Copertina
Autore Giancarlo Orsenigo
Titolo Via degli Inganni
EdizioneVoland, Roma, 2003, Intrecci 28 , pag. 144, dim. 144x205x10 mm , Isbn 978-88-88700-09-0
LettoreGiovanna Bacci, 2003
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

Prestigiatore di mestiere, durante gli spettacoli mi sento protetto dal pubblico lontano, ma quando ci sto in mezzo mi devo in qualche modo difendere; per fortuna in questi momenti la concentrazione è tale da salvarmi dai miei abituali atteggiamenti di insofferenza per gli altri e di noia per la vita, e da sospendere quel sentimento di persistenza corrucciata e inutile tra i vivi che mi rende amara l'esistenza: forse soffro di ciò che una volta si chiamava spleen. Da sempre ho l'impressione che sulla terra si agitino stupidamente miliardi di indemoniati e così spesso mi chiedo se valga la pena viverci: da queste considerazioni mi viene un doppio senso di animosità e di disgusto verso il prossimo.

Ieri sera dopo cena, non avendo spettacolo serale, mi sono trattenuto a tavola con mia moglie:

- Che cosa hai fatto oggi? - mi ha chiesto senza interesse, tanto per rompere il silenzio.

- Sono andato all'ospizio a fare i giochi.

- E i vecchi si divertono?

- Cosa vuoi che si divertano, guardano e basta.

- E che giochi hai fatto?

- I soliti.

- Non li cambi mai?

- È il mio spettacolo.

- E non si stufano?

- Non lo so, guardano e basta. Sono vecchi. E tu che hai fatto?

- Sono stata al corso di cucina.

- Cosa ti hanno insegnato?

- Oggi era il giorno delle minestre.

Allora lei ha cominciato a sparecchiare.

Sono rimasto seduto e forse volevo dirle che andando all'ospizio avevo fretta, anche se l'orario non era poi così importante perché i vecchi non si muovono dal salone dove gli infermieri li portano, ma ero comunque in ritardo e mi seccava farli aspettare perché quando capitava, e capitava spesso, mi pareva di scorgere tra le loro tante rughe quella in più del rimprovero.

Il conducente del tram su cui ero salito dopo lunga attesa aveva appena chiuso le porte, quando una tale ci ha picchiato con un sorriso implorante. "Non aprirle" ho cercato d'impormi col pensiero sul tranviere "se lo fai perdiamo il semaforo." Ma lui ha aperto e io l'ho maledetto.

Questo forse avrei potuto dire a mia moglie Maria che sparecchiava: un tempo l'avrei fatto per confessarle in spirito di complicità una mia debolezza. Ora non più, è troppo difficile parlarle e soprattutto troppo inutile, così sono andato ad annoiarmi davanti alla televisione.


Mi sono addormentato quasi subito. Ho sognato di avere una partner di cui vedevo solo la testa sospesa: era il finale del numero della donna segata.

Il gusto di torturare una donna con la sua collaborazione non l'ho mai provato; non lavoro con soggetti vivi, né piccioni né conigli né donne, per l'appunto. Eppure nel sogno sentivo l'odore del sangue. Avevo messo la donna ancora intera in un armadio e da un'apertura le si vedeva il viso, poi avevo scomposto l'armadio in modo da far risultare che tra la testa e i piedi ci fosse il vuoto. Sul palco è allora salita una guardia che mi ha accusato di omicidio e vilipendio di cadavere: dove avevo messo le braccia e le gambe? Per discolparmi mi sono rivolto alla testa della donna che mi sorrideva con un incredibile numero di denti. La guardia mi ha fatto una multa e per pagarla ho cercato con le mani il portafoglio nella tasca dei pantaloni, e agitandomi mi sono svegliato.

Per un po' sono rimasto rattrappito nella poltrona a pensare ai miei giochi e al mondo di fuori che, pesante e duro com'è, non bastano certo pochi trucchi per annullarne la gravezza e l'impenetrabilità. Pure possedevo l'arte di giocare con i cerchi di metallo che si allacciano e si sciolgono, i fiori che sbocciano, le carte e i fazzoletti che sono colori legati da anelli di fumo.

Ho pensato alla mia vita così abitudinaria anche dopo l'esperienza nel circo: lunedì spettacolo al club, martedì ospizio, mercoledì oratorio, giovedì cena in trattoria per un incontro fra maghi, presentazione e confronto dei numeri, venerdì serata per ricorrenze private, sabato e domenica avanspettacolo, pomeriggio e sera. Questi due giorni sono economicamente i più vantaggiosi, dal momento che mi esibisco quattro volte.

Avevo sempre disponibili le mattine che dedicavo a protratti dormiveglia e alla salute del corpo: ginnastica da camera e lunghi bagni con i sali colorati che li rendevano calmanti e profumati. Nella vasca leggevo qualche giornale poco serio con cui mi sforzavo di dimenticare i due mali da cui sono afflitto per natura: la noia e la malinconia. Per di più mi salvavo dall'autocommiserazione.

Mi piaceva molto bere alcolici, e lo spirito ne traeva beneficio, ma solo lontano dagli spettacoli. Un prestigiatore che beve perde rapidamente la precisione delle esecuzioni; e tuttavia l'alcol è un gran conforto.

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Cambiare ambiente di lavoro avrebbe mutato anche il mio umore?

Provavo tuttora il rimpianto di non essere l'artista che avevo sempre sognato; in realtà non ero mai riuscito a dedicarmi alla mia arte, solo a esercitarla dimessamente: come prestigiatore fin dagli inizi mi ero risparmiato la briga di migliorarmi, di progredire.

Nel circo mi si chiedeva più che altro d'intrattenere i bambini e questi avevano l'applauso facile, forse perché mi consideravano solo un necessario intervallo tra l'ultimo numero dei trapezisti dei cui volteggi avevano ancora pieni gli occhi e il successivo delle belve di cui udivano i ruggiti intanto che le gabbie venivano montate.

Come uno spirito incompiuto ero confinato in territori dai quali non osavo uscire. Il contatto con gli artisti circensi cui il costante esercizio, l'accanimento sulle minuzie, l'aspirazione estenuante alla precisione infinitesima, permettevano di costruirsi un sistema, suscitava in me un'invidia più o meno inconscia per la regola. Se ero così turbato era anche perché mi sembrava quasi di vivere da parassita del loro successo; avevo innegabilmente preso gusto sin da principio ai miei giochi, ma prendere gusto e intendersene sono cose diverse.

Nella mia ricerca di miglioramento mi scontravo a ogni istante con i miei limiti di costanza e forse di talento: ma non aveva senso dispiacersi per quello che non avrei mai raggiunto e punirsi per non essere altro che un semplice orecchiante in fatto di prestidigitazione.

Non sapevo assolutamente inventare nuovi giochi: questo tipo di invenzione mi era più estraneo, più impenetrabile, più disperatamente irraggiungibile di qualsiasi altra creazione. Provavo l'amarezza di sentire che esisteva tutto un mondo di giochi dal quale per incapacità ero escluso o, al massimo, ai margini; finivo così per sprofondare in considerazioni di rinuncia e di sarcasmo autolesionista.

- E vuoi lasciare il circo subito? - disse Maria, il viso rivolto alla finestrella del carrozzone; fumava in un modo affrettato, quasi affannoso, che mi era nuovo come quella sua maniera ansiosa di parlare.

- Non lo faccio per malanimo, né per capriccio. Dovresti saperlo. Dimmi che lo sai.

Non disse nulla, ma assentì vagamente col capo e vedevo dal suo viso che a stento tratteneva le lacrime.

- E Tobia?

- Qui lo cureranno con ogni riguardo. Tuo padre mi ha detto che potrebbe prenderselo in un numero.

- Ma tu, mi vorrai poi bene?

Esitai a rispondere forse un mezzo minuto, certo troppo a lungo.

Quando infine risolsi di avvicinarla alzandomi, scosse la testa. Ebbi allora l'impressione di esserle sposato da un tempo infinito.

- Io voglio te - risposi infine a fatica e mi parve che non ci fosse qualcosa di più bello da dirle.

- Sei tanto caro - disse Maria. - Ma sei sempre scontento, e tutto ti annoia.

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Pagina 36

Le mie apparizioni in pista mi erano diventate altrettanto noiose del quotidiano tran tran dal carrozzone alla tenda del circo per le prove, poiché la mia era ormai una continua voglia di nuovi eventi. Ma, riflettevo, le avventure non capitano mai a chi se ne sta fermo: bisognava andare a cercarsele, e intanto mi tormentava il problema di come avrei passato il pur poco tempo che mancava al trasloco.

Maria se ne stava sempre rintanata nel carrozzone quasi volesse goderselo sino all'ultimo e aveva preso a fumare in maniera dannata: riempiva tutto di fumo che saliva al soffitto in matasse grigiastre.

Io non le dicevo niente e me ne stavo seduto in una poltroncina accanto al giaciglio disfatto, osservando con qualche disgusto il carrello col vasellame sporco della sua prima colazione. In condizioni come queste, avendo una vera casa in città, sarei di certo sceso in strada, ma qui, appena fuori mi sarei trovato tra i carrozzoni senza sapere bene che fare se non scambiare qualche insulsa chiacchiera con chi si affacciava alle porte. No, la vita del circo proprio non mi andava più.

Speravo che col trasloco Maria cambiasse, specie per quanto riguardava l'ordine: dopo il matrimonio aveva mantenuto le sue abitudini di ragazza di circo che, ignorando armadi e cassetti, getta tutto ciò che possiede per terra o sul letto: libri e quaderni, penne e matite, spazzole e spazzolini e persino il cappello e l'ombrello. La sera, prima di coricarsi, con uno strattone alla coperta rovesciava tutto sul pavimento: e meno male che almeno non c'era più Tobia tra i piedi.

Una sola volta Maria aveva indossato un abito stirato a dovere, ed era stato il giorno delle nozze. Ma mi pareva di ricordare, oltre alle parole del prete ("finché la morte non vi separi..."), che il suo atteggiamento quel giorno fosse molto impacciato.

Se col trasloco non avesse mutato le abitudini del giaciglio-ricettacolo sarebbe stato bene dormire in letti separati e mi riservai di parlarne a mio fratello che dopo le opere murarie cominciava a badare all'arredamento interno: mi aveva inviato vari cataloghi di mobilieri da cui scegliere e proprio quel mattino mi ero proposto di mostrarli a Maria, nonostante il suo disinteresse per la nuova casa.

D'improvviso fui però colto da un senso di stanchezza: eccomi qua, mi dissi, a esercitarmi nell'arte della sopravvivenza coniugale. Vedevo quasi palpabilmente quei figli che non avevo mai voluto avere e i giorni che si sarebbero susseguiti l'uno dietro l'altro, sempre eguali; mi sembrava così di avere davanti, reale, il tempo che sarebbe venuto.

Tornavo in me solo quando Maria giaceva tranquilla nel letto e io mi volgevo a guardarla; distesa, i corti capelli castani, il volto chiaro e sottile dal profilo risentito di puledro. Se però capitava che si girasse di colpo cadeva sul pavimento qualcosa che, insinuatasi tra le pieghe della coperta, non era schizzata via con lo strattone serale: magari un cucchiaio o una matita, o anche un'albicocca rinsecchita che rotolava sul tappetino.

Al mattino tenevo d'occhio le lancette della sveglia e avvertivo Maria che era ora di alzarsi. Sedevo poi sul bordo del letto in pigiama a leggere il giornale che di buon'ora un inserviente mi faceva trovare sui gradini del carrozzone; intanto Maria preparava l'abbondante prima colazione cui quasi mai partecipavo, accontentandomi di un caffè. Poi mentre lei incominciava neghittosamente la sua giornata mi recavo sotto la tenda del circo nell'angolo riservato alle esercitazioni degli artisti.

Quando tornavo e la trovavo affaccendata tra le cianfrusaglie sparse, cercavo di farle capire che cosa intendevo per ordine, pur senza insistere troppo per non farle odiare la nostra prossima casa ben dotata di contenitori: intanto rimuginavo che, se avevo sposato una ragazza del circo, era vano pretenderla anche casalinga, a parte quell'eterna sua vestaglia azzurra che sulle prime mi aveva illuso.

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Dopo i traffici del trasloco, fui libero di girare il mio quartiere in lungo e in largo; dapprima mi limitai alle strade e piazze vicine, poi m'inoltrai nelle vie laterali e quando ebbi finalmente tracciata in testa una carta sommaria della città mi misi a seguire i percorsi verso il centro fino ad attraversarlo e giungere all'opposta periferia.

Continuavo a vagare avanti e indietro come se cercassi qualcuno o qualcosa.

Un giorno, in una via laterale, vidi la vetrina di un negozio con una strana insegna: "Negozio del Crimine" e subito dopo un'altra simile con la scritta: "Negozio del Canto e della Poesià'.

Le vetrine, dai cristalli assolutamente tersi, erano vuote.

Che cosa significavano quelle insegne? Volevo chiederlo a qualche passante, ma la via era deserta.

Ebbi la sensazione d'avere già incontrato insegne di quel genere.

Annotai mentalmente la data per una seconda visita e rilevai dalla targa il nome della strada: "Via degli Inganni".

Il giorno seguente, mentre con Maria mi recavo da certi miei parenti, l'ansia non mi abbandonò un istante.

Non ero tuttavia pentito di aver lasciato il circo per la città e alla sola idea di tornarvi mi prendeva l'angoscia.

La sera stessa telefonai a mio fratello per chiedergli se sapeva qualcosa di via degli Inganni e dei suoi negozi: non la conosceva e scherzò sulle insegne. Pure mio padre, dopo essersi fatto spiegare ben bene l'ubicazione, concluse che non era mai passato da lì e che ignorava l'esistenza di una strada dal nome tanto bizzarro.

Dal canto mio consultai una pianta della città ma non risultò una via con quel nome.

Eppure ero certo di avere già incontrato una via degli Inganni nel mio passato, anche prima di leggerne il nome sulla targa stradale.

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