|
|
| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 7 INTERVISTE L'Europa delle buone maniere 15 Jesper Jespersen Al mercato della filantropia 23 Theresa Funiciello Una libera università in uno Stato di massima sicurezza 31 Herman Schmid Virtù perdute di una società «low cost» 37 Stefano Zamagni Il giramondo dello sviluppo sostenibile 45 John McMurtry Elogio dell'utopia 53 Colin Lyes e Leo Panitch La scalata in borsa del gaudente 59 Giorgio Lunghini Neoliberismo: democrazia senza pluralità 65 John Andersen L'equivalente della buona vita 71 Philippe van Parijr Una riflessione moderna sul post-moderno 79 Adelino Zanini Il futuro dello Stato nel caos della globalizzazione 91 Bob Jessop La produzione P2P e la nuova economia politica 109 Michael Bawens La vita messa a lavoro: scenari di capitalismo cognitivo 121 Andrea Fumagalli Moltitudine e Welfare del Comune 133 Toni Negri Schede Biografiche 147 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Il secolo scorso è stato caratterizzato da due fenomeni principali. Il primo riguarda l'assunzione di responsabilità da parte della maggior parte delle nazioni industrializzate di fornire un sufficiente livello di benessere ai propri cittadini. In Europa quest'idea ha rappresentato il propellente per quello che è universalmente definito come Stato del benessere (Welfare). Questo assetto istituzionale, in vigore dalla fine della seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni settanta, fu in grado di mantenere la coesione sociale – anche se in maniera non esaustiva e frammentata – grazie a una regolazione politica ispirata dall'idea strategica di un contratto sociale tra i soggetti primari della produzione moderna, nella fattispecie lavoro e capitale. In questo contesto, "la funzione del lavoro, pienamente riconosciuta nel suo carattere esplicitamente sociale, come fondamento della cittadinanza, era incorporata nella sfera pubblica attraverso un sistema articolato di garanzie normative [...] e un complesso d'istituti pubblici di tutela dei diritti sociali." (Revelli, 1997) Anche se i sistemi di protezione sociale europei differiscono in maniera sostanziale tra loro, il finanziamento dell'educazione e della sanità pubblica, il sistema pensionistico, misure di sostegno in caso di disoccupazione, statuti legali in difesa dei diritti dei lavoratori, aiuti per attività produttive socialmente utili e un numero di servizi sociali e forme di supporto per i cittadini più svantaggiati sono tratti comuni a ogni sistema di Welfare europeo.
Il secondo fenomeno, molto più recente, riguarda la globalizzazione dei
mercati. C'è un sostanziale consenso tra gli osservatori economici
nell'intendere il processo di globalizzazione di matrice neoliberale come
l'interconnessione delle singole economie nazionali in
un unico mercato mondiale. Grazie a un sapere tecnologico oggigiorno
trasferibile con estrema velocità, questo processo ha comportato una crescita
esponenziale del commercio internazionale, dell'integrazione dei mercati
finanziari, del flusso degli investimenti esteri
e imposto una sempre maggior flessibilità del mercato del lavoro.
Agli inizi di quest'ultima grande trasfigurazione capitalistica, per
conquistarne il consenso, venne assicurato ai cittadini europei che
un modello di sviluppo economico altamente tecnologizzato, flessibile e
globalizzato avrebbe portato maggiore libertà e benessere per
tutti. Che le cose non siano andate proprio come era stato pronosticato lo
dimostra la storia.
ECONOMIA, SOCIETÀ, SAPERE La rivoluzione informatica e tecnologica che ha investito le società europee è andata ben oltre il settore high-tech, scuotendo le fondamenta del sistema industriale e della struttura occupazionale fordista, ridefinendo le regole imprenditoriali e della competizione. Per quanto il sapere – e la sua diffusione – siano stati tra i motori principali dello sviluppo economico occidentale, oggi le industrie ottengono i loro vantaggi competitivi grazie all'abilità di utilizzare, processare e condividere potentissime tecnologie comunicative e informatiche a una velocità e su scala mai prima d'ora sperimentata. Il sapere, si potrebbe dire, è entrato a pieno diritto a far parte dei fattori della produzione unitamente a terra, lavoro e capitale. A partire dal Summit di Lisbona tenutosi nel 2000, la Commissione Europea ha inaugurato un modello di sviluppo socio-economico denominato Economia e Società della Conoscenza. Nelle intenzioni dei suoi sostenitori, esso rappresenta il contenitore all'interno del quale è possibile sincronizzare gli sforzi dell'UE nel rispondere alle sfide poste dalla nuova economia mantenendo il carattere inclusivo del Modello Sociale Europeo. L'obiettivo principale della Strategia di Lisbona per la prima decade del XXI secolo è quello di diventare 'la più dinamica e competitiva economia della conoscenza nel mondo, capace di combinare una crescita economica sostenibile con migliori posti di lavoro, coesione sociale e rispetto dell'ambiente'.
A dispetto di questa altisonante retorica, è sufficiente consultare i dati
più recenti forniti dalle principali organizzazioni internazionali (EuroSat,
ILO, OECD, solo per citare quelle di maggior influenza), per comprendere che la
promessa di una qualità migliore di vita
per i cittadini europei non si è realizzata, dimostrando quanto sia
lontano dalla realtà l'assunto che crescita economica e competitività
siano in grado di generare benessere e stabilità sociale. Al contrario,
nonostante giustizia sociale e sicurezza rappresentino la più importante
garanzia che deve essere offerta alla popolazione europea in
cambio del suo supporto a un'Europa economicamente competitiva,
politiche economiche orientate a privilegiare la flessibilità del mercato del
lavoro, la deregolamentazione e la privatizzazione del
Welfare
lasciano indietro vasti settori della società che lottano per
non soccombere al dinamismo delle contemporanee società della
conoscenza – in particolare, lavoratori precari, migranti, disabili, donne.
GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERALE Secondo l'ideologia neoliberale, i bisogni e le aspettative delle singole persone sono meglio soddisfatte all'interno di un meccanismo di mercato ben funzionante. Secondo i suoi sostenitori, il meccanismo di mercato sarebbe in grado di garantire un'incessante crescita economica i cui benefici ricadrebbero inevitabilmente sugli strati più deboli della società (il molto citato effetto trickle-down). Malauguratamente, quando si esamina la distribuzione della ricchezza e del reddito, i proclami entusiasti circa l'abilità del mercato di ridistribuire il prodotto sociale si fanno particolarmente disincantati. Gli schemi distributivi della globalizzazione neoliberale occorsi negli ultimi tre decenni dimostrano come, piuttosto che ridursi, il divario tra i poveri e i ricchi del mondo si è allargato. Dal 1980 si è inoltre evidenziato che l'ineguaglianza è diventata una caratteristica permanente non solo nei paesi sottosviluppati, ma anche in quelli le cui economie sono tra le più avanzate. La serietà della situazione europea emerge dall'esame della posizione relativa dei gruppi all'apice e alla base della piramide redistributiva, illustrata dalla così detta ratio S80/S20. Come sottolinea la ricercatrice di Eurosat Ann-Cathrine Guio, nel 2003 "il 20 per cento più ricco della popolazione dispone di un reddito 4,6 volte maggiore di quello di cui dispone il 20 per cento più povero". Questo significa che nel 2003 circa 73 milioni di cittadini europei, pari al 16 per cento della popolazione dell'Europa a 17, erano a rischio di povertà. Con l'allargamento dell'Unione, la situazione è andata peggiorando. Questa iniqua distribuzione del reddito può essere in larga misura ricondotta a un sempre più ridotto accesso al mercato del lavoro per larghe fasce della popolazione. Oggi il messaggio lanciato a milioni di lavoratori è: per un mercato del lavoro altamente tecnologizzato, lavoratori che abbiano qualifiche medio-basse sono diventati semplicemente ridondanti. Molti analisti del mercato del lavoro hanno prodotto una vasta letteratura che sottolinea come il fenomeno della disoccupazione sia diventato uno strumento quotidiano per ottenere la prosperità economica. Non è più l'azienda in crisi quella che licenzia: piuttosto, proprio quella la cui performance è economicamente positiva. In un contesto in cui gli agenti economici cercano di massimizzare la propria competitività, la disoccupazione non può più essere vista come l'effetto di una situazione di crisi, bensì come una strategia finalizzata a incrementare la competitività nel mercato globale. Sebbene si possa considerare errata la tesi sostenuta a più riprese della fine del lavoro, è pur vero che l'introduzione di tecnologie labour-saving e macchinari elettronici sta riducendo a una velocità impressionante le opportunità di coloro che riescono a rimanere all'interno del mercato del lavoro: per la maggior parte dei lavoratori con qualifiche medio-basse, l'idea di un lavoro a tempo pieno e di durata indeterminata sta diventando un'opzione sempre meno probabile. Come nota il Rapporto sullo Stato sociale 2008, presentato nel luglio di quest'anno dal Criss, gli orientamenti europei che tendono a promuovere forme più o meno sofisticate di flexsicurity (modello che cerca di compensare l'accrescimento dei rischi per i lavoratori con ammortizzatori sociali e politiche attive del lavoro) si sono tradotti in un aumento della precarietà. Quest'ultima obbliga i lavoratori ad accettare salari così bassi da non riuscire a superare la soglia di povertà (relativa) e a lavorare per un numero di ore inferiore alle proprie necessità (è il caso, ad esempio, di chi è costretto a lavorare part-time e a svolgere mansioni che sminuiscono le sue capacità fisiche o intellettuali). Quali riforme dello Stato sociale dovrebbero essere introdotte nell'agenda politica dei nostri governanti per rendere la vita di ogni persona degna di essere vissuta? Di fronte all'insicurezza e all'incertezza venutesi a creare in questa fase di transizione dal modello fordista a una società della conoscenza basata su un paradigma di accumulazione flessibile, i neoliberali propugnano un'idea di Welfare ridotto al minimo. A seguito dello smantellamento del sistema macroeconomico keynesiano, le politiche sociali sono state inesorabilmente subordinate alle necessità di un mercato del lavoro sempre più flessibile e della competitività globale. Nata dall'idea keynesiana che il mercato non potesse essere il solo meccanismo regolatorio della società, la missione del sistema di Welfare era quella di redistribuire in maniera più equa possibile i frutti della crescita economica. Fino agli anni ottanta, l'attività del governo era caratterizzata dall'estensione di un sistema di Welfare che comprendeva pensioni, agevolazioni per la casa, salute, educazione, ammortizzatori in caso di disoccupazione, ecc. un ventaglio di politiche finanziate dalla tassazione generale. Aiuti economici e servizi sociali per le fasce più deboli erano considerati parte integrante del pacchetto di politiche sociali atto a mantenere un sufficiente livello di coesione sociale. Dalla metà degli anni settanta, il clima politico subì una trasformazione drammatica. Il principio ispiratore del formidabile attacco neoliberale al sistema di protezione sociale è che lo Stato del benessere, pensato e sviluppato nell'immediato dopoguerra, quando il trend economico era in aumento costante e il tasso di disoccupazione estremamente basso, è diventato troppo oneroso e quindi non più competitivo. Oltre alla critica dell'insostenibilità economica dello Stato del benessere keynesiano, un altro argomento utilizzato a giustificazione dello smantellamento del modello di Welfare europeo deriva direttamente dalle tesi avanzate dagli studiosi di "public choice". Questi teorici concepiscono i servizi pubblici come una parte integrante del mercato. In primo luogo, le loro analisi cercano di provare che la burocrazia statale è il peggiore dei mali e il pubblico è incontestabilmente meno efficiente del privato. Questa visione negativa dello Stato è stata assunta dai governanti europei senza esitazione, diffondendo l'impressione che lo Stato sia un'istituzione inefficiente, che i suoi funzionari agiscano sempre per il proprio interesse particolare e che l'intervento dello Stato debba limitarsi a politiche che favoriscano le transazioni di mercato (ad esempio, investimenti in educazione), un clima competitivo per lo svolgimento dell'attività economica e un assetto macroeconomico stabile. Sta emergendo ciò che il sociologo inglese Bob Jessop, nell'intervista qui acclusa, descrive come "un nuovo regime che può essere denominato sistema di Workfare Shumpeteriano. I suoi obiettivi economici e sociali [...] possono essere sintetizzati come il tentativo di promuovere prodotti, processi organizzativi e innovazioni di mercato finalizzate al rafforzamento strutturale della competizione in un'economia aperta principalmente attraverso l'intervento sul versante dell'offerta, subordinando le politiche sociali alle necessità di un mercato del lavoro sempre più flessibile e della competitività strutturale". A partire dalla fine degli anni ottanta, notando l'aumento del numero dei fruitori di benefici, in Europa è stato introdotto un principio secondo il quale i disoccupati devono accettare qualsiasi tipo di lavoro per poter usufruire pienamente delle misure di protezione sociale. In caso contrario, l'accesso ai benefici va via via riducendosi, garantendo soltanto quelli di primaria necessità – che di solito sono di scarsa qualità. Inoltre, i beneficiari delle misure di protezione sociale sono soggetti a un vincolo temporale. Il modello neoliberista di workfare è inoltre compatibile (prova ne è la sua introduzione negli ultimi due decenni) con un varietà di politiche che includono la cessione di industrie nazionalizzate e il passaggio ai privati tramite contratti ad hoc della gestione del Welfare. Oltre a sostituire lo Stato nella gestione del Welfare, un altro aspetto degno di nota rispetto all'intrusione della logica del mercato nella gestione del benessere sociale è la privatizzazione del sistema pensionistico. Il quadro fin qui delineato ci suggerisce che l'Europa è un malato piuttosto grave. A dispetto dell'euforia neoliberale, in molti fanno notare come le riforme da essi promosse allontanino i sistemi di protezione sociale europei da quell'idea di bene comune intesa come il buon funzionamento della società, che dovrebbe costituirne la sponda di approdo. Non solo una razionalità economica basata su competitività, profitto e accumulazione si è dimostrata in palese conflitto con obiettivi quali la coesione sociale, la solidarietà, la salvaguardia ambientale, ma soprattutto ha ridotto strati sempre più vasti della cittadinanza europea in una moltitudine senza alcun potere, o quasi. Per molto tempo i 'dottori della società', siano essi economisti o politici, si sono concentrati sui sintomi piuttosto che sulle cause del malessere sociale che si insinua sempre più profondamente nella società europea. Le riforme socio-economiche introdotte dai neoliberali, lungi dall'essere ispirate dall'intenzione di andare alla radice dei mali che determinano l'insicurezza, la solitudine, l'esclusione, la povertà in cui ognuno di noi si imbatte quotidianamente per le strade delle nostre città, rafforzano le cause del malessere generale. Tutto ciò è intollerabile. I sintomi non sono altro che il segnale che qualcosa non funziona correttamente nel corpo del paziente. Per guarire pienamente, non ci si può limitare ad alleviare i sintomi senza andare alla radice di ciò che li provoca. In caso di mal di testa, non basta prendere un'aspirina, soprattutto se si ha un tumore che preme sulla massa cranica. L'aspirina può lenire il dolore, dando un sollievo di breve durata, ma alla lunga non ci sarà scampo. Per recuperare la salute occorre rimuovere il male alla radice, non esiste altra soluzione. Sulla base di questa riflessione, la tesi che emerge con forza dalle interviste raccolte in questo volume è che per arginare la dilagante vittoria dell'ideologia neoliberale sia necessario trovare il coraggio e la capacità di proporre una forma di società radicalmente diversa da quella che vede il mercato come unica stella polare da seguire nel complesso passaggio da un paradigma rigido ad uno flessibile. Trovare risposte a domande come "Che cos'è una società giusta? E ancora possibile ragionare su come configurare un sistema di cooperazione sociale inclusivo e rispettoso dei bisogni delle persone? Quali politiche strutturali potrebbero facilitare il ritorno di una robusta società civile, laica e impegnata, capace di giocare un ruolo primario nei processi economici?" diventa un imperativo imprescindibile. Partendo dall'idea che per avviare un confronto di tale complessità fosse necessario un approccio interdisciplinare, queste e altre domande sono state rivolte a economisti, sociologi, filosofi, ecologisti con i quali chi scrive ha avuto l'opportunità di collaborare, o incontrare durante gli anni trascorsi all'estero. La speranza è che le loro risposte possano offrire spunti di riflessione concreti a tutti coloro che sono attivamente impegnati a favore di un progetto socialista di rinascita della società che riconosca nell'uomo, nella sua emancipazione e piena realizzazione il suo fine ultimo. [..] Ambleside, Luglio 2008 | << | < | > | >> |Pagina 37D: Lei ha più volte ribadito che la filosofia politica si è dimostrata una disciplina inadeguata alla sfida della «perdita dei confini geografici dell'agire umano» perché non riesce a concettualizzare un ordine sociale nel quale trovino simultaneamente applicazione il principio dello scambio di equivalenti, di redistribuzione e di reciprocità. Non crede che l'attuazione di questi tre principi regolatori richieda un ripensamento radicale del contratto sociale?
R: La risposta non può che essere un sì deciso. La tradizione
liberale e quella solidarista-comunitaria non sono sufficientemente
attrezzate ad affrontare i problemi che caratterizzano le società
post-industriali. Pensiamo ad esempio al conflitto tra identità. Le varie
teorie della giustizia ci vengono in aiuto fin tanto che il problema
riguarda il possesso o l'accesso a beni e risorse — esempi classici sono
la lotta all'ineguaglianza, all'esclusione sociale, all'iniqua redistribuzione
del reddito. Quando però subentra il problema dell'affermazione dell'identità di
tipo etnico, religioso, sessuale o culturale, esse
non ci sono più di alcun aiuto. Inoltre, è indiscutibile che in Europa
il baricentro sociale vada spostandosi sul lato del consumatore.
Questo mutamento ha permesso il sorgere di una società che definirei
low-cost
(a basso prezzo) caratterizzata dalla presenza di imprese
che riescono ad abbattere i costi di produzione e quindi a diminuire i prezzi
dei beni e servizi che offrono, riducendo i salari (reali) e
le tutele sindacali. Un mutamento che è alla radice di un ulteriore
conflitto (interpersonale), perché una società
low-cost
tende a produrre un
Welfare low-cost.
Per risolvere questi problemi, propongo di dilatare l'orizzonte, configurando un
nuovo contratto sociale che contempli un modo di organizzare l'attività
economica che, accanto ai principi dello scambio di equivalenti e della
redistribuzione, faccia spazio al principio di reciprocità. Capace cioè di
articolare il meccanismo economico in modo tale da far diventare la
reciprocità parte integrante del discorso economico. In altre parole, la
reciprocità non deve più essere una categoria relegata al volontariato di
terzo settore.
D: È possibile, oggi, individuare principi universali sui quali costruire un'idea di giustizia (sociale) condivisa?
R: La modernità, che si è soliti far nascere con la Rivoluzione
Francese, è stata caratterizzata dall'idea che esistessero valori universali
indipendenti dalle connotazioni storiche e dai luoghi. Questa è
stata la grande intuizione dell'Illuminismo francese, scozzese e italiano –
milanese e napoletano in particolare. Le matrici culturali non
occidentali, però, hanno messo in dubbio che i valori e i diritti umani
sui quali si fonda la nostra civiltà fossero universalmente condivisibili,
spesso bollando di occidentalismo quell'impostazione. Preso atto del
fatto che esistono universi morali estremamente eterogenei, i paesi
occidentali hanno provato a stabilire regole procedurali che permettessero la
convivenza pacifica. Questa soluzione, che fino ad anni
recentissimi ha sortito l'effetto desiderato, al momento è in crisi.
Infatti, essa non fa che nascondere la polvere sotto il tappeto: o i valori
fondamentali esistono o non esistono, ma se esistono non possiamo
relativizzarli in base alle culture o alle identità specifiche perché così
facendo cadiamo in una contraddizione pragmatica. Come si può
uscire da questa difficoltà? La strategia che suggerisco è che i partecipanti al
dialogo interculturale si impegnino a ricavare dai principi fondamentali, che
ognuno è libero di scegliere, sia i criteri di giudizio sia
le direttive d'azione. Se i risultati che discendono dalle direttive
d'azione, che a loro volta discendono dai criteri di giudizio, sono
auto-contradditori o producono effetti perversi, allora i partecipanti al
dialogo devono ammettere che nel loro sistema di principi morali fondamentali
c'è qualcosa da correggere.
D. Ritiene che l'attuale architettura istituzionale rappresentata da agenzie internazionali quali la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l'Organizzazione Mondiale per il Commercio siano congeniali a un modello di sviluppo socialmente sotenibile?
R: La minaccia più grande alla sostenibilità dello sviluppo deriva oggi
dalla povertà. Proposte che ignorano questo aspetto sono allarmanti. Alludo in
particolare alle regole emanate dal WTO che, quando parla di sostenibilità,
dimentica completamente la questione della povertà. Non ci si può occupare
soltanto dei così detti
gain from trade.
Ciò che i rappresentanti del WTO dimenticano è che ci sono anche i
pains from trade.
È vero che la liberalizzazione degli scambi internazionali arreca benefici, ma
ciò di cui la teoria del commercio intenzionale non si occupa è la distribuzione
dei
pains from trade
tra i paesi e gruppi sociali all'interno di una stessa nazione.
Quello del WTO è un modo assai miope e contraddittorio di interpretare il
proprio mandato.
D: La discussione sui modelli di Welfare degli Stati europei è oggi al centro di un intenso dibattito politico. Come giudica quello scandinavo? Pensa che sia possibile esportarlo altrove?
R: Non condivido l'idea di esportare il modello nordico. È fuor
di dubbio che esso presenti dei vantaggi, ma nonostante la sua grande
efficienza lo considero pericoloso in una prospettiva di lungo termine.
Alla radice di questi modelli, soprattutto di quello danese, c'è sempre
l'idea che il lavoro non sia fondativo della persona umana. Il lavoro
solo un'occasione di procacciamento di potere d'acquisto. A livello
macro, il sistema ha come obiettivo l'aumento dell'attività produttiva e i
profitti. Qualora il mondo della produzione abbia, per una ragione
o un'altra, interesse a lasciare a casa parte della popolazione attiva, lo
Stato per quattro anni si fa garante della sopravvivenza di quelle persone.
L'idea che un lavoratore possa stare a casa per quattro anni e
ricevere benefici monetari mi fa rabbrividire, perché implicitamente ci
dice che il lavoro non ha valore di per sé. Rileggendo alcuni testi della
scuola economica francescana risalenti alla fine del Trecento ho trovato
un passaggio rivelatore: «L'elemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere.
Perché vivere è produrre, e l'elemosina non aiuta a produrre». Ora il modello
danese, anche se in forma estremamente civilizzata, si basa proprio
sull'elemosina. Il vero
Welfare
non è quello che garantisce a tutti la possibilità di sopravvivere, ma che offre
a tutti i cittadini la possibilità di produrre. Se non si riesce a raggiungere
tale scopo si diminuisce l'autostima delle persone. Il modello di
Welfare
dei paesi nordici non promuove la felicità pubblica, bensì l'utilità
sociale. La mia scelta invece è a favore della felicità perché le persone
vivono per essere felici, come sosteneva già Aristotele.
D: Molti economisti sostengono che uno dei maggiori problemi dello sviluppo economico europeo — italiano in particolare — sia rappresentato dalla crescita della quota del prodotto interno che assume la forma di reddito. A suo parere quali forme dovrebbe assumere la fiscalità e quali livelli di tassazione potrebbero essere compatibili con un efficiente sistema di Welfare? R: Il dramma principale dell'economia europea è l'eccessiva posizione della rendita rispetto all'area del profitto. La rendita è sempre parassitaria, una rendita produttiva non esiste. Anche quando non distrugge il reddito, essa impedisce la creazione di nuova ricchezza. Quando in un'economia le posizioni di rendita superano una certa soglia, diciamo tra il 15 e il 20% del prodotto interno lordo, il suo destino è segnato, perché si riduce il tasso di imprenditorialità. L'Europa di oggi si ritrova proprio in questa scomoda situazione. Il problema è talmente serio che la leva fiscale è diventata uno strumento insufficiente. Bisogna puntare a modificare l'assetto istituzionale delle regole del gioco economico, ovvero il funzionamento stesso del mercato dei capitali. Piuttosto che tassare la rendita finanziaria, si dovrebbe evitare che essa superi livelli di indecenza, come accade sempre più spesso. Ricordiamo che se per creare gettito lo Stato tassa la rendita, implicitamente la legittima. | << | < | > | >> |Pagina 45D: Prof. McMurtry, lei ritiene che in un momento storico in cui l'accumulazione del capitale si fonda sempre più sulla produzione immateriale le due concezioni del valore che stanno alla base della teoria economica – quella del valore-lavoro e quella che si basa sull'idea di scarsità-utilità – abbiano ancora rilevanza?
R: La domanda va al cuore del problema. Nessuna delle due teorie è adeguata
a descrivere l'attuale paradigma accumulativo. La teoria
del valore-lavoro era progressista per il suo tempo, in quanto riconosceva i
lavoratori salariati come la fonte primaria del valore di scambio,
un'implicazione della teoria classica che Marx rese rivoluzionaria. La
teoria neo-classica, invece, ha spazzato via la riflessione classica definendo
il valore di tutto (e di tutti) in termini di volontà (possibilità) di pagare un
prezzo (la cosiddetta teoria marginale del valore). In realtà,
entrambe tralasciano elementi fondamentali quali l'ecosistema e il lavoro
volontario non remunerato (ad esempio, le attività casalinghe femminili), senza
i quali nessuna società potrebbe esistere e riprodursi. Nel
lungo periodo, questa svista ha fatto sì che l'atmosfera, l'aria che respiriamo,
il ciclo delle stagioni, l'acqua potabile, la riserva globale di idrocarburi
diventassero sempre più inquinati e sperperati da un sistema
economico totalmente indifferente ai bisogni del pianeta e dei suoi abitanti.
Quello che è allarmante è che i leader politici e i loro analisti economici
spacciano questo scempio sociale ed ecologico come sviluppo
economico per il solo fatto che si vendono sempre più merci e il PIL
continua a crescere. Il valore economico, per come lo intendo io, non
crea né viene creato dagli input del lavoro, né può essere calcolato attraverso
il meccanismo dei prezzi di mercato. Soltanto una regolazione
della distribuzione di beni e risorse basata su precisi standard ecologici
e sociali può assicurare una riproduzione naturale del capitale.
D: In che direzione dovrebbero dirigere i loro sforzi gli economisti per arginare questa vistosa anomalia? R: L'economia è, o meglio dovrebbe essere, la scienza che si occupa di evitare gli sprechi di risorse necessarie per la riproduzione della specie umana e dell'ambiente naturale. Purtroppo, però, è stata trasfigurata a tal punto che oggi ciò che importa sono solamente i costi che il capitale deve affrontare e i relativi margini di profitto, mentre i costi sociali ed ecologici vengono regolarmente esternalizzati. Questo modo di ragionare ha gettato le basi per gli effetti indesiderati cui facevo accenno poco fa. La questione di fondo riguarda ciò che occorre economizzare nel lungo periodo. Detto questo, la risposta alla sua domanda è relativamente semplice: si deve ripensare l'attività economica a partire dai bisogni degli esseri umani e dell'ecosistema. Ogni attività economica dovrebbe produrre esclusivamente beni e servizi che permettano la riproduzione della specie umana in armonia con l'ambiente che la circonda. Sfortunatamente, al momento, nessun modello economico è in grado di prendere seriamente in considerazione questa cornice teorica. Invece di limitarsi a criticare l'attuale modo di organizzare la vita economica, credo sia giunto il momento di identificare un nuovo paradigma, problema al quale ho dedicato gli ultimi anni di ricerca, culminati in quelli che ho recentemente definito come teoremi primari della ragione economica. | << | < | > | >> |Pagina 59D: Nella sua conversazione con Lucio Magri "Un compromesso serio" (la rivista del Manifesto, settembre 2004) lei conclude con la seguente affermazione "Ho lasciato intenzionalmente fuori il tema di un ripensamento dello Stato sociale non perché non sia cruciale, ma perché mi pare non sia più possibile affrontarlo per accenni, occuperebbe troppo spazio e troppo lavoro e, nella congiuntura politica creerebbe troppi fraintendimenti". È possibile oggi affrontare quel tema senza fraintendimenti?
R: Credo che oggi si possa, anzi si debba, affrontare quel tema.
"Senza fraintendimenti" vuole dire che lo si deve affrontare senza preconcetti
contro lo Stato sociale, senza i diffusi e indimostrati preconcetti circa la sua
desiderabilità e la sua sostenibilità. Circa la sua desiderabilità, è noto che
molti — a meno che non siano evasori fiscali, cioè
ladri di servizi sociali — non desiderano affatto meno imposte, se ciò
dovesse comportare meno servizi sociali. Circa la sua sostenibilità,
basta ricordare che un ridimensionamento dello Stato sociale non
implicherebbe una riduzione della spesa che la collettività dovrebbe
sostenere per procurarsi le prestazioni corrispondenti. Al contrario, la
spesa sarebbe maggiore, se i servizi venissero forniti da privati anziché
dallo Stato. Vedi l'esempio degli Stati Uniti, dove però molti ne sono
esclusi. Lo Stato sociale è più efficiente del mercato nella fornitura dei
servizi fondamentali, e soprattutto assicura servizi che i privati non
troverebbero conveniente fornire per la loro scarsa redditività di breve
periodo, o che sarebbero inaccessibili alla maggior parte dei cittadini.
D: Nell'era postfordista, la questione del rapporto Stato-mercato assume una rilevanza fondamentale. Partendo dal presupposto che il compito fondamentale delle istituzioni politiche sia quello di garantire la coesione e l'eguaglianza sociale, lei ritiene che davanti alle sfide poste dalla globalizzazione dell'economia i sistemi di Welfare oggi in vigore siano in grado di ottenere questo risultato?
R: La tesi prevalente è che lo Stato sociale determinerebbe perdita di
competitività, riduzione delle esportazioni nette, riduzione
degli investimenti diretti, dunque dell'occupazione e così via. Non
c'è nessun argomento teorico solido e non c'è nessuna evidenza
empirica a favore di questa tesi. È ovvio che in un'economia aperta
al commercio internazionale la competitività è un problema. Però
una riduzione del costo del lavoro nazionale non è condizione né
necessaria né sufficiente per un aumento della competitività del settore
privato. Sarebbe impossibile ridurre i costi del lavoro italiano al
livello dei paesi meno sviluppati, e non sarebbe accettabile ridurre a
quel livello i salari per via indiretta, tagliando i servizi sociali, rendendo
precario il posto di lavoro, riducendo la spesa pubblica per la
previdenza, per l'istruzione, per la ricerca, per la cura di quanti per
sfortuna o per età sono deboli e perciò dipendono da altri. Si può
caricare di ciò la famiglia, istituzione di cui si parla troppo? O a ciò
non dovrebbe provvedere lo Stato, istituzione di cui si parla troppo
poco, e semmai male? I bassi salari non sono la risposta alla disoccupazione. È
la disoccupazione che costringe ad accettare lavori precari e poco remunerati.
Gli imprenditori che pagano poco la forza
lavoro dirigono imprese inefficienti o marginali, e cercano di compensare in
questo modo la loro inefficienza. Sono loro, che dovrebbero essere licenziati.
Se si paga meglio un lavoratore, si rende più
efficiente il suo datore di lavoro, forzandolo a scartare impianti e
metodi obsoleti e affrettando così l'uscita dal mercato degli imprenditori meno
capaci. Basta leggere un po' di storia economica. Se poi
si considera che il mondo è un sistema chiuso, si capisce che una
riduzione universale del costo del lavoro si tradurrebbe in una crisi
generale di sovrapproduzione. La competitività di un sistema economico non
dipende dal costo del lavoro, dipende dalla capacità, o
incapacità, degli imprenditori di fare il loro mestiere. Guarda caso,
la delocalizzazione delle produzioni nazionali, in paesi con un minor
costo del lavoro, non si traduce in una diminuzione del prezzo delle
merci, bensì in un aumento dei profitti. La presenza dello Stato nell'economia e
nella società è l'unica risposta possibile alle conseguenze economiche e sociali
della globalizzazione – a meno che non si preferisca un mondo di imprese
multinazionali senza legge a un mondo di stati nazionali civili.
D: Nel suo libro "L'età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali", lei afferma che la disoccupazione non è un fenomeno naturale. È invece un fenomeno normale nei sistemi capitalistici, nei quali il lavoro è quello che decidono di dare i capitalisti, e nei quali i frutti del cambiamento tecnico non sono distribuiti in maniera eguale. Per arginare questo fenomeno alcuni studiosi propongono l'introduzione di un reddito d'esistenza e la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Crede che questa sia soltanto un'utopia o ritiene che siano proposte sulle quali sia possibile discutere?
R: Sul reddito di esistenza è in corso un ampio e fecondo dibattito, mentre
non mi pare all'ordine del giorno la riduzione dell'orario di lavoro a parità di
salario. In entrambi i casi non si tratta di
un'utopia, che peraltro è cosa buona. Tuttavia io credo che al reddito di
esistenza siano preferibili i servizi sociali, che non costringono
a passare per il mercato. Sul mercato non si può comperare la sicurezza, si
comperano soltanto merci.
|