Copertina
Autore Matteo Orfini
Titolo Con le nostre parole
SottotitoloSinistra, democrazia, eguaglianza
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2012, Report , pag. 224, cop.fle., dim. 14x21x1,5 cm , Isbn 978-88-359-9154-0
LettoreRiccardo Terzi, 2012
Classe destra-sinistra , paesi: Italia: 2010 , politica , economia
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Indice


Prologo                                          7

Prima parte
It's the end of the world as we know it
(and I don't feel fine)                         15
    L'ideologia che non funzionava più          19
    A proposito di non intervento               22
    Un deficit di politica                      25
    Riconquistare il centro della scena         31
    Corto circuito                              33
    Sotto il velo dell'ideologia                35
    La regressione del lavoro                   39
    La strada da prendere                       43
    Girare in tondo                             45
    Uscire dall'angolo                          48

Seconda parte
Il grande inverno                               51

    Eutanasia della politica                    57
    Un capitalismo antipolitico                 60
    La promessa mancata                         64
    Mitologia delle privatizzazioni             66
    Ci sono solo individui                      70
    La privatizzazione della politica           72

Terza parte
Meteore, comparse e protagonisti                77

    Una crisi di sistema                        84
    Gioco di specchi                            90
    L'inizio della fine                         93
    La Seconda Repubblica                       98

Quarta parte
La meglio classe dirigente                     103

    Il primo ciclo di governo                  107
    Quale sistema politico?                    110
    La qualità del riformismo                  114
    Una speranza                               118

Quinta parte
Il Partito democratico                         125

    I tre saggi di Orvieto                     133
    La falsa partenza                          139
    La caduta                                  143
    Il Pd del Lingotto                         145
    Fuori sincro                               148
    Double shot                                151
    Un senso a questa storia                   154
    Il ritorno dei tecnici                     159
    Una scelta politica                        163

Conclusioni
Niente paura                                   167
    Tornare alla realtà                        178

Appendice
Sui rapporti tra la Chiesa e lo Stato
    di Palmiro Togliatti                       189
Tornare avanti                                 207


 

 

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Pagina 7

Prologo


Olivia Dunham è un'agente dell'Fbi.

Lavora in una divisione segreta, che si occupa di fenomeni ai limiti della fantascienza: mutazioni genetiche, diavolerie biotecnologiche, universi paralleli. E deve affrontare un profondo senso di inadeguatezza. Affidandosi esclusivamente alle sue tradizionali competenze investigative, teme di non riuscire a venirne a capo.

«La verità è che siamo diventati obsoleti» è l'amara considerazione di Charlie Francis, suo collega e amico.

Certo, noi non abbiamo a che fare col paranormale, come i protagonisti di Fringe, serie ideata dal geniale J.J. Abrams. Tuttavia, qualcosa di simile lo abbiamo pensato anche noi, la sinistra europea, quando abbiamo deciso di rinunciare a esercitare un pensiero critico, riponendo in soffitta la nostra cassetta degli attrezzi.

Ci siamo convinti che quella specifica direzione del cambiamento che stava costruendo un mondo più ingiusto fosse una variabile indipendente, e che la sinistra non potesse che assumerla come tale.

Non solo abbiamo rinunciato agli obiettivi, ma gli stessi strumenti di una politica alternativa ci sono apparsi superflui: l'intervento pubblico, la valorizzazione del lavoro, l'idea stessa di una politica industriale; e poi i partiti, che per aver senso dovevano farsi leggeri a tal punto da divenire impalpabili, e i sindacati, visti come un peso per la competitività del paese.

Ci siamo sentiti impotenti e ci siamo resi inutili, accettando un ruolo marginale e negando – per l'incapacità di contrastarle – la natura politica di scelte che producevano un radicale peggioramento delle condizioni di vita della grande maggioranza della popolazione, e un gigantesco spostamento di ricchezza dal basso verso l'alto della piramide sociale.

Abbiamo considerato quelle scelte effetti collaterali inevitabili della modernità, e la nostra afasia ha contribuito a trasformare in senso comune, in assioma indiscutibile questa lettura.

Noi stessi abbiamo orientato il nostro pensiero in relazione a nuovi improbabili totem, divenendo così parte del problema che avremmo dovuto risolvere.

La giusta ambizione di aggiornare e rinnovare il patrimonio ideale della sinistra, cogliendo il nocciolo di verità, che pur c'era, nella critica al modello sociale europeo, si è tradotta negli anni in una drammatica crisi di egemonia, in una subalternità a quelle politiche di cui oggi, quasi vent'anni dopo, misuriamo gli effetti catastrofici.

Anche la grande occasione della seconda metà degli anni Novanta, quando tredici dei quindici paesi dell'Unione europea si trovarono a essere contemporaneamente governati da forze di centrosinistra, è andata sostanzialmente sprecata.

Oggi l'Occidente è investito da una crisi drammatica, intere generazioni convivono con l'incertezza del futuro e con il progressivo peggioramento delle proprie condizioni di vita.

Milioni di persone vengono espulsi dai processi produttivi e conoscono la precarizzazione della propria esistenza. La maggiore costruzione sociale dell'età moderna, il welfare state, imperniata sulla centralità del lavoro, si sta sfaldando progressivamente sotto i colpi di un'economia sempre meno industriale, sempre più finanziaria.

Nel frattempo, però, la storia non si è fermata: il mondo è attraversato da vecchi e nuovi conflitti, da tensioni inquietanti ma anche da fermenti che alimentano grandi speranze.

Si è aperta una fase storica in cui si sgretolano i pilastri su cui si è edificato in questo trentennio il monumento dell'ultima grande ideologia, quell'insieme di teorie economiche e scelte politiche che ha preso nomi diversi – reaganismo, thatcherismo, Washington consensus, neoliberismo – ma che indiscutibilmente ha avuto la forza di cambiare il mondo, modellando le nostre società e il nostro stesso modo di pensare. Tanto è stata rigida la gabbia dell'ideologia che oggi anche noi fatichiamo a uscirne, avendo contribuito a costruirne le sbarre.

L'inverno è stato lungo, e per questo fatichiamo a liberarci, a riaffermare il nostro diritto a percorrere strade nuove.

Vista da qui, dall'Italia di oggi, la situazione è impressionante. I grandi giornali, le eccellenze accademiche, i principali opinionisti, persino i maξtre a penser radicali più apprezzati nei salotti televisivi, e anche alcuni tra i principali leader della sinistra parlano ormai il linguaggio della destra.

La lettura dominante della storia del paese è tutta incentrata sulla contrapposizione tra società politica e società civile, e sul mito delle due Italie. Un impianto analitico cresciuto in una peculiare koinè culturale e politica che ha saldato spinte di origine diversa intorno all'obiettivo comune di delegittimare l'idea stessa di una democrazia incardinata su grandi forze popolari, in grado di svolgere una funzione reale di ricomposizione delle fratture del paese, come seppero fare i grandi partiti di massa nel dopoguerra.

Cos'è, in fondo, la retorica anti-casta dei nostri giorni, se non l'ultimo violento tentativo di indebolire le istituzioni e la democrazia da parte di élites decadenti che cercano di lucrare dalla crisi del paese qualche puntello per le proprie parassitarie posizioni dominanti?

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Pagina 15

It's the end of the world as we know it (and I don't feel fine)


                                                            «E tracotanza,
                                        poiché fiorí, fruttifica una spiga
                                   di sciagura, e una messe indi raccoglie
                                   d'amaro pianto. Or voi, veduti i frutti
                                       di queste opere vostre, ricordatevi
                                      dell'Ellade e d'Atene; e alcuno piú,
                                    la sorte sua tenendo a vil, non voglia
                               bramare il bene altrui, perdere il proprio.
                                         A castigar l'eccesso di superbia,
                                          Giove, sereno giudice, presiede.
                                  Con i buoni consigli or lui, ch'à d'uopo
                                    di far senno, ammonite, ond'ei desista
                                     dalle troppo superbe offese ai Numi».

                                                       Eschilo, I Persiani



Θ necessario guardare al luogo che è la culla della nostra civiltà, ma anche l'epicentro della crisi che sta colpendo l'Europa, per recuperare la categoria che in modo più suggestivo descrive il nostro tempo: è in Grecia — non quella ferita di oggi, ma quella dell'età classica — che dobbiamo andare per trovare codificato letterariamente il concetto di hybris?

La tracotanza, il senso di onnipotenza di cui cade vittima l'uomo che si sente troppo forte, abbandonandosi agli eccessi e trascurandone le conseguenze. E finendo per scatenare l'invidia degli dèi, con la conseguente tragica punizione.

La hybris liberista ha dominato a lungo: per decenni il monumento ideologico della superiorità del mercato si è levato sempre più alto, poggiando su fondamenta fragili che faticavano sempre più a reggerne il peso.

Tutto è sembrato possibile, una ricchezza a portata di mano alimentava sogni e speranze: il cittadino diventava consumatore e si abbandonava alla ricerca dell'egoistica soddisfazione dei propri bisogni.

Sempre nuovi stimoli producevano una competizione brutale, considerata nello spirito del tempo un positivo stimolo alla crescita. Il «tutti contro tutti» diventava così la regola di natura, e la rispettabilità sociale si misurava quasi esclusivamente su base censitaria.

Negli Stati Uniti, cuore del sistema, la corsa al benessere individuale veniva alimentata da scelte irresponsabili che spingevano migliaia di famiglie verso il precipizio, favorendone un indebitamento senza prospettive.

Il progressivo impoverimento delle classi medie è stato nascosto – prima di tutto a loro – dalla possibilità di un facile ricorso al mercato finanziario, sotto forma di prestiti o di rendite immobiliari.

Chi avrebbe dovuto dirigere l'orchestra – la politica e i responsabili delle grandi istituzioni che regolano l'economia – ha preferito posare la bacchetta, scendere dal podio e accomodarsi in platea, per acclamare insieme agli altri spettatori il potere autoregolatore del mercato e la sua invisibile mano: all'inizio del nuovo millennio, sotto la guida di Alan Greenspan, la Fed portò i tassi d'interesse a livelli bassissimi, alimentando così la spirale debitoria e consentendo alla bolla immobiliare di gonfiarsi a dismisura.

Anche la politica non fece mancare il suo contributo: Clinton prima e Bush poi misero in campo azioni di sostegno a chi acquistava (a debito) un immobile e spinsero i colossi dei mutui a concederli più agevolmente. L'obiettivo era trasformare gli Stati Uniti in una «società dei proprietari». Il risultato è stato quello di creare una società dei debitori: nel 2006 l'indebitamento totale del paese era salito al 350 per cento del Pil.

Erano le nuove classi medie delle economie emergenti a finanziare il debito americano, invertendo la direzione lungo cui i flussi di denaro si erano storicamente incamminati.


L'ideologia che non funzionava più

Quando la bolla scoppiò, la gravità della crisi non fu subito evidente e i più accreditarono la lettura di una momentanea falla nel sistema, un'eccezione che non avrebbe potuto essere prevista e che tutto sommato non metteva in discussione le architravi teoriche del liberismo: un cigno nero, fu detto.

Non era così, le crisi, più o meno drammatiche, sono connaturate all'economia di mercato e lo sono anche le bolle speculative, con buona pace delle teorie sull'efficienza dei mercati il cui successo ha contribuito a indebolire gli anticorpi del sistema e dell'opinione pubblica, rendendo le classi dirigenti sorde alle voci di chi pur aveva segnalato i rischi.

Fu il fallimento di Lehman Brothers ad aprire definitivamente gli occhi al mondo e l'immagine degli impiegati che uscivano, con gli scatoloni in mano, dalla sede della banca d'investimento è diventata, al pari degli arerei che l'11 settembre si schiantarono sulle Twin Towers, il simbolo di questo primo decennio del terzo millennio.

Quei giganti troppo grandi per fallire cominciarono a cadere uno dopo l'altro, e persino le principali chearleader del libero mercato dovettero riconoscere una crepa nella loro incrollabile fede: nell'ottobre del 2008 Alan Greenspan, ormai non più alla guida della Fed da un paio d'anni, fu ascoltato dalla Commissione per la vigilanza e le riforme istituzionali della Camera dei rappresentanti.

Henry Waxman, democratico, gli chiese conto delle sue scelte passate e della sua convinzione che il mercato finanziario fosse stabile e non avesse bisogno di ulteriori regolamentazioni. «In parte mi sbagliavo» rispose Greenspan. «Ho commesso un errore nel presumere che gli interessi specifici di singole imprese, in particolare banche e altre, fossero tali da garantire la miglior tutela degli azionisti e delle loro partecipazioni in queste società. Il nostro problema è che quel qualcosa che sembrava un edificio solidissimo e invero un pilastro fondamentale della concorrenza e del libero mercato è crollato. E penso, come ho detto, di essere rimasto scioccato. Non riesco ancora a capire fino in fondo che cosa sia successo. [...]. Per esistere si ha bisogno di un'ideologia. Il punto è se sia valida oppure no. Sì, ho trovato un errore nella mia ideologia. Non so quanto significativo o permanente, ma la cosa mi ha molto turbato. [...]. Ho trovato un errore nel modello che io vedevo come la struttura operativa fondamentale che definisce come funziona il mondo. [...]. La mia ideologia non funzionava, per questo sono rimasto scioccato. Perché sono andato avanti per quarant'anni, o anche di più, con conferme evidenti del suo perfetto funzionamento».

Lo spaesamento di Greenspan racconta meglio di ogni altro esempio lo stato di apprensione e incredulità in cui precipitò l'Occidente, vedendo le proprie certezze crollare.

Ma il panico non era limitato a Wall Street, l'interconnessione del sistema finanziario rischiava di scaricare gli effetti della crisi sul mondo intero.

Nessuno era al sicuro, l'entità e la diffusione della malattia erano variabili ignote.

Gli strumenti che avrebbero dovuto aiutare a distinguere i buoni dai cattivi si stavano a loro volta rivelando inefficaci o privi di credibilità.

La spinta vorace a ridurre le funzioni pubbliche aveva portato a privatizzare persino i meccanismi di controllo: alle agenzie di rating era stato consegnato un potere enorme che le aveva di fatto «istituzionalizzate», tanto che oggi per operare tra banche o tra istituti privati e banche centrali, le valutazioni sono elaborate sulla base dei loro giudizi.

A fronte di questa cessione di funzioni, nulla fu fatto per garantire trasparenza e per limitare lo strutturale conflitto d'interessi, di cui le agenzie di rating sono divenute ormai il simbolo.

E così ancora oggi, nonostante a fallire siano state spesso società che si erano meritate una tripla A, i giudizi vengono emessi su commissione dei giudicati, alimentando nella migliore delle ipotesi una corsa al ribasso nella ricerca dell'agenzia più disponibile ad attribuire rating alti, nel peggiore veri e propri fenomeni speculativi o corruttivi.

Inoltre l'assetto proprietario delle principali agenzie, controllate dalla più grandi banche d'investimento internazionali, lascia davvero pochi dubbi sul fatto che il portafoglio di attività degli azionisti influisca nei giudizi. Con queste premesse è persino difficile stupirsi delle conseguenze disastrose che un sistema così congegnato ha finito per provocare.


A proposito di non intervento

Sull'orlo del baratro, le istituzioni furono costrette ad accantonare le rigidità dottrinali e infrangere le regole che si erano imposte. Stabilizzare i mercati era indispensabile: una lunga teoria di interventi e una impressionante mole di denari furono messe in campo per consolidare il sistema finanziario internazionale ed evitare il caos.

Nell'epicentro del sisma non era facile distinguere i buoni dai cattivi e infatti non lo si fece, finendo per salvare chi lo meritava e chi no.

Nei primi tre anni della crisi, gli stati occidentali hanno investito circa 15 trilioni di dollari in questa missione, numeri enormi, difficili anche solo da immaginare.

In alcuni casi le operazioni hanno innovato di fatto la costituzione materiale dei paesi, sconvolgendo gli equilibri dei poteri reali: negli Stati Uniti, la Fed guidata da Ben Bernanke non solo è intervenuta pesantemente per stabilizzare il sistema, ma ha spesso travalicato il proprio ruolo, appropriandosi di fatto di prerogative che dovrebbero essere esclusiva del governo.

Il che, a ben vedere, pone qualche ulteriore domanda sul tema non certo trascurabile di quale sia il luogo reale della sovranità.

D'altra parte l'Occidente non è l'arcadia del libero mercato, le banche centrali e le istituzioni internazionali esistono proprio perché c'è bisogno di governo dell'economia.

Anche Adam Smith, riconosceva l'esigenza di piantare paletti e imporre regole: «Un esercizio delle libertà naturali di pochi individui che potrebbe danneggiare la sicurezza dell'intera società è, e deve essere, limitato da tutti i governi, dai più liberi come dai più dispotici. L'obbligo di costruire muri divisori per impedire il propagarsi degli incendi è una violazione della libertà naturale, esattamente dello stesso genere delle regolamentazioni dell'attività bancaria che sono qui in discussione».

Ma proprio quelle istituzioni che avrebbero dovuto contenere l'incendio sono state tra i protagonisti della costruzione di un sistema in cui i profitti sono privatizzati e le perdite socializzate: un corto circuito paradossale, per cui il sistema finanziario finirà per guadagnare persino dalla sua stessa crisi, presentando il conto ai cittadini.

L'intervento pubblico diventa così un confortevole e rassicurante paracadute per i teorici del non intervento, e le istituzioni chiamate a gestire l'emergenza vengono sopportate solo il tempo necessario a impedire la catastrofe, per essere subito dopo riaccompagnate alla porta.

E così è andata dopo il terremoto del 2008: appena ripreso vigore, il sistema finanziario ha aggredito i debiti sovrani scatenando la seconda fase di questa lunghissima crisi.

Dagli Stati Uniti la tempesta si è spostata nel vecchio continente, abbattendosi su governi che sembrano non aver tratto insegnamento dagli eventi recenti: l'ortodossia monetarista è ancora saldamente sulla plancia di comando e permea le letture della destra al governo.

E così, ancora una volta, le cause della crisi sono individuate nel debito pubblico e nella presunta ipertrofia dei sistemi di welfare. E la soluzione — che fantasia! — indicata in politiche di bilancio restrittive.

Una passione per il vintage che non tiene conto nemmeno dello sforzo di innovazione che — sulla sponda opposta dell'Oceano — sta caratterizzando le politiche anticrisi dell'amministrazione americana. Persino nel momento più difficile, nel Discorso sullo stato dell'Unione nell'anno delle elezioni, Barack Obama non ha rinunciato a promettere di «ricostruire l'economia da cima a fondo con regole uguali per tutti», mettendo al centro il tema del lavoro, annunciando politiche industriali premiali per le imprese che non delocalizzano.

Ma soprattutto si è impegnato ad aggredire il tema delle diseguaglianze: «Se guadagni più di un milione di dollari l'anno, non dovresti pagare meno del 30 per cento in tasse, non dovresti godere di sussidi particolari o di deduzioni. Se guadagni meno di 250.000 dollari l'anno, come il 98 per cento delle famiglie americane, le tue tasse non dovrebbero aumentare. Potete chiamarla lotta di classe quanto volete. Ma chiedere a un miliardario di pagare in tasse almeno quanto la sua segretaria, gli americani lo chiamerebbero buon senso».


Un deficit di politica

La crisi europea non nasce da scelte di bilancio allegre o dalla crescita dei debiti pubblici, ma da un deficit di politica che ha lasciato incompiuto il processo di unificazione.

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Pagina 35

Sotto il velo dell'ideologia

Se i partiti riformisti nel nostro paese faticano a mettere in discussione i pilastri ideologici del neoliberismo, è anche a causa di questa fragilità politica e culturale.

Poco a poco però spazi di riflessione si stanno aprendo: la cieca fiducia nel dogma liberista è stata scalfita dai fuochi di piazza Syntagma ad Atene, dove la disumana (ed economicamente irresponsabile) rigidità della trojka composta da Bce, Unione Europea e Fondo monetario internazionale ha fatto esplodere la rabbia sociale, iniziando ad aprire gli occhi sul vicolo cieco in cui l'egemonia della destra stava spingendo l'Europa.

E questo è forse l'unico frutto positivo della crisi: una visione critica comincia a farsi strada, sfidando la dittatura del pensiero unico. Si alza il velo della propaganda ed emerge un mondo dolente, rabbioso, invecchiato, sfibrato dalle disuguaglianze, dalla precarietà. Distogliere gli occhi non è più possibile.

Lo slogan «siamo il 99%», con cui il movimento nato negli Stati Uniti al grido di «Occupy Wall Street» e dilagato poi nel resto dell'Occidente riassume il proprio programma, è basato su un elemento di verità: il rapporto dell'Ocse Divided we stand racconta di un mondo in cui la distanza tra i redditi del 10 per cento più ricco della popolazione e quelli del 10 per cento più povero è ulteriormente aumentata. E di come la ricchezza si sia accumulata in misura ancor maggiore all'apice di quel 10 per cento.

L'indice di Gini, uno dei più diffusi indicatori utilizzati per analizzare la distribuzione del reddito, ha mostrato un aumento generalizzato delle disuguaglianze in tutti i paesi industrializzati, persino nei paradisi scandinavi. L'aumento più spettacolare si è registrato nei paesi anglosassoni – fra un terzo e un quarto – mentre l'Italia si colloca immediatamente dietro Stati Uniti e Gran Bretagna.

Il vertice della piramide, invece di sgocciolare la propria ricchezza verso il basso, come promesso dai teorici della trickle down economics, si è comportato come una sanguisuga, risucchiando tutto quello che poteva.

L'epoca del benessere e della crescita, invece di ridistribuire ricchezza, ha consolidato le posizioni dominanti e indebolito i ceti medi. Se per anni questo progressivo impoverimento non è stato percepito nemmeno da chi lo subiva è perché la possibilità di indebitarsi ne ha lenito gli effetti garantendo un tenore di vita superiore alle possibilità reali. Ma l'esplosione della crisi ha messo milioni di persone di fronte alla realtà.

La crescita delle disuguaglianze non è solo un problema etico, è anche un problema economico. La crisi di domanda aggregata, figlia del progressivo impoverimento del ceto medio, è tra le ragioni scatenanti della scarsa crescita del nostro paese e quindi della difficoltà italiana ad affrontare questa crisi. Anche il Fondo monetario internazionale ha segnalato come una distribuzione più eguale del reddito garantisca una maggiore crescita economica.

Per non parlare degli «effetti collaterali» delle disuguaglianze, l'insicurezza prima di tutto. Ma non solo: la ormai celebre ricerca di Richard Wilkinson e Kate Pickett ha dimostrato come le società segnate da grandi divari nella distribuzione della ricchezza siano più infelici.

A mitigare una società diseguale dovrebbe contribuire una forte mobilità sociale: gli Stati Uniti hanno costruito parte della propria identità nazionale proprio sul mito del «paese delle opportunità». Peccato che oggi il racconto di una società in cui lo spirito di iniziativa è sufficiente a garantire successo, sia un falso: volere non è più potere.

Tra i paesi sviluppati gli Stati Uniti hanno il minor tasso di mobilità sociale, mentre i risultati migliori sono dei paesi simbolo del modello sociale europeo. Il 42 per cento degli americani figli di un padre nel quinto inferiore della distribuzione del reddito non riesce a muoversi da quel livello, rispetto al 25 per cento dei danesi, al 26 per cento degli svedesi, al 28 per cento dei norvegesi.

Il problema purtroppo non riguarda solo gli Stati Uniti. Anche in Europa, e in particolare in Italia, l'ascensore sociale si è inceppato.

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Pagina 39

La regressione del lavoro

Una parte non irrilevante della responsabilità per questo stato di cose affonda le radici nell'indebolimento del mondo del lavoro.

Le riforme che, quasi ovunque, hanno inserito notevoli dosi di flessibilità, hanno sì in un primo momento prodotto occupazione, ma con livelli di retribuzione e di qualità del lavoro alla lunga insostenibili.

Al sopraggiungere della crisi, la disoccupazione ha ricominciato a crescere e quei lavoratori si sono ritrovati privi di tutele e quasi sempre anche di risparmi, impossibili da accumulare con i bassi salari degli anni ruggenti della flessibilità.

Come ha ben notato Stefano Fassina, quella a cui abbiamo assistito in questi anni non è una semplice crisi congiunturale del lavoro, siamo di fronte a una vera e propria regressione, gravida di pericolose conseguenze: «Il lavoro, innanzitutto il lavoro subordinato, in tutte le sue forme esplicite e mascherate, è l'epicentro del terremoto». Il dominio del capitale sul lavoro è soverchiante, umiliante: libero da vincoli giuridici e da confini geografici, esso può correre alla ricerca dei luoghi dove l'offerta di manodopera più o meno qualificata è più conveniente e può abbandonare con la stessa rapidità quei luoghi, al sopraggiungere delle prime difficoltà o rivendicazioni.

Il lavoro invece rimane relegato nei confini nazionali, rappresentato da sindacati e partiti che non hanno strumenti per difenderlo.

Il risultato è un mondo accomunato da solitudine e sofferenza in cui gli argomenti di chi vorrebbe contrapporre alla debolezza dei precari la forza di lavoratori «ipergarantiti», si sciolgono come neve al sole di fronte alle centinaia di migliaia di lavoratori in mobilità provenienti proprio dalle fila dei presunti «ipergarantiti».

Una situazione drammatica, resa ancor più intollerabile nel nostro paese dalla propaganda di chi strumentalizza il dramma della precarizzazione di intere generazioni di giovani per precarizzare anche il resto del mondo del lavoro.

Vent'anni dopo, lo slogan «meno ai padri, più ai figli» - cavallo di battaglia della sinistra della fine degli anni Novanta - è tornato con forza a scandire i tempi del dibattito, con la differenza che oggi sono quei padri a garantire la sopravvivenza dei loro figli precari, bruciando in pochi anni il risparmio di una vita.

Riesce davvero difficile comprendere come si possa individuare la soluzione del problema della precarietà nel riequilibrio della ricchezza all'interno di quell'impoverito nucleo familiare: una visione classista dello sviluppo del paese che non dovrebbe appartenere alla cultura politica della sinistra. E invece persino nel lessico di alcuni leader democratici si insinuano formule e slogan mutuati dalla destra più aggressiva: il diritto a non essere licenziati senza giusta causa diventa un «totem» da abbattere, un «tabù» da infrangere.

I diritti cominciano ad essere chiamati privilegi e si afferma una peculiare concezione del riformismo, la cui caratteristica diventa quella di dire da sinistra cose di destra.

Un riformismo pronto a trovare la propria legittimazione nel sostegno a cause sempre diverse, mai davvero nuove. E soprattutto incapace di mettere in discussione i poteri che quelle cause selezionano e offrono a una politica subalterna, chiamata solo a garantire consenso e stabilità.

La regressione del lavoro non è solo un fatto sociale: la marginalizzazione di sempre più ampi pezzi della popolazione e la strutturale esclusione dai processi produttivi di una crescente massa di persone che allargano la schiera degli ultimi del mondo minano le basi di consenso e legittimazione delle nostre democrazie. Questione sociale e questione democratica si sovrappongono fino a fondersi: non ci può essere una repubblica fondata sul lavoro se il lavoro è umiliato, sfruttato, negato.

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«La sinistra» scrive Michele Prospero intervenendo, con un articolo pubblicato su «L'Unità», nel dibattito aperto dall'intervento del Presidente della Repubblica «è la costruzione di spazi di libertà dal dominio di potenze sociali soverchianti. Θ cioè la strada della emancipazione umana come strategia asintotica non conclusa con la rete della cittadinanza politica. Questioni di beni pubblici, beni comuni, dignità umana restano cantieri sempre aperti. Quando si leggono pagine di giuristi cattolici (come Paolo Grossi, Pietro Rescigno) dedicate alla frizione tra essere (lavoro) e avere (capitale), al binomio persona-comunità, o al significato costitutivo del pluralismo dei soggetti intermedi o alla socialità della condizione individuale non c'è una sensibilità molto diversa da quella di chi attinge da quella inesauribile miniera che sono le pagine di Marx. In concreto. Una intersezione teorica tra la marxiana istanza di liberazione della persona che lavora nel mondo delle necessità e il culto cristiano della persona come valore in sé o dignità umana non è certo un azzardo politico velleitario o anacronistico. Θ anzi proprio questo impianto sociale-lavoristico, che incrocia socialitas e charitas, a confermarsi come l'unico fondamento possibile di nuove libertà concrete. Il lavoro, il cervello sociale, le nuove esclusioni, ecco un terreno fecondo da coltivare per fondare un critico riformismo moderno. La credenza dei liberisti alla Einaudi, che con il consumatore sovrano il fato è finalmente vinto e la ragione domina sulla cupa nebbia, è solo una congettura che si presta a confutazioni. Questa volta a smontarla è la grande contrazione dell'economia mondiale che nella sua carica distruttiva impone una ripassata teorica sui fondamenti di un sistema in cui la crescita della ricchezza non elimina affatto (anzi le determina) la diseguaglianza e l'esclusione».


Uscire dall'angolo

Θ necessario riflettere sulla nostra storia, sui limiti dell'azione politica di questi anni, per lasciarsi alle spalle gli errori, e non per negare le responsabilità. Smettere di parlare con le parole degli altri sarebbe un buon punto di partenza: tornare all'egualitarismo ad esempio, e lasciar stare l'uguaglianza delle opportunità con cui l'abbiamo sostituito. E magari riconoscere la stucchevole propaganda sulla meritocrazia per quello che è: il merito senza un adeguato corredo di politiche non può che diventare un principio che tutela le posizioni dominanti delle élites e incatena le classi subalterne al proprio ghetto.

Θ giunto il tempo di superare questo spaesamento culturale e voltare pagina, rifiutando di giocare la partita sul terreno imposto dall'avversario: respingere il concetto stesso di una società degli individui, e ritrovare la forza di un'autonoma proposta di emancipazione, che non può non nascere da un diverso equilibrio tra libertà della persona e partecipazione democratica alla vita politica ed economica, culturale e civile della nazione.

Ma la ricerca di un pensiero nuovo passa per un impegnativo percorso di confronto: oggi nessuna cultura politica può ritenersi autosufficiente ed occorre creare i luoghi di una nuova ricerca intellettuale che rompa il conformismo del dibattito pubblico.

Altrimenti, di fronte a una crisi come quella che stiamo attraversando, che è anche una crisi di categorie, di modelli di pensiero, correremmo il rischio di trovarci impreparati, e per incapacità di pensare il nuovo rischieremmo di ritornare all'antico.

«A ben vedere» spiega Michele Nicoletti nella prefazione a Chiesa e capitalismo di Ernst-Wolfgang Bφckenfφrde e Giovanni Bazoli «forse oggi è in discussione non solo un modo di produrre e distribuire, ma le stesse forme delle obbligazioni reciproche tra gli esseri umani e le stesse forme del possedere e disporre delle cose».

Siamo nel vivo di uno scontro che ha origine negli anni Settanta, con l'apertura del ciclo conservatore che portò Margaret Thatcher e Ronald Reagan alla guida dell'Occidente.

Uno scontro tra modelli di sviluppo in cui siamo chiamati a decidere da che parte stare.

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Un capitalismo antipolitico

La deregolamentazione dei mercati ha portato a una progressiva e sempre più ampia mutazione di struttura del capitalismo: per creare ricchezza non è stato più indispensabile produrre merci.

La finanza, da ancella dell'economia, ne è divenuta la padrona: i dati sono oggi di una chiarezza impressionante, basti solo ricordare che gli attivi finanziari negli anni Ottanta erano sostanzialmente equivalenti al Pil del mondo. Nel 2007 lo hanno superato di 4 volte.

Le grandi imprese hanno cominciato a guardare più all'altalena quotidiana degli indici di borsa che al prodotto concreto delle loro attività.

Manager dai compensi sempre più elevati vengono valutati e anche pagati – le loro retribuzioni sono sempre più spesso costituite da stock option – in base alla capacità di conquistare la fiducia dei mercati più che per la reale competenza strategica e industriale.

Θ la stessa architettura del sistema che alimenta un meccanismo potenzialmente autodistruttivo.

La remunerazione degli azionisti tramite i dividendi diviene l'unico obiettivo di imprese che, poco a poco, hanno sostituito all'integrazione verticale dei processi produttivi una delocalizzazione selvaggia, certo assai più funzionale al conseguimento dei dividendi, ma con il non trascurabile effetto collaterale di scatenare una feroce concorrenza al ribasso tra paesi, imprese e lavoratori per attrarre commesse e investimenti.

Poco a poco le dimensioni dei big player globali si sono fatte enormi, articolate in una rete inestricabile di imprese partecipate e controllate, che ne hanno rese inafferrabili le dimensioni, indefinibili i confini.

I grandi soggetti industriali si sono adeguati al cambiamento, aprendo attività finanziarie autonome, che spesso hanno superato nei bilanci la rilevanza di quello che una volta era il loro core business.

La concorrenza, soprattutto ai livelli apicali del sistema economico, ha cessato di svolgersi sul terreno della qualità aziendale, dell'innovazione, della bontà dei prodotti, per misurarsi sul terreno delle capacità di inglobare i competitori in mega-fusioni societarie che producono indebitamento, portano immensi flussi di risorse fuori dalle aziende, ma che sono così tanto apprezzate dai mercati.

Le banche hanno cambiato progressivamente forma, costituendosi sempre più come grandi conglomerati finanziari e rendendo sempre più impersonale il rapporto con i risparmiatori e gli investitori: non più persone in carne e ossa, ma semplici numeri.

L'effetto è stato il progressivo allontanamento dalla missione storica degli intermediari finanziari – l'amministrazione del risparmio familiare e il finanziamento delle imprese – per puntare sempre di più sulla speculazione.

I margini di sicurezza per i risparmiatori sono divenuti quasi inesistenti per il proliferare di prodotti sempre più azzardati e gran parte della ricchezza del mondo si è finanziata sul debito.

Nella cartolarizzazione dei debiti immobiliari si sono creati prodotti finanziari che invece di diversificarli, moltiplicavano i rischi.

John Cassidy racconta l'ironico ma efficace monito di un broker di Wall Street: «Immaginate cento ubriachi che camminano per strada barcollando, fateli prendere sottobraccio e bloccategli le mani. A quel punto dovete sperare che tutti cadano in direzioni diverse per far sì che l'intero gruppo stia in piedi. Ah, dimenticavo, chiamatela pure sicurezza tripla A».

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Mitologia delle privatizzazioni

«Nella tradizione cinematografica» spiega Quiggin «gli zombie sono esseri orrendi che a malapena gorgogliano qualche parola, di solito provando a dire "cervello". La parola preferita dagli zombie economici è invece senza alcun dubbio "privatizzazione"».

In effetti, se in questi anni c'è stato un obiettivo sul quale più di ogni altro si è dichiarato – da destra e da sinistra – di voler puntare, quell'obiettivo sono state le privatizzazioni.

Tanto perfetto e uniforme è stato il coro di voci da far acquisire una specie di miracolosa neutralità politica all'idea della supremazia del privato rispetto al pubblico.

L'aver fatto – o almeno il voler fare – le privatizzazioni è diventata la condicio sine qua non per essere considerati politicamente affidabili: curioso paradosso, quello per cui per vedersi riconosciuta una credibile cultura di governo si debba teorizzare la propria minore capacità di governare rispetto a un indistinto quanto evidentemente miracoloso soggetto privato.

Non che la messa sul mercato di attività pubbliche sia in sé un errore: in molti casi è stata utile ad aprire interi settori industriali alla concorrenza, a far crescere e sviluppare imprese e creare posti di lavoro.

Ma di qui a seguire il «free to choose» di Milton Friedman e privatizzare attività strategiche come istruzione e sanità ce ne passa.

Che in tempi di scarsa crescita e vincoli di bilancio sempre più rigidi quest'idea abbia avuto un così largo successo è comprensibile, soprattutto se si considera che è stata accompagnata dalla promessa di una gestione più efficiente, tariffe più basse e un guadagno immediato per lo Stato derivante dai proventi delle vendite.

Peccato che le cose non sempre siano andate così. I dati sulle privatizzazioni volute in Gran Bretagna da Margaret Thatcher sono paradigmatici: il risultato è stato il trasferimento netto di 14 miliardi di sterline dai contribuenti agli azionisti e agli altri investitori, a cui si devono sommare tre miliardi di sterline che le banche hanno incassato come commissioni per l'intermediazione nel processo di vendita.

Per non parlare del fatto che i processi di privatizzazione, quando non accompagnati da adeguate liberalizzazioni, rischiano di sostituire un monopolio privato a quello pubblico, con l'unico risultato di scaricare sui cittadini maggiori oneri.

Il caso italiano è da questo punto di vista emblematico: un poderoso processo di dismissioni che ha senz'altro contribuito ad abbattere il debito pubblico, ma i cui effetti per i cittadini sono quantomeno discutibili. Il rapporto che la Corte dei conti ha stilato valutando i risultati del ventennio 1985-2007 ha il dono della chiarezza: «Per quanto riguarda le utilities, c'è da osservare che l'aumento della profittabilità delle imprese regolate è in larga parte dovuto, più che a recuperi di efficienza sul lato dei costi, all'aumento delle tariffe che, infatti, risultano notevolmente più elevate di quelle richieste agli utenti degli altri paesi europei, senza che i dati disponibili forniscano conclusioni univoche sulla effettiva funzionalità di tali aumenti alla promozione delle politiche di investimento delle società privatizzate. Considerazioni analoghe possono valere anche per ciò che attiene agli effetti sul livello sia delle tariffe autostradali, sia degli oneri che il sistema bancario pone a carico della clientela, tutt'oggi sistematicamente e considerevolmente più elevato di quello riscontrato nella maggior parte degli altri paesi europei».

Oggi, nel pieno della crisi, mentre molti ancora si affannano a consigliare di ricorrere alle privatizzazioni come exit strategy, i governi si trovano sempre più spesso a dover invece decidere se invertire il processo, ristatalizzando quelle realtà che, in assenza di intervento pubblico, rischiano di fallire.

Anche in Italia, con la caduta del governo Berlusconi, il dibattito sulle privatizzazioni ha ripreso vigore.

L'idea che la necessaria modernizzazione del paese potesse avvenire solo attraverso un radicale processo di ridimensionamento dello Stato ha trovato sostenitori agguerriti e trasversali. Nel mirino sono finiti i pochi gioielli di famiglia ancora di proprietà pubblica: Eni, Enel, Finmeccanica, Rai, Poste.

Per tentare di convincere l'opinione pubblica, alla necessità di fare cassa per abbattere il debito pubblico si è aggiunta la promessa di una moralizzazione nella gestione – che lo Stato non aveva saputo garantire, come dimostrato dalle vicende giudiziarie che hanno investito i manager di Finmeccanica.

Argomenti senza dubbio efficaci, ma facilmente ribaltabili: i dividendi garantiti al Tesoro dalle società pubbliche sono – nel medio periodo – assai più remunerativi dell'una tantum derivante dall'eventuale vendita.

Ed anche la promessa di maggiore trasparenza che sarebbe garantita dalla gestione privata, trova giustificazione teorica nell'assunto – falso – di una presunta superiorità morale rispetto a un pubblico che si vorrebbe portatore naturale di corruzione.

Inoltre, mantenere il controllo dei principali player industriali, almeno in alcuni settori strategici, è per gli Stati nazionali garanzia di autonomia nella divisione internazionale del lavorò e fondamentale strumento di politica estera oltre che economica. In alcuni casi, perfino la difesa dei monopoli pubblici può rispondere alle esigenze di difesa dell'interesse nazionale più efficacemente dell'apertura alla concorrenza.

Ma è prima di tutto la pretesa che privatizzazione sia sinonimo di modernizzazione che dovrebbe essere sottoposta a una valutazione più attenta. Come scrive Massimo Florio, i cui studi sulle privatizzazioni offrono un prezioso apparato interpretativo: «Vi è ben poco di intrinsecamente moderno in una concessionaria che gestisce le autostrade, o in gruppi oligopolistici che si spartiscono il servizio idrico. Sono situazioni che preesistevano all'impresa pubblica, non senza critiche anche dal versante liberale».


La verità è che una parte del capitalismo italiano, incapace di competere, vede nelle privatizzazioni la possibilità di arginare il proprio declino e tenta di condizionare la politica, sfruttando cinicamente la crisi per imporre vendite a prezzo di saldo.

Il non irrilevante particolare che quei gruppi economici controllino anche i principali quotidiani del paese spiega le ragioni del successo – almeno mediatico – di queste proposte.


Per il liberismo antipolitico, se il privato è sempre la soluzione, lo Stato è sempre il problema.

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La privatizzazione della politica

I grandi partiti hanno visto così negata alla radice la propria funzione di interpreti, pur nell'interesse generale, di un punto di vista parziale e sono divenuti pesanti fardelli sulle spalle di leader sempre meno radicati nella società, ma sempre più legittimati nei salotti televisivi.

Leader sempre più simili a star di Hollywood che di quei fardelli cercano di liberarsi, preferendo affidarsi a sempre più costose società di comunicazione.

La rinuncia a un vero radicamento sociale ha alimentato la convinzione che per vincere fosse sufficiente smussare gli spigoli e nascondere le differenze.

Il conflitto non è previsto dai partiti «acchiappatutto», protagonisti di una società immaginaria popolata da individui le cui aspirazioni sarebbero identiche. Ma è proprio quell'individuo — e non la società — l'astrazione: al di fuori del rapporto con gli altri, dentro il quale si definiscono i suoi problemi materiali e morali, quell'individuo non può esistere.

«Θ diventato un luogo comune dire che vogliamo tutti la stessa cosa e abbiamo solo modi leggermente diversi per giungere a essa» scrive Tony Judt. «Ma è semplicemente falso. I ricchi non vogliono le stesse cose che vogliono i poveri. Chi dipende dal posto di lavoro per la propria sussistenza non vuole le stesse cose di chi vive di investimenti e dividendi. Chi non ha bisogno di servizi pubblici (perché può comprare trasporti, istruzione e protezione sul mercato privato) non cerca le stesse cose di chi dipende esclusivamente dal settore pubblico. Chi trae beneficio dalla guerra (materialmente, con gli appalti della difesa, o ideologicamente) ha obiettivi diversi da chi è contrario alla guerra. Le società sono organismi complessi, composti da interessi in conflitto fra loro. Dire il contrario (negare le distinzioni di classe, di ricchezza, di influenza) è solo un modo per favorire un insieme di interessi a discapito di un altro».

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Per tornare a essere utili, dobbiamo finalmente toglierci di dosso l'idea che un cambiamento radicale sia impossibile per definizione. Una sensazione con cui conviviamo da anni, da quando abbiamo deciso che il tempo del conflitto era finito. D'altra parte, a cosa poteva servire battersi, costruire strumenti, fondare partiti, se non esisteva una parte da organizzare e rappresentare? In un mondo in cui «tutti vogliono le stesse cose», e differenti sono solo le strade attraverso cui ottenerle, non c'è spazio per alternative. Θ la politica ai tempi della fine della storia, che ha bisogno solo di buoni amministratori e di qualche leader brillante che tenga occupati i salotti televisivi. Al resto penserà la mano invisibile del mercato.


L'estrema, radicale personalizzazione della politica è stata in questi anni prima di tutto la conseguenza della sua completa sterilizzazione.

Esclusa in partenza la possibilità di una visione alternativa dello sviluppo economico e sociale, su quale base gli elettori avrebbero dovuto scegliere l'uno o l'altro candidato? Ma è chiaro: avrebbero dovuto scegliere chi figura meglio in tv. E per essere proprio sicuri che nessun'altra considerazione influenzasse la loro scelta, gli stessi partiti sono stati essiccati fino a renderli irriconoscibili, per farne puri e semplici comitati elettorali al servizio del leader di turno. Leader ridotti al ruolo di candidati a un concorso di bellezza, costretti a sfilare seminudi davanti a telecamere, giornalisti e giurati, con le loro brave palette e le loro cattive intenzioni. Partiti leggerissimi ed estrema personalizzazione della politica, elezione diretta delle cariche monocratiche e riforme istituzionali sempre tese a esaltare il potere dell'esecutivo e a umiliare le assemblee elettive – architravi della rappresentanza democratica – fanno tutt'uno. Questa è la grande muraglia che ha reso inespugnabile il pensiero unico liberista, antistatuale e antidemocratico, ancor più in un paese come il nostro, in cui il sistema dell'informazione è nel controllo pressoché esclusivo dei principali gruppi finanziari. E in cui un certo establishment non ha mai riconosciuto fino in fondo, e anzi ha spesso osteggiato, l'idea di una democrazia dei partiti, così da poter meglio proteggere un gigantesco grumo di conflitti d'interesse, ragione vera del successo mediatico di ogni fenomeno disgregativo che in questi anni si sia presentato sulla scena.

All'antipolitica populista si è unita quella ben più pericolosa delle élites del paese, che inseguono il sogno di una democrazia fragile e permeabile agli interessi, in cui i tecnici governano e i comici fanno l'opposizione.

A poco a poco, il cerchio si è chiuso: con la finanza che controlla la comunicazione che, a sua volta, controlla la politica. E uscirne è diventato quasi impossibile.

Per questo la lotta contro la personalizzazione, che è anzitutto lotta contro l'egemonia della comunicazione e delle sue logiche, è il primo passo per restituire autonomia alla politica. Il primo indispensabile passo per affrancarsi dal pensiero unico, e per invertire il ciclo trentennale di chi le ha fatto accettare il giogo della finanza. Θ venuto il momento di riaffermare il ruolo dei partiti nella politica e dell'intervento pubblico nell'economia. Politica ed economia, infatti, sono qui due facce della stessa medaglia. Non per niente si vedono rivolgere uguali argomenti polemici ogniqualvolta si provi anche solo a immaginare un cambiamento: da un lato la polemica liberista contro le «burocrazie sindacali» additate quali forze della conservazione, principale ostacolo al dispiegamento della rivoluzione della libertà e del merito promessa dal mercato; dall'altro la polemica dei cantori della società civile contro gli «apparati» e le «burocrazie di partito», ostacolo a quella «democrazia dei cittadini» che è un mito tragicamente simile a quello dei mercati autoregolati, sempre pienamente razionali e perfettamente efficienti. Di sicuro, identica è la conclusione, in economia come in politica: la bancarotta. E nessuno lo sa meglio di noi italiani.

La fabbrica senza sindacati sognata da Sergio Marchionne è l'equivalente funzionale della democrazia senza forze politiche sognata dai teorici del partito liquido. La prima poggia sulla negazione del conflitto sociale, la seconda pure. La prima ha prodotto il modello Pomigliano, la seconda il modello Forza Italia.

«Non disturbare il conducente» è la scritta che campeggia sulla Seconda Repubblica, il suo stemma, il suo principio fondante: in azienda, al governo, nel partito. Il concetto è sempre lo stesso. In nome della lotta contro oligarchie, burocrazia, correnti, sono ammessi soltanto un capo indiscutibile e una folla acclamante. L'eletto e il popolo. E in mezzo, il nulla.

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In Italia, in particolare, appare sempre più evidente che il problema non è affatto l'impossibilità di fare, come si continua a ripetere da tante parti. Il problema, al contrario, è la difficoltà di pensare. E il clamoroso, drammatico fallimento dell'ultimo «governo del fare», come tale celebrato dal fior fiore della stampa liberale del nostro paese, dovrebbe bastare a convincere anche i più scettici.

Per ricominciare a pensare con la nostra testa, per affermare una lettura autonoma della recente storia d'Italia, una seria riflessione dovrebbe cominciare dal legame tra leggi elettorali, sistemi istituzionali e modelli economico-sociali. Lo ha spiegato bene Massimo D'Antoni, partendo dagli studi di Torben Iversen. Se mettiamo da una parte le cosiddette economie liberali di mercato (modello anglosassone) e dall'altra le economie di mercato coordinate (modello renano), possiamo vedere come sistema politico e istituzioni economiche - dal sistema di relazioni industriali alle modalità di governo dell'impresa, al sistema di istruzione e formazione - siano strettamente interdipendenti.

Il modello basato sulla rappresentanza proporzionale, infatti, si è diffuso all'inizio del Novecento come risposta alle esigenze delle economie coordinate, in cui era essenziale un compromesso tra capitale e lavoro. E anche grazie a un simile contesto istituzionale in questi paesi si è potuto sviluppare un modello sociale fondato sulla collaborazione tra impresa e sindacato, a partire dai fortissimi investimenti nel capitale umano, a sostegno di un sistema industriale naturalmente proiettato sull'innovazione, sulle produzioni ad alto valore aggiunto, sulla qualità.

Del tutto opposta la logica del sistema maggioritario, che non per niente nei paesi anglosassoni è chiamato semplicemente «the winner takes it all» («il vincitore si prende tutto»), e non per nulla la pratica di governo che ne consegue, a cominciare dalle nomine alle cariche istituzionali, è detta «spoils system» (pratica del bottino). Come è noto, laddove le economie liberali di mercato enfatizzano la mobilità del lavoro e creano disparità più nette tra i lavoratori ad alta e a bassa capacità, quelle coordinate sono caratterizzate da maggiore protezione degli investimenti in capitale umano, e danno luogo a una distribuzione dei salari più egualitaria. La Seconda Repubblica può essere giudicata in diversi modi, ma non c'è dubbio che alla base del sommovimento politico-ideologico che ha cambiato i connotati del nostro sistema istituzionale stava il tentativo di innescare una dinamica competitiva attraverso l'introduzione di una legge elettorale maggioritaria. Prima con i referendum contro il proporzionale, successivamente nelle scelte e nella stessa propaganda delle maggiori forze politiche, infine nell'interpretazione «tendenzialmente bipartitica» della vocazione maggioritaria rivendicata dal Pd (e, specularmente, dal Pdl) nel 2008. Nelle intenzioni, la competizione tra due forze politiche ben identificabili - che fossero coalizioni-partito o partiti-coalizione - avrebbe comportato un reale diritto dei cittadini di scegliere da chi essere governati, una maggiore contendibilità delle posizioni politiche e la conseguente responsabilizzazione dei governi.

Corollario più o meno dichiarato di questo progetto era la marginalizzazione delle forze estreme a favore di una convergenza al centro. Sua parente stretta l'idea di una politica necessariamente post-ideologica, in cui la distinzione tra destra e sinistra è sfumata quando non addirittura negata, e il conflitto viene risolto al centro, dove è possibile trovare il consenso sul modo tecnicamente corretto di risolvere i problemi.

«Anche accettando» scriveva D'Antoni nell'ottobre del 2010 «che il conflitto tradizionale capitale-lavoro sia ormai superato dall'attuale fase di economia globalizzata, resta la necessità di un approccio che non consideri le istituzioni politiche una variabile indipendente rispetto alla struttura produttiva e sociale. In particolare, dopo il fallimento ripetuto di esperienze di governo di segno opposto, viene da chiedersi se le riforme di cui il paese ha bisogno siano realizzabili entro uno schema bipolare, destra contro sinistra, in cui il vincitore di turno cerca di imporre all'elettorato di riferimento della controparte (siano essi i lavoratori autonomi e le imprese con scarsa fedeltà fiscale, o i dipendenti pubblici e "garantiti") il grosso dei costi della trasformazione. O se invece tale trasformazione non richieda la ricerca di una forma più alta di compromesso sociale, che per realizzarsi ha bisogno di una disarticolazione degli attuali "poli" e dei rispettivi elettorati di riferimento, e quindi formule più flessibili di quelle indotte dal maggioritario».

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«I canoni della giustizia devono essere rispettati sin dall'inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente», recita l'enciclica Caritas in Veritate. Questo è «il Rubicone da attraversare», per usare le parole di Giovanni Bazoli. «La sfida da affrontare, in definitiva, è quella di superare la supposta neutralità dell'economia». Superando anche la separazione tra homo oeconomicus legittimato a perseguire fini egoistici e homo politicus obbligato a perseguire l'interesse generale. Una dicotomia che per Bazoli contraddice «l'inscindibilità della persona umana e la necessaria coerenza e continuità della sua ispirazione morale, che non può venir meno nel momento dell'agire economico. L'integralità dell'uomo rappresenta il nucleo primario su cui deve fondarsi una nuova concezione del rapporto tra economia e società». Ma la ricostruzione di un sistema di regole tali da promuovere una riforma del capitalismo ha bisogno di una politica che esca dai confini nazionali: l'Europa dovrebbe essere per i suoi popoli la speranza, il sogno cui aggrapparsi per riconquistare forza, potere e futuro. Il compito di una nuova stagione progressista, che parta dal Manifesto di Parigi e dalla vittoria di Hollande non può che essere la ricostruzione di un'Europa democratica.


Anche per questo ci sarà bisogno di una nuova generazione, di nuove energie e di nuove idee. Serviranno più coraggio e meno timori reverenziali. Servirà più fiducia e meno paura. Servirà la capacità di alzare lo sguardo tenendo i piedi per terra. E più di tutto servirà la capacità di guardare avanti. Ma per guardare avanti l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno sono i vecchi, noiosissimi ritornelli di quelli che Antonio Gramsci avrebbe definito costruttori di soffitte. «Una generazione» scriveva nei Quaderni del carcere «può essere giudicata dallo stesso giudizio che essa dà della generazione precedente, un periodo storico dal suo stesso modo di considerare il periodo da cui è stato preceduto. Una generazione che deprime la generazione precedente, che non riesce a vederne le grandezze e il significato necessario, non può che essere meschina e senza fiducia in se stessa, anche se assume pose gladiatorie e smania per la grandezza. Θ il solito rapporto tra il grande uomo e il cameriere. Fare il deserto per emergere e distinguersi. Una generazione vitale e forte, che si propone di lavorare e di affermarsi, tende invece a sopravalutare la generazione precedente perché la propria energia le dà la sicurezza che andrà anche più oltre; semplicemente vegetare è già superamento di ciò che è dipinto come morto. Si rimprovera al passato di non aver compiuto il compito del presente: come sarebbe più comodo se i genitori avessero già fatto il lavoro dei figli. Nella svalutazione del passato è implicita una giustificazione della nullità del presente: chissà cosa avremmo fatto noi se i nostri genitori avessero fatto questo e quest'altro... ma essi non l'hanno fatto e, quindi, noi non abbiamo fatto nulla di più. Una soffitta su un pianterreno è meno soffitta di quella sul decimo o trentesimo piano? Una generazione che sa far solo soffitte si lamenta che i predecessori non abbiano già costruito palazzi di dieci o trenta piani. Dite di esser capaci di costruire cattedrali, ma non siete capaci che di costruire soffitte».

Non abbiamo bisogno di altri costruttori di soffitte. Anche perché, per essere onesti, non abbiamo ricevuto in eredità molti palazzi di dieci o trenta piani. Ma non è questo che conta. Quello che conta è non perdere la fiducia nella possibilità di progettare, organizzarsi e costruire insieme qualcosa che rimanga. Qualcosa che duri più a lungo di una stagione politica, più di una sfida elettorale, più di una carriera.

Tornare ai princìpi della Costituzione e alla lezione della Costituente: per noi che abbiamo scelto di militare nel Partito democratico, l'ultimo partito degno di questo nome rimasto in Italia, al termine del lungo inverno berlusconiano, fare politica non può non significare innanzitutto questo.

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Ricchezza e potere

Negli ultimi venti anni, in tutti i paesi occidentali, si è assistito a un gigantesco spostamento di ricchezza dai salari ai profitti. In Italia, i redditi da lavoro sono cresciuti del 4 per cento, i redditi da capitale del 44. Questa è la verità essenziale, la radiografia della Seconda Repubblica. E la ragione del perché i suoi difensori sono tanti, e tanto agguerriti. Il loro principale punto di forza sta nell'essere riusciti a espellere progressivamente dall'area della legittimità non solo gli obiettivi, ma gli stessi strumenti di una politica alternativa: dall'intervento pubblico alla valorizzazione del lavoro, fino all'idea stessa di una politica industriale. Nulla è sfuggito alla campagna di demonizzazione di questi vent'anni, che ci ha raccontato un paese pullulante di energie imprenditoriali che aspettavano solo di essere liberate dai vincoli soffocanti dello stato e della politica, e prima ancora da sindacati, contratti e diritti dei lavoratori.

Gli stessi leader della sinistra, ad esempio, hanno continuato a parlare di produttività del lavoratore, non di produttività come risultante di produttività del lavoro, produttività del capitale e produttività totale dei fattori. L'onere della produttività viene così scaricato sui soli lavoratori, dimenticando la rilevanza, enormemente maggiore, della qualità e della quantità degli investimenti dell'impresa e dei fattori di contesto (dalle infrastrutture alla regolazione dei mercati, all'efficienza dei servizi pubblici e privati all'impresa). Θ una dimenticanza non casuale. Le vere cause del deficit di produttività sono molto più difficili da affrontare sia in termini economici e aziendali, sia in termini politici. Da questo versante, occorrerebbero infatti interventi strutturali, che toccherebbero rendite di posizione consolidate ed elettoralmente rilevanti. Appare molto più semplice imboccare la scorciatoia del ridimensionamento dei costi e dei diritti dei lavoratori, parzialmente compensato attraverso la fiscalità generale. Ma è una scorciatoia illusoria, insostenibile nel medio periodo, sia sul piano economico, sia sul piano democratico.

Analoga subalternità ha caratterizzato in questi anni l'approccio della sinistra al mercato del lavoro. La precarietà del lavoro per i giovani è stata scaricata sulle spalle dei padri operai, colpevoli di avere salari reali da fame, ma stabilità del lavoro. Per combattere la precarietà, innalzare il tasso di attività femminile e giovanile, far salire le retribuzioni, è decisiva la crescita economica. Per crescere, però, l'Italia deve intervenire sulla produttività totale dei fattori e sulla produttività del capitale. Per crescere deve disegnare cioè una coerente politica industriale. Nel mercato del lavoro, per sconfiggere la precarietà la variabile decisiva è la convenienza economica, non la convenienza giuridica dei contratti precari, ossia l'assenza di vincoli alla conclusione del rapporto di lavoro.

Uscire dalla crisi significa trovare un nuovo equilibrio. Tornare indietro è impossibile. Senza un deciso intervento della politica, però, l'Italia, come il resto d'Europa, rimarrà prigioniera di una lunga stagnazione. Di fatto, siamo già entrati in una «prospettiva giapponese» caratterizzata da crescita anemica e da un elevato livello di disoccupazione, in particolare giovanile.

Questa è la partita che si sta giocando oggi in Italia e in Europa. Stiamo parlando di ricchezza e potere, perché è di questo, innanzi tutto, che deve occuparsi la politica. E prima di ogni altro, non foss'altro per il nome che porta, il Partito democratico, respingendo al mittente la retorica sulla necessità di una sinistra che torni a parlare di valori, possibilmente in versi, e si accontenti di tutelare i diritti civili, l'ambiente, le donne e i bambini. Una sinistra che dica tante bellissime e giustissime cose, purché non disturbi i principali beneficiari dell'assetto economico e sociale esistente. Che tenga buoni i lavoratori più forti, attraverso i servizi degli enti bilaterali, mentre smantella il welfare universale. Che offra agli esagitati, ai disperati e ai poveracci il surrogato di mille nobilissime battaglie per altrettante giustissime cause, per tutte le buone cause del mondo, meno che per la loro. Che si rivolga al popolo con il linguaggio della più estrema radicalità o del più soave lirismo, purché non gli metta in testa idee di mobilità sociale, redistribuzione della ricchezza e men che mai di una distribuzione del potere.


Libertà e partecipazione

Una coerente revisione del patrimonio culturale della sinistra deve dunque ripartire dalla negazione dell'assunto thatcheriano, troppo a lungo accettato anche da noi, secondo cui «la società non esiste», perché «esistono solo gli individui». Feticci completamente disincarnati dalle persone concrete e dai loro problemi reali, materiali e morali, che sono sempre, invece, problemi collettivi. Il Partito democratico dovrebbe avere la forza di affermare l'esatto contrario, e cioè che l'individuo non esiste, senza la società. Perché l'astrazione è l'individuo. Θ l'idea di un soggetto completamente autodeterminato e autosufficiente che non esiste, che non si incontra da nessuna parte, che non si può né vedere né toccare. Al di fuori delle sue relazioni con gli altri, della sua famiglia e dei suoi amici, del suo lavoro, del suo mondo, l'individuo si riduce al puro dato biologico. Non potrebbe nemmeno parlare, perché lo stesso linguaggio sarebbe impossibile, dunque non sarebbe nemmeno in grado di dire io. Non potrebbe nemmeno pensarlo. Dal punto di vista politico, il dato primario è la società. Il concetto cristiano di persona come nodo di relazioni, pertanto, si dimostra assai più fecondo del concetto liberale di individuo. Persone, dunque, con i loro legami, le loro concrete condizioni di vita e i loro complessi rapporti reciproci. Qui sta la risposta democratica alla sfida della destra, anche nel campo dell'immaginario, che si gioca tutta sul valore e sul significato della libertà. Solo uscendo dal terreno che le è stato imposto dall'avversario, rifiutando cioè il concetto stesso di una società degli individui, la sinistra potrà ritrovare la sua missione, con la forza del suo messaggio e di una sua autonoma proposta di emancipazione, che non può non nascere da un diverso equilibrio tra libertà della persona e partecipazione democratica alla vita politica ed economica, culturale e civile della nazione.

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