Autore Mauro Orletti
Titolo Guida alle reliquie miracolose d'Italia
EdizioneQuodlibet, Macerata, 2018, Compagnia Extra 70 , pag. 236, cop.fle., dim. 12x19x2 cm , Isbn 978-88-229-0118-7
LettoreElisabetta Cavalli, 2019
Classe religione , storia sociale , mitologia , citta' , paesi: Italia












 

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Indice


    7   Premessa

   11   La Vera Icona
   20   Il Sacro Legno
   24   San Gengolfo
   28   San Grato d'Aosta
   31   I Magi

   36   San Giorgio
   41   San Mamante di Cesarea
   46   San Romedio
   50   San Sergio martire
   54   San Marco evangelista

   58   Santa Lucia
   62   San Rocco
   66   Sant'Antonio di Padova
   71   San Giovanni Battista
   74   Santa Caterina de' Vigri

   77   San Geminiano
   81   Il Sacro Latte
   86   Santa Caterina da Siena
   94   Il Sacro Cingolo
   99   Sant'Ubaldo

  104   Santo Stefano protomartire
  108   San Ciriaco di Gerusalemme
  112   San Bartolomeo apostolo
  117   Santa Teresa d'Avila
  121   San Lorenzo

  125   Il Santo Prepuzio
  131   Santa Rosa da Viterbo
  136   San Sebastiano
  141   Santa Barbara
  146   San Leucio d'Alessandria

  149   San Timoteo vescovo e martire
  154   San Giuseppe
  158   San Michele Arcangelo
  162   San Nicola di Bari
  167   La Sacra Spina

  170   San Vito di Lucania
  175   San Biagio
  179   San Martino di Tours
  182   Il Sacro Capello
  186   Sant'Agata

  191   Sant'Apollonia
  195   Santa Eustochia
  199   Sant'Efisio
  201   La lettera del diavolo

  205   Note al testo


 

 

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Pagina 7

Premessa


Fin dalle origini i cristiani dedicano al corpo del defunto un'attenzione particolare: lo ungono, lo seppelliscono, lo proteggono dalle profanazioni.

Accade per tutti ma se a morire è un uomo che - in vita -- ha dato prova di santità, e se per giunta quest'uomo è morto sopportando il martirio, e se questo martirio è avvenuto attraverso feroci torture e supplizi, e se durante le feroci torture e i supplizi la sua fede non è vacillata, allora le sue ossa cessano di essere semplici ossa e diventano reliquie, oggetti attraverso cui può esprimersi la divina volontà.

I luoghi in cui è nato il cristianesimo traboccano di reliquie. Quando Elena, la madre di Costantino, va a Gerusalemme trova parecchi tesori: i ventotto gradini della Scala Santa, la Vera Croce, alcune spine della Corona, i tre chiodi che hanno trafitto le mani e i piedi di Gesù.

Le città lontane dalla Terrasanta, come Roma e Costantinopoli, devono invece procurarsi le reliquie con compravendite, smembramenti, traslazioni, furti (clamorosi quelli dei corpi di San Marco, San Nicola e San Tommaso). Però può anche capitare che il santo accetti volentieri la nuova casa (o chiesa): un successivo miracolo non solo conferma l'autenticità della reliquia ma dimostra che il trafugamento è avvenuto con il consenso dell'interessato.

A Roma, per esempio, arrivano i sandali di Gesù, la sacra culla, il legno della Croce, un pane e 13 lenticchie dell'ultima cena, la canna e la spugna imbevuta d'aceto usate per la crocifissione, la colonna della flagellazione, le pietre prelevate dal Santo Sepolcro, i frammenti del bastone di San Giuseppe, una delle cinque teste del Battista, quella di San Sebastiano, quella di San Valentino e via dicendo.

L'editto di Milano del 313, noto anche come editto di tolleranza, non solo garantiva libertà religiosa, ma permetteva la sepoltura di santi e martiri nelle chiese. Custodire il corpo di un santo assicurava guadagni, una protezione efficace contro le malattie, uno scudo portentoso contro guerre e calamità naturali. Quanto più è importante il santo, tanto più affluiscono pellegrini e tanto maggiori sono le offerte alle chiese in cui è custodito.

Quando i corpi a disposizione finiscono, si comincia a farli a pezzi. Dita, mani, gambe, piedi, teste, lingue, cuori e capelli viaggiano da un luogo all'altro d'Europa. Le parti più pregiate sono quelle che hanno a che fare con la specialità del santo: nel caso di Antonio da Padova, che è un predicatore formidabile, la reliquia più ambita è la lingua. Discorso diverso per Apollonia alla quale, durante il martirio, vengono cavati i denti con le tenaglie. Un suo incisivo o un molare assicurano indiscusso prestigio. E così i denti di Apollonia si moltiplicano e quando Paolo VI incarica di raccogliere quelli sparsi per la penisola, viene riempita una cassetta del peso di 3 chili e mezzo.

In base alla loro provenienza si parla di reliquie di prima, seconda, terza e quarta classe. Ad esempio quelle provenienti direttamente dal corpo del santo sono reliquie di prima classe (ex ossibus, ex carne, ex praecordis, ex piliis, ex cineribus, ex tela imbuta sanguine, ecc.). Poi, tra il VI e il VII secolo, si sviluppa il culto delle reliquie di seconda classe, da contatto: è il caso degli abiti (ex habitu), degli strumenti usati per far penitenza (ex cilicio), della polvere grattata dal sepolcro (ex arca sepulchralis), della manna che stilla dalle ossa, dell'olio che brucia in una lampada votiva e via di seguito.

Il Medioevo è il momento d'oro delle reliquie e la conquista della Terrasanta contribuisce alla loro moltiplicazione. Si venera di tutto: il prepuzio di Gesù, la lancia che lo ha trafitto, i sudari nei quali sarebbe stato avvolto, la tovaglia usata per la lavanda dei piedi degli apostoli, la mangiatoia, il sacro capello della Vergine, il suo latte, la sua cintola, il bastone di Giuseppe, la coda dell'asino della natività, i denari di Giuda, una piuma dell'Arcangelo Michele, i raggi della stella cometa.

Molte di queste reliquie si conservano ancor oggi e per alcune di loro sopravvive una venerazione per certi versi sorprendente (e gli ex voto sono lì a dimostrarlo). È il caso della lingua di Sant'Antonio a Padova, degli occhi di Santa Lucia a Venezia, del sangue di San Gennaro a Napoli o della manna di San Nicola a Bari. Per non parlare del dito di Santa Caterina da Siena, reliquia con la quale viene ancora impartita la benedizione all'Italia e alle Forze Armate.

Evidentemente le reliquie non hanno smesso di esercitare il loro potere seduttivo. Non importa nemmeno più se sono false (San Giorgio, probabilmente, non è mai esistito, Santa Barbara è una figura più che altro leggendaria, i Magi non erano tre e forse non erano nemmeno re), quel che conta è che sono ancora lì, nelle chiese, in attesa di liquefarsi, stillare acqua, fiorire, sprigionare profumo, richiamare migliaia di fedeli, guarirli, oppure no.

Val forse la pena, quindi, avere a portata di mano una guida alle reliquie sacre conservate nelle chiese italiane. Quelle che per la rocambolesca storia del loro ritrovamento o per i prodigiosi miracoli compiuti o per l'incredibile vicenda degli uomini e delle donne alle quali appartengono meritano di essere, se non venerate, almeno raccontate.

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Pagina 11

La Vera Icona


                        Quando io feci Domene Dio putto, voi mi mettesti in
                        prigione: ora s'io lo fo grande, voi mi farete peggio.

                                           LEONARDO DA VINCI, Codice Atlantico



Torino è una città capoluogo che conta quasi 900.000 abitanti. È stata la prima capitale dello Stato postunitario, dal 1861 al 1865. Manoppello è un paese abruzzese di 7.000 abitanti appartenente alla provincia di Pescara.

Torino la conoscono tutti.

Al contrario, fino al 1999 nessuno aveva mai sentito parlare di Manoppello. Nel maggio di quell'anno però il gesuita P. Heinrich Wilhelm Pfeiffer, docente presso la Pontificia Università Gregoriana, convoca una conferenza stampa e annuncia il ritrovamento, a Manoppello, di una famosa reliquia, cioè un velo che - per significato e importanza - è strettamente legato alla Sindone di Torino: la Veronica.

Il nome viene fatto risalire, erroneamente, a quello della donna che avrebbe asciugato il volto di Gesù durante la salita al Golgota. Sul panno da lei utilizzato sarebbe rimasta impressa l'immagine del Messia. Tuttavia, prima dell'età medievale, non esistono documenti o prove che dimostrino l'esistenza del culto di questo velo, probabilmente mai esistito. Al contrario risulterebbe storicamente attestato, almeno secondo Pfeiffer, il culto di un'icona conosciuta come «Immagine di Kamulia» (dal nome della piccola città della Cappadocia in cui sarebbe avvenuto il suo ritrovamento).

Si tratterebbe anche in questo caso di un'immagine acheropita, cioè non dipinta da mano umana. La sua storia, in sintesi, sarebbe questa: l'Immagine di Kamulia, la Vera Icona, appare sul velo che copre il capo di Gesù nel Santo Sepolcro (e non durante il Calvario); il panno, una volta diviso dalla Sindone, viene recuperato da Maria dopo la resurrezione e affidato a Giovanni, il quale lo porta con sé ad Efeso; da qui arriva in Cappadocia, a Kamulia appunto; nel 574 d.C. è a Costantinopoli.

L'origine soprannaturale dell'immagine vale al panno un posto speciale nella comunità, che lo elegge a protezione della capitale. Eppure, all'inizio dell'VIII secolo, scompare misteriosamente.

In città gira voce che il Patriarca Germano, per proteggere la Vera Icona dalla furia iconoclasta, abbia deciso di spedirla a Roma. In effetti qualche anno dopo il re longobardo Aistulfo assedia la città (753 d.C.) e papa Stefano II preleva dal sancta sanctorum del Laterano - portandolo in processione - il velo, chiamato Veronica (distorsione di Vera Icona), che mostra un'immagine acheropita. È l'Immagine di Kamulia, fissata su una tavoletta per evitare che qualcuno a Costantinopoli la riconosca e ne chieda la restituzione.

Perché il culto della Vera Icona diventi ufficiale bisognerà attendere Innocenzo III: l'impero bizantino è ormai in declino e la sua corte non rappresenta più una minaccia.

A questo punto è utile tornare all'inizio della storia, quando i lini funebri - la Sindone e la Veronica - vengono trovati nel sepolcro vuoto. La Veronica, come detto, aveva preso la via della Cappadocia grazie a Maria e a Giovanni evangelista.

Della Sindone invece si erano perse immediatamente le tracce.

[...]

Ricapitolando: Vasari parla di una tela sottile di bisso, di una pittura a guazzo, di una figura trasparente e visibile da entrambi i lati. Ce n'è abbastanza: il volto di Manoppello non avrebbe nulla a che spartire con l'immagine di Kamulia, cioè la Veronica, la Vera Icona. Si tratterebbe invece dell'autoritratto perduto di Albrecht Dürer.

La tesi è azzardata, certo, ma crea un legame del tutto nuovo fra Volto Santo e Sindone. Entrambi falsi, entrambi d'autore: realizzati da due artisti del Rinascimento, contemporanei, fra i più influenti della loro epoca.

Resta da rispondere alla domanda sull'identità dell'uomo «fotografato» da Leonardo. Per farlo può essere utile accostare il volto della Sindone al celebre autoritratto a sanguigna di Leonardo (conservato anch'esso a Torino). A questo punto, forse, si avrà qualche ragione in più per parlare del primo scatto, anzi, del primo selfie nella storia dell'umanità.

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Sant'Antonio di Padova


                        Era molto potente presso di noi Sant'Antonio, persona
                        ordinata e di buona memoria, che faceva trovare la roba
                        a chi la perdeva. Occorreva però un intermediario che
                        conoscesse bene l'incantagione necessaria a farlo
                        intervenire.

                                            LUIGI MENEGHELLO, Libera nos a malo



Il 10 ottobre 1991, alle 18.20, tre uomini armati e coperti da passamontagna fecero irruzione nella basilica di Sant'Antonio, a Padova. A quell'ora c'erano poche persone, qualche fedele rimasto a pregare dopo la messa e dei turisti. Il commando andò dritto verso la Cappella del Tesoro: l'obiettivo era una reliquia del santo. Uno dei tre fece stendere a terra i turisti e intanto puntò la pistola contro l'addetto alla distribuzione delle immaginette. Un altro entrò nella Cappella e iniziò a colpire con una mazza la teca dove si conservavano il mento e la lingua del santo.

La fama della lingua di Sant'Antonio risale al XIII secolo, quando Bonaventura da Bagnoregio fece portare i suoi resti nella nuova basilica e la lingua venne ritrovata miracolosamente intatta. L'episodio ha un forte valore simbolico: Antonio era un predicatore eccezionale e, grazie alla lingua, compiva prodigi, incantava le folle e convertiva gli eretici. È così che si guadagnò il soprannome di malleus hereticorum (martello degli eretici). La sua lingua era infaticabile, era perfino capace di predicare contemporaneamente in due luoghi diversi. Dopo averlo sentito parlare, nel 1222, il vescovo di Forlì disse che la sua lingua era mossa dallo Spirito Santo. Qualche anno dopo, l'ottantenne Gregorio IX restò talmente affascinato da una sua predica che lo definì «peritissimo esegeta» ed «esimio teologo». A Padova i suoi discorsi erano seguiti da una tale folla di fedeli che era necessario farlo proteggere da un gruppo di guardie del corpo.

Quasi tutti i miracoli di Antonio hanno a che fare con la pronuncia di qualche discorso. Da giovane, quando ancora vive in Portogallo, dov'è nato, il padre gli affida il compito di sorvegliare i campi durante la sua assenza. Il fanciullo obbedisce e tiene lontano i passeri. Dopo, siccome vuole andare in chiesa a pregare, chiama a raccolta tutti gli uccelli e gli dice di entrare in una stanza della casa. Quando il padre ritorna e vede i campi incustoditi, cerca il figlio per punirlo. Però Antonio lo porta in casa e gli mostra la stanza con i passeri.

Un'altra volta si trova a Rimini e tiene una predica ai fedeli accorsi per ascoltarlo. Ma in città vivono molti eretici, soprattutto catari. Alcuni di loro cercano di distrarre i cristiani raccolti intorno ad Antonio. Lui allora raggiunge il fiume e spiega a tutti che, se gli uomini non vogliono ascoltare la parola di Dio, lo faranno i pesci. E infatti ne compaiono moltissimi e tutti restano a pelo d'acqua per ascoltare la predica di Antonio.

Questo per spiegare la forza delle sue parole nel combattere gli eretici e, quindi, la profonda venerazione di cui è oggetto la lingua incorrotta. Che oggi è esposta nella Cappella del Tesoro.

Allora quel famoso 10 ottobre l'uomo col bastone, dopo aver sfondato la teca della cappella, rubò il reliquiario con il mento e si precipitò insieme ai complici fuori dalla basilica. Ad attenderli, in una strada laterale, c'era una macchina nera col motore acceso, guidata da un quarto uomo.

La reliquia venne ritrovata 71 giorni dopo. Alle 10.50 l'Ansa batté la notizia: «La reliquia di sant'Antonio è stata ritrovata nei pressi di Fiumicino dai carabinieri per la tutela del patrimonio artistico. [...] La reliquia, trafugata dalla Basilica della città veneta, stava per essere trasferita all'estero». A mezzogiorno, dopo la conferenza stampa dell'Arma, il mento del santo ritornò in volo a Padova.

Si potrebbe parlare del classico e un po' scontato lieto fine (a maggior ragione perché Sant'Antonio viene invocato per ritrovare le cose perdute), ma la versione ufficiale del ritrovamento è completamente falsa e dopo un po' la verità venne a galla. E questo fatto del falso che prima o poi si schianta contro il vero è una costante della vita di Antonio.

Per esempio l'accusa di omicidio mossa nei confronti del padre di Antonio è completamente falsa. Nel periodo in cui vive a Padova, la sua famiglia - che è rimasta a Lisbona - viene coinvolta in un grave fatto di sangue. Un giovane uccide un suo nemico e lo seppellisce nel giardino della casa di Antonio. Quando il cadavere viene ritrovato le accuse cadono sul padre. Informato dell'episodio, Antonio si precipita a Lisbona e qui incontra il giudice che vuole condannare il genitore. Per dimostrare la sua innocenza fa portare il cadavere dell'ucciso e gli domanda: «È stato mio padre a ucciderti?». Il morto si mette a sedere sul lettino e risponde: «No, non è stato tuo padre». Dopodiché torna a stendersi, più morto che mai. Le parole del cadavere, ovviamente, scagionano il padre di Antonio.

Ecco, ancora il falso che si schianta contro il vero.

Anche la versione dei carabinieri sul ritrovamento del mento di Sant'Antonio, come detto, è un falso. Infatti la reliquia venne recuperata non a Fiumicino ma a pochi passi da Padova, da dove praticamente non si era mai mossa, e non grazie al fiuto investigativo dell'Arma ma per via di una trattativa segreta. La verità venne a galla grazie a una testimonianza inattesa e, per certi versi, incredibile quanto quella del morto di Lisbona.

Nel giugno 1994 il boss della mafia del Brenta, «Felicetto» Maniero, evase dal carcere di Padova. Venne arrestato a novembre e la sua lingua si sciolse subito. Fra le altre cose raccontò del furto in basilica e dell'intenzione di intavolare una trattativa per la restituzione della reliquia in cambio della liberazione del cugino e della revoca della sorveglianza speciale. Perciò, subito dopo il furto, fece seppellire il mento lungo un argine nella zona del Brenta. Poi, conclusa la trattativa, lo fece ritrovare in un cassonetto delle immondizie alla periferia nordest di Padova.

C'è poi un particolare sul quale Maniero sentì il bisogno di fare chiarezza. L'ordine era di prendere la lingua di Sant'Antonio, perché la lingua era la reliquia di maggior valore e sicuramente la più utile per portare a termine lo scambio. Però i suoi uomini, che non erano molto pratici di santi, reliquie e reliquiari, supponendo che la lingua fosse ancora dentro la bocca, rubarono il mento. Capirono dopo, leggendo i giornali, che la lingua era ancora al suo posto, cioè fuori dalla bocca, nella Cappella del Tesoro.

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Pagina 125

Il Santo Prepuzio


Nel mese di ottobre del 1557 il curato di Calcata trova un piccolo scrigno in una grotta vicino alla sua chiesa, all'ingresso del paese. Lo consegna immediatamente a Maddalena Strozzi, moglie di Flaminio Anguillara, Signore dei feudi di Stabia, Calcata e Mazzano. La nobildonna, alla presenza della figlia Clarice, di Lucrezia Orsini e del curato stesso, lo apre. All'interno ci sono dei fagottini di tela contrassegnati da un cartiglio. Viene fuori che lo scrigno contiene una particella di carne di San Valentino, un frammento della mascella e un dente di Santa Marta, e una reliquia di Gesù. Per capire di che reliquia si tratti Maddalena prova ad aprire il piccolo involto ma le mani le si irrigidiscono. Prova di nuovo ma è come se avesse le dita di cemento. Allora Lucrezia Orsini ha un'intuizione.

Lucrezia Orsini è la vedova di Giovan Battista Anguillara. A lui si era rivolto, qualche anno prima, papa Clemente VII per un compito importantissimo: battere i propri feudi palmo a palmo alla ricerca di un'inestimabile reliquia. Un uomo ricoverato presso l'ospedale romano di Santo Spirito in Sassia, infatti, aveva rivelato in punto di morte di aver rubato qualcosa di estremamente sacro e prezioso e di averlo nascosto in uno dei castelli dei signori Anguillara ma, sfortunatamente, non ricordava in quale. Quell'uomo era uno dei lanzichenecchi che, nel 1527, saccheggiarono Roma. Di più, era uno dei profanatori del sancta sanctorum di San Giovanni in Laterano, dove si conservavano - fra l'altro - i sandali di Gesù, un pane e tredici lenticchie dell'ultima cena, la colonna della flagellazione, un frammento del Sacro Legno della crocifissione, la spugna imbevuta di aceto, la lancia che trafisse il costato e le pietre del Santo Sepolcro.

Papa Clemente VII sapeva benissimo cos'aveva rubato e poi nascosto nei possedimenti degli Anguillara il lanzichenecco profanatore.

Non i sandali, il pane o le lenticchie, e neppure qualche frammento di legno o di pietra, ma il dono che Carlo Magno fece a papa Leone III in occasione della sua incoronazione a imperatore del Sacro Romano Impero il 25 dicembre dell'800. Dono che Carlo Magno ricevette a sua volta da un angelo mentre era in preghiera ad Aquisgrana: una porzione del santissimo corpo di Gesù. Ma quale?

La risposta è relativamente semplice. Gesù è risorto e quindi, al momento dell'ascensione, è asceso per intero, nella pienezza della sua perfezione. Cosa mai avrebbe potuto lasciare sulla terra? Nulla, o meglio, nulla che non fosse stato asportato in quanto superfluo: per esempio i capelli, oppure i denti da latte, oppure le unghie dei piedi oppure, visto che era giudeo, il prepuzio. Della circoncisione di Gesù si accenna solo nel Vangelo di Luca.

Qualche dettaglio in più si trova nel Vangelo arabo dell'infanzia, uno degli apocrifi. Il prepuzio era stato inizialmente custodito dalla Vergine Maria per essere poi affidato a Maria Maddalena.

Ed ecco, dopo 1500 anni, un'altra Maddalena, Maddalena Strozzi, si trova senza saperlo di fronte alla reliquia di Gesù. Però, come abbiamo visto, la nobildonna ha le dita di cemento e non riesce ad aprire il fagottino. È allora che Lucrezia Orsini ha un'intuizione e dice agli altri: «Quella è la reliquia preziosissima del Santissimo Prepuzio di Gesù».

C'è un attimo di smarrimento, nessuno sa cosa fare e come prendere in mano la situazione, nel senso letterale del termine. Alla fine interviene il curato: spetta a Clarice, che ha solo sette anni, aprire l'involto. Chi, se non una vergine, può toccare il Santo Prepuzio? È così che Calcata diventa custode della reliquia preziosissima del Santissimo Prepuzio di Gesù.

Non l'unica, comunque. Altre 12 città rivendicano lo stesso diritto: Santiago di Compostela, Chartres, Besançon, Metz, Hildesheim, Conques, Langres, Fécamp, Puy-en-Velay, Coulombs, Charroux e Anversa.

[...]

Per questo motivo, con il decreto 37 del 3 febbraio 1900, la Congregazione per la Dottrina della Fede vietò a chiunque di scrivere o parlare della reliquia preziosissima del Santissimo Prepuzio di Gesù.

Non tutti si lasciarono intimorire. Nel 1918 viene pubblicato per la prima volta l' Ulisse di Joyce. E qui c'è una scena in cui Stephen Dedalus si trova col suo amico Leopold Bloom davanti a un orinatoio. In quel momento si accorge del membro circonciso dell'amico e non può fare a meno di pensare al prepuzio di Calcata, «l'anello matrimoniale della santa Romana Chiesa Cattolica», e al problema dell'integrità sacerdotale di Gesù circonciso. Quindi, a rigor di logica, James Joyce sarebbe da considerarsi scomunicato.

[...]

Oppure, come suggeriscono in molti, la storia dei ladri viene inventata per mettere fine all'interesse morboso suscitato dal pezzetto di pelle e troncare finalmente il dibattito sulla possibile permanenza terrena di una parte di Gesù. La qual cosa, fra l'altro, permette di riabilitare la tesi del teologo Leone Allacci che, nel XVI secolo, ha elaborato un'affascinante teoria: il prepuzio è asceso in cielo ma qui si è espanso fino a diventare l'anello di un pianeta (allora) appena scoperto: Saturno.

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Pagina 136

San Sebastiano


Pochi santi hanno avuto la fortuna iconografica di San Sebastiano. Le interpretazioni artistiche - pittoriche ma anche letterarie - sono numerosissime. Uno fra i più noti e pagati artisti contemporanei, Damien Hirst, ha messo sotto formaldeide una mucca legata a un palo e trafitta da frecce. Ora, il palo e le frecce sono simboli talmente potenti che al posto della mucca avrebbe potuto esserci un cammello o una motocicletta, l'effetto sarebbe stato più o meno lo stesso. L'artista italiano Luigi Ontani si è autoritratto nei panni di San Sebastiano in un'opera intitolata San Sebastiano nel bosco di Calvenzano, d'après Guido Reni e poi anche in un'altra dal titolo San Sebastiano indiano, in quest'ultimo trafitto al costato da un'unica freccia.

La freccia è l'attributo del martire. Una sola come nel caso di Ontani, poche frecce come nella tavola di Dresda di Antonello da Messina, moltissime frecce come nel San Sebastiano di Venezia di Andrea Mantegna.

A seconda delle epoche, la freccia che trapassa la carne di San Sebastiano ha un nome diverso. È la sofferenza inflitta da mano pagana, la peste che colpisce l'umanità, il peccato che tormenta la carne, il dolore che lascia inalterato chi è puro di cuore.

Per esempio, durante il Rinascimento, quando l'arte sapeva guardare oltre la realtà materiale dell'uomo, quando i corpi venivano messi a nudo e l'idea di bellezza portava con sé un valore anche spirituale, l'immagine più ricorrente era quella di un San Sebastiano giovane, sensuale e muscoloso. Vasari, a proposito di un quadro dipinto da Fra' Bartolomeo, racconta: «Laonde per prova fece in un quadro, un San Sebastiano ignudo con colorito molto alla carne simile, di dolce aria e di corrispondente bellezza alla persona parimente finito, dove infinite lode acquistò appresso agli artefici. Dicesi che stando in chiesa per mostra questa figura, avevano trovato i frati nelle confessioni donne che nel guardarlo s'erano corrotte per la leggiadria e lasciva imitazione del vivo datagli da Fra' Bartolomeo: per il che levatolo di chiesa, lo misero nel capitolo».

L'immagine dell'adolescente dal corpo perfetto e dall'espressione conturbante domina tutto il Rinascimento. Non cambia neppure con la Controriforma. Resta sostanzialmente immutata nel tempo.

Poi, nel Novecento, l'ambigua valenza simbolica di un dardo che trapassa la carne di un giovane seminudo viene in qualche modo esplicitata dal San Sebastiano di d'Annunzio (favorito dell'imperatore), dalle masturbazioni non (solo) intellettuali di Mishima e, infine, dalla creazione di un'icona cinematografica gay nel film Sebastiane di Derek Jarman. Tant'è che, nonostante la contrarietà della Chiesa cattolica, è ormai affermato, nella comunità LGBT, il culto di San Sebastiano patrono degli omosessuali.

Eppure, nelle testimonianze più antiche, San Sebastiano è un uomo anziano, con la barba, generalmente vestito alla romana. Altre volte è un soldato (la sua venerazione quale patrono degli Agenti di Polizia Locale è infatti ammessa con Breve Apostolico del 3 maggio 1957). Nell'uno e nell'altro caso non compare nessuna freccia. Bisogna aspettare il Medioevo per vederlo impugnare quello che sarebbe diventato il suo attributo più famoso.

Qual è dunque l'immagine più attendibile? Il giovane o il vecchio, l'adolescente o il barbuto, il gracile o l'atletico, l'impassibile o il sofferente? Se, come sembra, si arruola nell'esercito imperiale e raggiunge i massimi gradi della gerarchia militare (diventa comandante della Prima Corte della Guardia Pretoriana, sotto l'impero di Diocleziano e Massimiano), allora la figura di un vecchio soldato risulta la più convincente.

E la freccia? Che fine ha fatto la freccia?

Per capirlo bisogna attendere che la persecuzione di Diocleziano diventi più feroce. È allora che il «vecchio» soldato sente un bisogno irrefrenabile di confessare la sua fede. Ed è allora che l'imperatore sente un bisogno irrefrenabile di condannarlo a morte: lo fa condurre sul Palatino, legare a un tronco d'albero (o una colonna) e bersagliare con delle frecce. Come racconta la Passio Sebastiani, il «giovane» viene trafitto così tante volte da sembrare un istrice. A quel punto i soldati pensano sia morto e lo abbandonano sul campo. Invece non è morto e una donna di nome Irene lo trova, lo fa portare da alcuni servi nel suo palazzo, si prende cura di lui e lo guarisce completamente. Solo che Sebastiano sente di nuovo quel bisogno irrefrenabile di confessare all'imperatore la sua fede. Questa volta viene bastonato a morte e dopo gettato nella Cloaca Maxima (3o4 d.C.). Sebastiano però appare alla matrona romana Lucina, le indica il luogo in cui è rimasto impigliato il suo cadavere, le chiede di essere sepolto nel sacro recinto presso le spoglie degli apostoli Pietro e Paolo. Lucina ritrova il corpo e lo seppellisce nel Cimitero ad Catacumbas. Lì, nel IV secolo, viene costruita la basilica chiamata Ecclesia Apostolorum poi diventata, nel IX secolo, Basilica di San Sebastiano (sull'Appia Antica).

Tuttora l'urna contenente i resti di San Sebastiano si trova presso l'altare, non lontano dalla cappella delle reliquie. Dove si possono vedere - oltre alla pietra con le impronte dei piedi del Cristo, alle spine della Corona, a un dito, un dente e una costola di San Pietro, un dente di San Paolo, un osso e un braccio di Sant'Andrea, la testa, un braccio e altre ossa di San Fabiano, le teste di San Callisto e Stefano papi e, infine, un braccio di San Rocco - oltre a tutto questo si possono ammirare la colonna alla quale è stato legato San Sebastiano e, soprattutto, una delle frecce che lo ha trafitto, la stessa dipinta da Antonello da Messina, fotografata da Luigi Ontani, smascherata da Gabriele d'Annunzio, filmata da Derek Jarman, messa sotto formaldeide da Damien Hirst.

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Pagina 141

Santa Barbara


A Burano, quando il mare è grosso e minaccia un temporale, i pescatori di una certa età usano uno scongiuro che fa più o meno così: «Santa Barbara del canòn, protegeme da sto ton. Protegeme da sta saèta, Santa Barbara benedeta». Il motivo è questo: Barbara viene uccisa dal padre il quale, subito dopo, finisce incenerito da un fulmine a ciel sereno. Perciò Santa Barbara è la santa da invocare contro una morte fulminante. Infatti ricorrono a lei tutti quelli che fanno lavori rischiosi: i minatori, i vigili del fuoco, gli artificieri e gli artiglieri (fra l'altro, per lo stesso motivo, le polveriere e i depositi di munizioni vengono chiamati santabarbara).

Ricorrono a lei anche i pescatori. I pescatori di Burano in particolare, visto che sulla loro isola si trovano i resti della santa. Ce li avrebbe portati, direttamente da Costantinopoli, la nipote dell'imperatore Basilio II, Maria, che ha sposato Giovanni Orseolo, il figlio del doge di Venezia.

[...]

A questo punto Dioscoro denuncia Barbara accusandola di essere cristiana e di aver commesso empietà verso gli dei. Durante il processo, il prefetto Marciano tenta di farla abiurare ma lei rifiuta e anzi invita il prefetto, il padre e tutti i presenti a convertirsi al cristianesimo. Allora viene torturata. Per prima cosa la vestono con certi abiti coperti di spine che le provocano ferite su tutto il corpo. Però un angelo le appare in cella di notte e la guarisce. Il giorno dopo Barbara viene torturata con piastre di ferro roventi e con il fuoco. Ma le piastre non lasciano segni e il fuoco si spegne quasi subito. Poi viene ordinata la flagellazione con le verghe, che però si trasformano in piume di pavone. Allora il prefetto ordina di trascinarla nuda per le vie della città. Subito il cielo si fa nero e cala una nebbia fittissima che impedisce a chiunque di vedere la flagellazione. Alla fine Marciano ordina il taglio delle mammelle e della testa. Una delle mammelle, pietrificata, si trova in Russia, a Novgorod. E, sembrerebbe, anche la testa. Di cui vantano il possesso, fra l'altro, la Basilica di San Lorenzo fuori le Mura a Roma, la Basilica di Santa Maria Maggiore all'Esquilino, la chiesa dell'Annunziata a Napoli, la cattedrale di San Pantaleo a Ravello, la chiesa di Sant'Andrea a Sestri.

La storia della testa, quindi, è complicatissima. Manca, per esempio, nel corpo conservato a Venezia. Poi c'è la testa di Santa Barbara di Montecatini, che però manca della mandibola. Una mandibola, compatibile con la testa di Montecatini, si trova a Pisa.

Potrebbe essere che Venezia, per questioni di supremazia nel Mediterraneo, si sia alleata con Pisa contro Genova. Non è da escludere che Pisa, in cambio, abbia chiesto la testa di Santa Barbara. È possibile che Pisa, qualche tempo dopo, si sia trovata in guerra con Firenze. È facile immaginarla alleata di Montecatini. Tutto fa pensare che Montecatini abbia accettato di fare la sua parte ma, in cambio, abbia chiesto e ottenuto la testa di Santa Barbara. Con buona probabilità Pisa ha tenuto per sé la mandibola.

Il puzzle è così completo. O quasi.

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