Copertina
Autore Giancarlo Orsenigo
Titolo Spleen
EdizioneVoland, Roma, 2004, Intrecci 32 , pag. 224, cop.fle., dim. 145x206x14 mm , Isbn 978-88-88700-25-0
LettoreElisabetta Cavalli, 2005
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

UNO



PRIMAVERA 1970°. È sera, accanto a mio marito Paolo guardo la tivù e come spesso mi capita sono colta da sgomento. Lo chiamo così ma impropriamente, perché lo sgomento sarebbe secondo scienza un senso di grave apprensione che turba l'animo, insomma una cosa piuttosto semplice e in tanti lo provano e dicono mi prende lo sgomento, sto per sgomentarmi, mi sono sgomentato facendosi con ciò ben capire.

Quello che provo io è invece un pasticcio molto intrugliato e in cui magari di sgomento non ce n'è per niente.

Infatti ho:

    vampate al volto
    un macigno sul petto
    la sensazione di un pericolo
    agitazione e affanno
    e l'affanno è greve come una macina di mulino.

Ma poi:

    l'affanno si sfibra
    in rivoli d'inquietudine
    in pensieri neri
    senza lo scampo della più tenue luce
    in pensieri neri di malattie terminali.

Dunque per sfibrarsi si sfibra, ma mi ritrovo ancora in poltrona accanto a mio marito più sana che salva.

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Pagina 27

Oltre al busto della madre, Paolo ha voluto in casa anche un grande specchio antico a tre luci. Un paio di uomini in tuta lo hanno portato su per le scale e deposto, seguendo le sue istruzioni, in un angolo della camera da letto. Paolo lo ha liberato con cura dell'imballaggio.

- Questa psiche - ha detto - è della fine del '700. Mi è costata un sacco di soldi.

Io mi sono specchiata e mi è venuto il malumore nel rendermi conto di un fatto che non avevo mai ignorato ma che, da qualche tempo, avevo quasi dimenticato: la mia faccia non soltanto mi era antipatica ma addirittura odiosa se riflessa per intero nelle tre luci della psiche. Non volendo però a nessun costo riconoscere tanta sgradevolezza, mi sono spostata dallo specchio per poi tornarci di nuovo, nella speranza di scovare in viso, a un esame più attento, qualche motivo di simpatia. Ma più mi guardavo e più cresceva la mia avversione. Era da tempo che non mi vedevo riflessa da ogni parte, probabilmente da quando non frequentavo più le sartorie dove quel tipo di specchio è in uso.

- Ti piace la psiche? - mi ha chiesto Paolo.

- No, per niente, - ho risposto - mi sono guardata e non mi sono affatto piaciuta.

Sembrava non capire:

- Come, le luci non sono abbastanza limpide?

- Lo sono sin troppo. Non è questo, è che riflettono una brutta immagine.

- Brutta?

- Sì, mi vedo antipatica.

- Non c'è niente di antipatico in te. Anzi, per lo più tutti ti trovano piacevole.

- Già tutti, ma non io. E poi mi vedo non solo antipatica ma anche, come dire, da fuori, un'estranea. Specchiandomi mi sono detta: ma chi è quell'odiosa?

- Tu hai la malsana mania di buttarti sempre giù, magari per farmi pagare la tua insoddisfazione - ha detto Paolo. - Perché mai dovresti trovarti antipatica? Sei giovane, bella e intelligente.

Ho risposto agramente:

- Hai fatto un ritratto molto convenzionale, ma non è il mio. Se solo riuscissi a guardarmi un po' meglio dentro... Se mi vedo così una ragione deve pur esserci, anche se al momento la ignoro.

Paolo ha scosso la testa nel suo solito modo tra l'ironico e il condiscendente:

- Semplicemente, mia cara, non sei contenta di te stessa, ecco tutto. Datti una mossa e vedrai che ti passa.

Mi ha preso un senso di stizza.

- Forse la ragione è un'altra: mi trovo odiosa ed estranea perché sono tua moglie.


La mossa però me la sono data, ho cominciato a frequentare lo studio di una psicologa.

- In mio marito - le confidavo - ciò che più m'infastidisce è quel suo vantarsi di essere metodico, formalista e attaccato ai vecchi principi. Parla compiaciuto di queste sue attitudini, che per me sono difetti, come se fossero pregi. Forse lo fa per prevenire le critiche.

Un giorno, eravamo appena sposati, mi ha detto: "Tutto mi riesce bene, qualsiasi cosa intraprenda. Se mi prefiggo una meta tanto faccio che sempre, alla fine, riesco ad agguantarla." Fin qui poteva anche andarmi bene, ma quando gli ho chiesto di farmi un esempio di questa sua, chiamiamola così, abilità, mi ha lasciato di stucco: "Proprio in questi giorni è finita la causa di cui ti ho accennato, intentatami da quel tale che mi accusava di averlo investito con la mia auto per imperizia. Non contento di quanto la mia assicurazione gli ha liquidato, pretendeva addirittura che fossi condannato penalmente. Allora mi sono detto: costui merita di essere castigato, farò in modo di sistemarlo per le feste. Me lo sono proposto con tutta la tenacia che mi appartiene. Intendiamoci, non che avesse tutti i torti: forse al momento dell'incidente ero un poco distratto, ma con la sua iattanza mi aveva proprio seccato. Perciò ho deciso di vincere la causa e umiliarlo, e infatti così è stato."

"Come hai fatto?" gli ho chiesto.

"Pagando dei testimoni a mio favore."

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Pagina 73

Vado a trovare la nonna. Da quando è tornata sta poco bene e non si alza dal letto; ha le guance arrossate da qualche linea di febbre e i suoi ancora folti capelli bianchi giacciono sparsi su una federa di bucato. Mi parla dei giorni trascorsi con la mamma:

- Purtroppo ha fatto disperare un po' tutti perché è balzana come un cavallo, e pensa solo a delle assurdità come quei benedetti sistemi della roulette in cui trascina anche me. Magari potrebbero andar bene, se applicati con tenacia e pazienza. Ma chi ne ha voglia? Dopo un po' salta tutto... si gioca come si vuole e si perde. Ma è buona la tua mamma, certe volte fa la spavalda ma nel fondo è timida come te, anche se tu non sei così debole e non ti lasci schiacciare. Il peggio è che fa sempre tutto a modo suo e ci mette nei guai. Ha soltanto se stessa e il suo oggi nei pensieri.

Guardo fuori della portafinestra che dà sul giardinetto: Titti sta facendo il bisognino sulla pianta d'ortensie e la nonna lo sorveglia amorosamente: - Che stellina, ora che sono a letto fa tutto da solo; se non fa freddo gli lascio la portafinestra socchiusa e quando abbaia gliel'apro del tutto.

- Quanta pazienza hai!

- Lo faccio volentieri, è come avere un bambino in casa.

Chissà se le sue parole arrivano al cagnolino che al rientro balza sul letto per farsi accarezzare: scodinzola e mugola come per comunicarci qualche buona novella.

- Fa il bravo - gli dice la nonna. - Ma sì che sono bravo, proprio bravo.

E per un istante penso che sia stato il cane a parlare.

- Nonna, dimmi della mamma, di quando era piccola.

- Tua mamma? A pochi anni aveva fretta di crescere e talvolta era imprevedibile. Seduta al sole sui gradini del giardino, con un cappelluccio in testa e i sandali ai piedi, guardava le formiche che vagavano in fila e poi d'improvviso era capace di schiacciarle sotto le suole. Così, senza ragione. "Hai la febbre? Sei stata troppo al sole" diceva allora il nonno, la mano sulla sua fronte. "Ma no, siamo caldi eguali, e allora perché fai così? Povere formichine, che male ti fanno?" Lei lo guardava con un'espressione innocente, immacolata come la neve sui monti.

Non era una bambina tranquilla tua mamma, spesso si arrabbiava facendosi di ghiaccio e ci fissava con uno sguardo sdegnato, come trasformandosi in un'altra.

La sua maestra un giorno mi ha chiamato per lamentarsi di lei: la voleva addirittura sospendere dalla scuola, ma prima di farlo preferiva ascoltarmi per sapere della sua salute.

Le cose erano andate così: nell'intervallo gli scolari stavano giocando e risuonavano scrosci di risate e scalpiccii di corse nei corridoi, quando improvvisamente ai rumori s'è aggiunto uno stridulo aspro e forte, come di un vetro frantumatosi in mille pezzi. Per un istante tutto è taciuto, ma poi è scoppiato un gran baccano: i bambini si sono precipitati verso la sorgente del rumore. Una porta a vetri che dava sul terrazzo giaceva infranta e tua mamma era in piedi da sola in mezzo alle schegge di vetro: "Vi basta, o volete un'altra dimostrazione della mia forza?" gridava con una faccia da far paura e una voce rabbiosa. Per rompere la vetrata si era servita di uno sgabello.

- E come è finita? - chiedo alla nonna.

- È finita che tuo nonno e io siamo tornati a scuola per risarcire il danno e parlare con la direttrice; avevamo un certificato del nostro medico che accennava a una eccitabilità eccessiva della bambina, di nevrastenia quasi, non pericolosa tuttavia per sé e per gli altri. La cosa per fortuna non ha avuto seguito perché la direttrice ha voluto crederci. Ma lo vedi che tipetto era tua mamma già da allora? Da quel giorno, dopo una bella ramanzina, ha però fatto in modo di non mostrare i suoi nervi soprattutto quando era a scuola e questo episodio pur penoso è rimasto isolato.

A dodici anni Luisetta si è fatta un'amica del cuore: andavano e tornavano da scuola a braccetto. Pareva trovassero tutto buffo e scoppiavano spesso a ridere come matte...

Mi vengono in mente in situazioni simili, le risate fatte di niente con Lea: anch'io dunque sono stata una bambina allegra.

- Parlavano una lingua - continua la nonna - comprensibile solo a loro, con cui si confidavano storie e segreti e capace di esprimere ogni intimità. Quando le ascoltavo avevo la sensazione di essere una perfetta estranea.

- Credo di capire quello che provavi, la mamma ha sempre avuto la capacità di far sentire estranei gli altri - e penso a quando, piccola di pochi anni, stavo accanto a lei avvolta in qualche vestaglia vaporosa, invocando una carezza che non veniva. Provavo la sensazione di un corpo freddo e lontano.

- Forse in famiglia siamo tutti della stessa pasta negli affetti. Non ti pare nipotina?

- Forse sì.

Per un po' rimaniamo pensierose, senza parlare. Lo sguardo della nonna è morbido e dolce, un modo per tirare fuori qualcosa dei suoi ricordi: - Poi tua mamma è apparsa improvvisamente cresciuta: ha riempito la sua camera di una enorme quantità di oggetti e ninnoli, forse simulacri scelti con la massima cura e acquistati con le paghette, e in questo suo regno si muoveva come una regina tra i sudditi. Andava in branco con certi tipi fuori del comune la cui compagnia, diceva, era un vero piacere; viveva in uno stato di gioiosa eccitazione e tutto pareva esserle bello. Ma anche capitava che nel cuore della notte fosse presa da attacchi di pianto; se accorrevo mi diceva che era agghiacciata dal buio e la prendevo a letto con me. Al mattino, però, dimenticava tutto e mi chiedeva come mai non si trovasse nel suo letto.

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Pagina 99

SEI



Quando mi vede arrivare non si sorprende, anche se le compaio davanti all'improvviso. Zaira è sorda, ma non porta l'apparecchio acustico che le ho comperato perché sente con gli occhi, che ha ancora buoni. Mi ha dato le chiavi della sua piccola casa, e io apro gridando vanamente "Zaira! Zaira!"; mi faccio avanti tra un intrico di porte che non si aprono nel verso giusto, così che l'una intralcia l'altra e per passare bisogna destreggiarsi tra i battenti.

La trovo davanti a una stufetta a gas sempre accesa, anche d'estate. Mi fa festa, come un cane che non vede il padrone da tanto, e mi lascia la poltroncina sedendo sull'orlo di una sedia con la leggerezza di un uccello e le mani nel grembo, strette l'una all'altra.

Ha qualcosa di un angelo appassito che il tempo ha logorato sottilmente.

Mentre dispongo sul tavolo quanto le ho acquistato enunciandolo ad alta voce, lei squittisce di gioia non per i doni ma perché l'ho pensata. Zaira ha fame di affetto e non ne trova: dei due nipoti uno, sacerdote, è morto, l'altro è molto malato e succube di una moglie dispotica; i parenti l'hanno dimenticata e le sue poche amiche sono scomparse.

Zaira ha ottantasei anni e più di settanta li ha trascorsi a servizio. Da giovane come domestica, da vecchia come infermiera perché i padroni erano malati; me ne parla spesso e dalle sue parole traspare il rapporto di stima e di affetto che ha vissuto con loro, lei sempre vigile dal suo posto discreto e silenzioso.


Un tempo Zaira doveva essere una natura luminosa, dallo sguardo innocente evocante immagini di purezza e insieme di ritrosia semplice e fiera, intoccabile.

La immagino piccola di pochi anni, la faccina rossa e tonda sbucante come una mela dal cappuccio, guardare immiserita i bambini che si rincorrevano verso la scuola del paese. Dopo le prime due classi la scuola non le è stata più concessa perché i suoi erano poveri e avevano bisogno di lei per il lavoro nel campi.


A dodici anni Zaira resta orfana del padre e la poca terra viene venduta; la mamma la manda a servizio da una famiglia della città in cambio di qualche soldo. L'accompagna lei stessa, tozza e infelice, con l'umiltà dei poveri vestiti a festa, reggendo tra le mani in atto di vergognosa offerta un mazzo di fiori di campo. Siccome pare che non abbiano il coraggio di muoversi dalla soglia, la padrona si fa loro incontro, prendendo con sollecitudine il dono. La piccola Zaira per la soggezione sorride, nascondendo tra gli angoli delle labbra la timidezza.

Subito i padroni, nonostante la fragilità dei suoi pochi anni, le riservano faccende di casa anche grosse; così Zaira sviluppa una forza fisica indomita: più lavora e più si sente forte e il suo corpo non conosce stanchezza, indisposizione, malattia. Sembra costruita di una materia inumana che solo i suoi occhi luccicanti di dolcezza sanno mitigare.

Nutre per i padroni una fedeltà mansueta; le sembra naturale, in quella ricca casa, sentirsi di un'altra classe, forse di un'altra razza. I padroni sono contenti di lei e passano a sua madre una somma mensile abbastanza generosa; a lei invece concedono qualche regalino e qualche ora di libertà la domenica, durante le quali con un paio di altre servette gira per la grande città.

Col passare degli anni Zaira diventa sempre più asciutta, quasi rinsecchita, e decisa nei movimenti, ma di tanto in tanto, ricordando il passato, schiaccia la mano sul petto come per reprimere una pena.

Con alacrità perenne Zaira cuce, fa la calza, lava e stira, riordina la biancheria, cucina e prepara la tavola e questi sono solo i suoi lavori leggeri. Anche da vecchia salirà sulla scala per pulire i vetri e spolverare sopra i mobili. Ogni sera, dopo avere rassettato tutta la casa, si rannicchia in un angolo della cucina e prega.


In quella famiglia Zaira rimarrà tutta la vita; mai le balenerà nella mente di abbandonare la casa o di esserne allontanata, sempre considerandola sua: serva e zitella dedica ogni facoltà, ogni energia ai padroni, e dal suo posto discreto e silenzioso partecipa a tutte le pene e a tutte le gioie, proprio come se fosse della famiglia.

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Pagina 134

Eppure Marco sa anche essere piacevole. Ha modi e mani delicati, e possiede un mucchio di libri. Nel suo attico, in un antico palazzo, dove finalmente mi ha concesso di entrare (sono la prima donna che ne ha varcato la soglia, dice), i libri cominciano nell'ingresso, tappezzano il salotto, si accumulano nel corridoio, invadono la stanza da letto e s'impilano persino nel bagno.

Il giorno che me li ha mostrati per un momento ho creduto di amarlo, soltanto per i suoi libri. Mi ha infastidito però la titubanza con cui mi ha introdotto nella sua casa.

Ricordo che passando e ripassando davanti alla portineria ha salutato il portinaio con voce altissima, come per fargli capire che lui e io di sopra eravamo rimasti insieme soltanto per pochi minuti. Che prete! Marco è così: timorato e attento al giudizio altrui. Quando parla di sé fa notare subito quanto poca trasgressione gli è stata permessa nella vita; non se ne lamenta, anzi, afferma di aver sempre ricercato la normalità.

"Ubbidire e rinunciare, questa" dice "è stata la mia infanzia." A ventitré anni aveva già due lauree in filosofia e architettura, pur rifiutando la professione: sognava solo città del sole e cattedrali metafisiche, e intanto dimenticava di fare all'amore. Così le sue esperienze cominciavano e finivano tra le braccia delle prostitute.

In seguito, a forza di riflettere, gli era sembrato di capire il suo sbaglio: città e cattedrali a parte, si dedicava troppo a se stesso, pur proibendosi tutto. Doveva invece lasciarsi andare, e pensare agli altri, ad amare insomma.

Si era così fidanzato con un'ex compagna di studio; l'invitava a cena, le mandava dei fiori, l'accompagnava a teatro e ai concerti, le telefonava tutti i giorni. Ma quella volta che lei aveva preso l'iniziativa, preso dal panico, non era riuscito a combinare nulla e così si erano lasciati.


- E col tuo tempo come te la cavi?

- Benino - mi risponde. - Ho sempre tante cose da fare, e poi sono uscito da quest'ossessione, anche per merito di Bonalumi che mi ha convinto che il tempo non esiste: un'ora, un giorno o un anno è lo stesso, tutto ugualmente inesistente, indivisibile come un sentimento. L'unica, vera misura è solo in noi. Escludi un uomo dal corso del tempo e finirà di penare. La sua sarà stata una trovata da nulla, discutibile fin che si vuole, anche perché sbircia sempre l'orologio per controllare che non siano trascorsi i quarantacinque minuti della seduta, ma efficace specie con uno come me.

- Risposta esauriente, non c'è che dire.

- Quel pochi che mi conoscono sostengono che ho un brutto carattere per il quale non c'è niente da fare. Forse hanno ragione: sento di avere dentro una rabbia oscura che viene da lontano, da quando i miei hanno deciso di mandarmi in collegio dai preti; talvolta laceravo coi denti le lenzuola, e per fortuna la mamma mi aveva sequestrato ogni tipo di lama, altrimenti avrei sbudellato qualcuno (o me stesso); se allora mi capitava sotto mano qualcosa di fragile e mi girava storto non ci pensavo un istante a mandarlo in frantumi.

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