosi chiede a Giuseppe Campani di fabbricargli un «eliometro» che gli potrà servire anche a studiare un'altra, la piú potente, sorgente di luce: il Sole. E' lui, pensa il Cassini, che regola in gran parte il movimento dei pianeti. Questo pensiero gli fa venire in mente di costruirsi una Meridiana gigantesca, adoperando l'edificio piú importante e grande di Bologna: il San Petronio. | << | < | > | >> |Pagina 65Mentre andavano, seguendo la deriva come su un mare estivo, imboccarono la Národní e videro l'insegna: Panoptikum. Entrarono perché lui sentí la spinta di Ripellino. Ad accoglierli fra scenografia e temperatura fredda c'era un Kafka giovane, spaurito e dagli occhi febbrili, poi un Mozart gaglioffo e trionfante fra un piano e molti candelabri. Li richiamò fra salotti e granduchi una nicchia di luce e stelle, una breve volta fitta di firmamento osservata da una finestrella. A guardarla erano due austeri signori dalla diversa fisionomia ed età e posizione. Uno, il piú vecchio, con una gran barba e il naso argentato e mosso come un artiglio d'aquila, stava seduto, l'altro, piú giovane, in piedi alle sue spalle. Ma gli occhi di entrambi guardavano le innumerevoli stelle del firmamento. Lui chiese a lei chi fossero. E Chiara lesse: «Tycho Brahe e Keplero». E lui chiese: - Chi è Tycho? - E lei, ricordando i suoi studi liceali, rispose che era uno scienziato, un osservatore del cielo, un astronomo, un matematico. Lui si tenne nell'orecchio quel nome e quel naso che gli ricordava il cantante pop del Fantasma dell'Opera, anche quando passarono davanti alla figura in gabardine del presidente Havel. Anche quando entrarono allo Slavia per mangiare un po' di prosciutto e recitarsi: «Ah, se quel flauto sapessi suonare | come so mettere i miei versi in rima», mentre alzavano i bicchieri di bianco contro le vetrate invase dal tremolio evaporato dalle acque della Moldava.| << | < | > | >> |Pagina 69Immaginava che avessero preso il nome di Mutus Liber in una di quelle loro sere sepolte in una Torino gocciolante d'umido e di nebbia, chiusi nella loro stanza di corso Brescia, con la stufa accesa e sul tavolo noci e datteri e fichi secchi.Immaginava che Paolo avesse parlato del Libro Muto, «dedicato ai figli dell'Arte e del Sole» o ai «Soli figli dell'Arte», ricordando le parole di Eugène Castellet sull'artista come alchimista che effettua esperimenti su se stesso e cerca l'ascesi del corpo, la sublimazione dello spirito. Fra una noce e un fico Paolo avrà impiegato la sua voce lieve per raccontare di Jacob Sulat e della consolazione che gli veniva dalle maree celesti, dell'impresa della Grande Pietra, della copia del libro in dotazione all'Académie Royale de la Rochelle, stampato nel febbraio del 1677. Quel libro di sole figure svelava i misteri dell'alchimia a chi fosse stato capace di interpretarli, cioè ai figli dell'Arte. E loro tre si consideravano tali, da quando, abbandonata la discoteca dove Paolo faceva il disc jockey, si erano ritrovati, sera dopo sera, prima su di un palcoscenico con altri performer, e dopo chiusi in quella stanza a riflettere sulle maree celesti e gli orti del cielo. Andavano avanti discutendo le trasformazioni della materia fino a notte fonda, poi Paolo, malguidando, riportava a casa prima Tiziana, in via Saccarelli, poi Rosaria in via degli Approcci, e tornava in corso Brescia, sopra lo studio, in una stanza che i piú videro una volta sola. «Bisogna scrivere per ambiguità e per enigmi affinché colui che, senza comprenderlo, avrà letto il libro trovato fortuitamente, lo getti via», aveva detto Platone. I ragazzi di corso Brescia volevano imparare a leggere sotto il velo dell'invisibile e del silenzio, perché stava là, l'unica Arte possibile, da sempre. Paolo, come Sulat, voleva raccogliere dal firmamento notturno, e conservare, il salnitro sottile, vedere Ercole-Mercurio abbattersi e trasformarsi in Sole e Luna, nell'oro e nell'argento dei filosofi ermetici. | << | < | > | >> |Pagina 92Al Klementinum, nella sala degli specchi della Biblioteca Nazionale, lesse l'intervento che lo aveva riportato a Praga:Se uno poi vede una cultura, una città, come una città di carta, con parole, virgole, inchiostro, con angoli di versi e piazze di canzoni, allora non può che dirsi: andiamo a Praga. Ma è un andare che passa prima per il testo: Kafka, Opalka, Seifert, Kolár, Mozart, Keplero, Holan. Che passa per Ripellino, come non saprei l'equivalente di altro scrittore del Novecento su altra città. Solo Baudelaire e Benjamin riuscirono ad abbracciare con tanta intensità un luogo, nell'Ottocento. Ma a un luogo che già si è visitato su carta poi si arriva magari, come a me è accaduto, perché c'è un'amica che in quella città è andata ad abitare. E riflettendoci scattano i sottili fili che legano poi i percorsi, per esempio Praga-Torino. L'alloggio dove abito è stato lasciato dalla sorella di questa amica praghese, a segnalarmelo è stato un libraio antiquario, mio amico. Dunque vado a Praga, questo è successo l'anno scorso, perché penso che a Praga ci sia ciò che uno nebulosamente sta cercando, sta scrivendo. Vado a salutare la mia amica e mi metto a girare per Mala Strana, Kampa - i versi di Holan, per i capitoli di Ripellino. Cosí finisco al Panoptikum che un po' mi delude e un po' mi affascina. C'è Kafka, c'è Mozart. C'è Keplero che guarda il cielo e le stelle nel cielo. A quel tempo mi ero messo a guardare di piú il cielo perché mi era scomparso un amico, uno scultore che cercava angeli nella pietra. Stavo anche leggendo la vita di Cassini, che è un conterraneo di Biamonti e mio, oltre a essere lo scopritore dei satelliti di Saturno. Nel Panoptikum Keplero guardava il cielo e alle sue spalle aveva un personaggio piú vecchio. Sulla targhetta c'era scritto: «Tycho Brahe». Mi piaceva quel nome. La mia fidanzata l'aveva studiato: alchimista, astronomo, pensatore, esule, rifugiato, protettore di Keplero. C'era in Ripellino, non l'avevo visto. Non era il momento. A Praga cercai angeli di Merynck, che viaggiavano fra Torino e Praga, ed edizioni di Holan e Seifert, attraverso le finestre d'Occidente. Poi tornai a Torino a rileggere Praga Magica, a rivedere la città da fermo. Scoprii, all'improvviso, che Max Brod aveva scritto un libro su Tycho e Keplero. Lo cercai come un matto in tutti gli istituti di cultura tedesca. Da Firenze riuscii a farlo arrivare a Torino. Ma qualche giorno prima dalla Sperling mi mandarono le fotocopie di una vecchia traduzione. Non sto a raccontare l'affascinante vicenda dei due scienziati all'ombra rudolfina, fra quotidianità e laboratorio speculativo. Ma al mio amico libraio antiquario raccontai la storia del Panoptikum e dei due vecchi maghi e lui mi raccontò di un'edizione del De Nova Stella di Brahe rubata a Porta Palazzo. Proprio nel posto in cui era vissuto il mio amico scomparso, lo scultore di angeli. Voglio dire che si sta sempre dove si è, perché tutto ci viene dietro o ci muove incontro. Pezzi di Praga sono a Torino, pezzi di Torino galleggiano nell'aria di Praga, la cultura d'Europa vola, piú guidata dalle stelle che da economia, geografia, politica. | << | < | > | >> |Pagina 115Se Miro voleva saperne di piú, dei suoi viaggi «coperti» al Cairo, in Marocco, in Palestina, a Casablanca, in Libano, trasmettendo informazioni e guadagnando milioni di franchi per finanziare «France Libre», lui gli avrebbe mandato dei libri o fatto un riassunto. Che gli facesse sapere quanto era ancora profondo il suo interesse. Le ossessioni, scrisse a Miro, vanno assaporate e guidate, soprattutto quando hanno avuto un inizio devastante. Il «devastante» lo cancellò, e gli scrisse che le ossessioni che cambiano la vita non possono essere messe da parte, abbandonate, perché sarebbe un tradimento, una perdita piú difficilmente colmabile di quel tarlo che ci aiuta a conoscerci, ci tiene in vita, ci protegge, anche.| << | < | > | >> |Pagina 131Nel viaggio verso la scomparsa di Paolo, che ora appariva meno improvvisa, in una distanza progettuale diversa, come due battelli al largo dei Balzi Rossi, uno che punta verso le Caladre e l'altro verso le Mose, si era precipitata la morte di quell'amico di terra, che aveva tenuto sempre le mani dietro la schiena e puntato al largo. E ora li vedeva procedere entrambi verso la luce del tà wie, come avrebbero detto loro, i Mutus.| << | < | |