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| << | < | > | >> |Pagina 9Non misi piede fuori di casa per tre settimane, avevo paura di perdere la chiamata. Vietai a tutti quelli che mi conoscono di cercarmi. Niente, dissi, è tanto importante da non poter essere rimandato a dopo la telefonata. Quando l'apparecchio squillò per la prima volta, al mattino presto, ero sotto la doccia. Saltai fuori senza scostare la tenda, per un pelo non scivolai e arrivai al telefono prima che scattasse la segreteria. Capii soltanto sondaggio e buttai giù. Nudo e gocciolante mi accasciai sul divano, tremando per l'agitazione. Da allora rinunciai alla doccia mattutina. Chiesi al vicino di procurarmi un cordless. Alle quattro del mattino, orario in cui la probabilità di ricevere la chiamata era pressoché nulla, staccai il vecchio telefono e collegai il nuovo. Poi legai un cordino al ricevitore e me l'appesi al collo. Così, pensai, niente può andare storto. Mi facevo portare i pasti dal servizio a domicilio e, con la cornetta al collo, potevo aprire tranquillamente la porta al fattorino. Per il resto me ne stavo seduto in casa ad aspettare. Tenevo il volume del televisore al minimo. Ero troppo agitato per leggere. Cominciai a fumare. Tutte le notti alle quattro controllavo che la linea runzionasse premendo brevemente il tasto di risposta, e riuscivo a riaddormentarmi solo dopo essermi accertato che desse libero. Continuavo a ripensare alle storie terrificanti che giravano al corso sulle poche persone non risultate reperibili nel periodo di chiamata: un atto di irresponsabilità sconsiderata verso sé stessi e verso la propria vita. Si diceva che uno fosse addirittura andato in vacanza in tempo di convocazioni, che un altro avesse risposto, ma erano le dieci di sera del sabato e lui, evidentemente non più nel pieno delle proprie facoltà, aveva detto adesso no, siamo in pieno weekend, ho altro da fare, vogliate cortesemente richiamare lunedì, il corso al completo era scoppiato a ridere quando il coordinatore l'aveva raccontato. Provavo a immaginarmi cosa sarebbe accaduto sè avessi perso quella telefonata: una vita sotto i ponti, le notti in un centro di accoglienza, disperazione, terrore, gelo. Ma impugnare il telefono che mi ballonzolava sul petto mi tranquillizzava, non potevo rimproverarmi niente, ero reperibile, costantemente, ventiquattr'ore su ventiquattro, eccetto quel secondo alle quattro del mattino. Col passare delle settimane mi lasciai andare, smisi di rasarmi, al mattino mi limitavo a gettarmi in faccia un po' di acqua fredda, mi vennero le occhiaie perché invece di dormire mi aggiravo per casa come un leone in gabbia. Quando, dopo tre settimane, finalmente il telefono squillò, mi prese un tale panico che non riuscii a reagire subito. Al secondo squillo la mano si bloccò impietrita sulla cornetta, mi ero reso conto che il cordino cui era appeso il ricevitore era troppo corto per permettermi di portarlo direttamente all'orecchio: fui costretto a sfilarmelo dal collo come una collana prima di premere il tasto, e il terzo squillo passò mentre mi ingarbugliavo. Poi però riuscii ad accostare il telefono all'orecchio e a sputar fuori con voce roca: pronto? Era mia madre. Restai basito. Disse qualcosa che nemmeno superò la soglia della mia coscienza. La interruppi dopo pochi secondi. Era forse impazzita? gridai. Come le veniva in mente di telefonarmi adesso, alle dieci e venti? Non sapeva che era un orario ad altissima probabilità di chiamata? Non sapeva che periodo delicato stavo attraversando? Schiacciai il tasto come per schiacciare lei. Erano passati venti secondi. E se il coordinatore aveva chiamato contemporaneamente a mia madre, proprio in quei venti secondi? Se trovando occupato aveva riattaccato e chiamato il candidato successivo dell'elenco? Mi maledissi per la mia lentezza. Mi rimproverai, avrei dovuto riattaccare subito, immediatamente, alle prime parole di mia madre, avrei dovuto riagganciare e liberare la linea senza neanche lasciarle dire sono io, e invece no, mi ero fatto trascinare in quell'assurda conversazione perdendo tempo prezioso. Ora però sapevo come comportarmi. Non mi sarei più fatto sorprendere, pensai, ma dovevo tranquillizzarmi, concentrarmi di più. Tagliai un cordino più lungo per semplificare la procedura di risposta. Da quel momento cominciai a meditare alcune ore al giorno, per poter accogliere la chiamata con la debita calma. Non appena possibile, tenevo già pronto il telefono nella mano destra per non lasciar passare inutili secondi dal primo squillo. Scrissi un cartello e lo misi sul tavolo della sala. Diceva: Non rispondere a nessuna chiamata diversa da quella. Che mi raggiunse il 20 agosto alle ore diciassette e ventiquattro. Stavo guardando la televisione e mantenni la calma. Ripetendo una sequenza provata e riprovata, impugnai la cornetta che avevo al collo, risposi, e quando sentii Sovrintendenza scolastica scivolai dal divano e caddi in ginocchio. | << | < | > | >> |Pagina 36Mi occorse tutto l'intervallo per trovare l'aula in cui mi aspettava la 10a D, Horst Höllinger compreso; per fortuna l'avevo intuito e mi ero messo a cercarla per tempo, tant'è che mi trovai davanti alla porta chiusa della stanza 203 senza un solo minuto di ritardo, aprii un attimo il libro, scorsi spasmodicamente la prima pagina, cercai di suddividere gli esercizi nelle varie tipologie e di capire a quale fase della lezione fosse adatto ciascuno di essi, poi richiusi il libro, serrai un attimo gli occhi, mi liberai dell'oppressione ai bronchi con un colpo di tosse, girai la maniglia ed entrai.
Quarantacinque minuti dopo ripresi il corridoio in direzione
della sala professori, sentivo il sudore appiccicato alle ascelle e avevo
il fiato corto, ma prevaleva il sollievo per avere superato la prima
ora. Ora mi toccava la 9a A, ero accuratamente preparato, e aspettavo la seconda
campanella con disinvoltura e sicurezza, quando
qualcuno mi si avvicinò. In un impeto d'entusiasmo esclamai ah,
ma io la conosco! Herr Linnemann, giusto? Giusto, rispose Linnemann, aspetti,
lei si chiama... Io: Kranich, inglese, tedesco. Giusto, disse Linnemann, allora
è lei. Diac un po', adesso lei non ha la 9a A?
Sì, risposi. Ascolti, proseguì Linnemann, aula 303, vero? Io: sì. Lui:
ecco, vede, la 303 è una delle due con il videoregistratore, e io vorrei
guardare un video con i miei dell'undicesima, è il primo giorno di
scuola, si figuri la voglia che hanno. Cosa dice, possiamo far cambio? di aula,
intendo. Ma certo, acconsentii, lei altrimenti che aula
avrebbe? Seminterrato, ST4, rispose Linnemann. Bene, confermai,
allora scendo con la mia classe. Grazie, fece Linnemann, e se ne andò com'era
venuto. Stavo per mettermi ad ascoltare due insegnanti
che chiacchieravano accanto a me, quando mi abbordò l'esperto tirocinante
göppinghiano Kracht. Che corpo docente splendido, non
trova? disse. Sì, risposi. Il capo d'istituto è fantastico, disse lui. Può
dirlo forte, risposi io. Atmosfera magnifica, disse lui. Davvero, risposi io.
Sapevo per caso dove fossero i proiettori? mi chiese. No, risposi, non ne ho
idea. Io invece sì, replicò lui. Nella mediateca in
cantina, la gestisce Heiner Stramm, è seduto laggiù. Ah sì? chiesi.
Ci vediamo, fece lui. Ci vediamo, risposi io. Poi suonò la seconda
campanella. Salii al terzo piano, entrai in classe, comunicai ai miei
alunni che dovevamo cambiare aula per la questione del videoregistratore.
Andiamo a vederci un film? esultarono i ragazzi. No, non
noi, spiegai, l'altra classe. Chiesi a uno studente se sapesse dov'era la
ST4, lui annuì e io lo invitai a farci strada. Nel frattempo sulle scale
era sceso il silenzio, erano tutti in aula, incrociammo soltanto l'undicesima di
Linnemann. Ci spariamo l'inizio di
Pulp Fiction,
gridarono i suoi alunni ai miei, veramente? risposero i secondi, veniamo
anche noi. No, dissi io, e spinsi la mandria giù nel seminterrato. Lì
dovetti costatare che la mia chiave C6 non entrava nella serratura
ST4, lessi la targhetta della ST4, aula di fisica, si apriva solo con la C5.
Pregai gli alunni di aspettarmi in silenzio e salii in segreteria. Alcuni
professori ciondolavano davanti al bancone, mi feci largo e chiesi la chiave C5
alla segretaria numero due. E quale sarebbe la chiave C5? chiese costei, ormai
aveva rinunciato a capirci qualcosa. Aula di fisica, risposi. No, la chiave
dell'aula di fisica non l'aveva, spiegò lei.
E allora come faccio a entrare nell'aula di fisica? chiesi. Ma, scusi,
che ci deve fare lei nell'aula di fisica? replicò lei. Io e Linnemann, risposi,
ci siamo scambiati le aule... E allora perché non chiedevo a
Linnemann? La guardai, era raggiante per il colpo di genio, annuii
e lasciai la segreteria, salii al terzo piano, bussai, sentii la sequenza
d'inizio di Pulp Fiction, risa di sottofondo, bussai più forte, nessuna
reazione, entrai nell'aula, buio totale, professor Linnemann, chiamai, dica,
gridò Linnemann, mi serve la sua chiave, urlai io, quale
chiave, fece lui, quella dell'aula di fisica, spiegai io, perché? perché
non riesco a entrare, ah già, fece lui, venga qui, qui dove? chiesi io,
ma qui! esclamò lui dall'ultima fila. Avanzai a tastoni nell'oscurità,
raggiunsi Linnemann, presi la chiave, feci dietro front e avevo già
raggiunto la porta quando Linnemann aggiunse: ma me la deve riportare, Kranich.
Restai paralizzato. Quando? chiesi. Subito, appena ha aperto da basso, ha
sentito cos'ha detto il capo, non è che poi
alla fine l'addetto segreto alla sicurezza è proprio lei. Non si preoccupi,
risposi, gliela riporto. Arrivai di sotto un tantino sudato, girai
la chiave nella serratura e constatai che la porta non era affatto chiusa a
chiave, perché l'aula era già occupata.
Era il professor Bruns con una classe del triennio intermedio. E lei che ci fa qui? gli sfuggì. Avevo scambiato l'aula con Linnemann, gli spiegai, e in base all'orario Linneman, almeno così mi aveva detto, aveva lezione lì, proprio nella ST4, e quindi l'aula ST4, essendo Linnemann di sopra al terzo piano, avrebbe dovuto essere vuota. Sì, era vero, si giustificò Herr Bruns, ma era scappato dall'aula a pian terreno perché il chiasso dei muratori nell'atrio adiacente era diventato insopportabile. Se lo desideravo, disse, sarebbe tornato nella PT3. No no, risposi, resti qui, è troppo complicato, ci vado io. Quindi richiusi la porta, dissi agli alunni di andare nella PT3, sarei arrivato subito, dovevo assentarmi ancora un attimo, e uno degli studenti mi chiese se potesse fumare mentre tentavo di trovare l'aula giusta. Ignorai la domanda, per contro mi lanciai su per le scale, raggiunsi il terzo piano, aprii la porta e chiamai Linnemann. Sì? La sua chiave, gridai, e mi feci avanti nell'oscurità, già più spedito. Grazie, disse Linnemann. Ridiscesi al piano terra, dove trovai i miei allievi in attesa davanti alla PT3 ancora chiusa a chiave. Aprii, entrarono, e proprio mentre stavo per chiudermi la porta alle spalle partì l'ululato di una sirena. Allarme antincendio, commentò uno degli studenti con uno sbadiglio passandomi davanti per uscire di nuovo. Lo fanno tutti gli anni il primo giorno di scuola, aggiunse il secondo. Al terzo chiesi cosa avrei dovuto fare. Chiudere le finestre e salvare il registro, disse, il resto non conta. | << | < | > | >> |Pagina 65Mancavano ancora venti minuti al raduno collettivo per l'immancabile foto di gruppo d'inizio anno davanti all'ingresso ovest, che a quell'ora offriva l'esposizione più favorevole. E tuttavia non riuscii a dare un'occhiata alle fotocopie, perché accanto a me si sedette una professoressa tutta vestita di grigio, sui cinquantacinque, dai movimenti a scatti, severi. Mi porse la mano e si presentò, Kniemann, storia, latino, greco ed etica. Anche etica? chiesi io. Anche etica, confermò. Risposi: Kr... Lo sapeva, mi interruppe lei, Kranich, inglese, tedesco, studiava sempre i dossier dei nuovi arrivati, ancor prima che mettessero piede a scuola. Bisognava sapere tutto, non bisognava mai farsi trovare impreparati davanti alle situazioni, a maggior ragione nel nostro mestiere. Per gli alunni noi incarnavamo la fonte del sapere. Dovevano scattare sull'attenti con sacro timore, gli alunni, al cospetto dell'autorità dell'istruzione, della superiorità intellettuale dell'insegnante. Poi si guardò attorno in tutte le direzioni e, avvicinandosi un pochino, bisbigliò: mi interroghi, Herr Kranich. Cosa, scusi? domandai io. Mi chieda qualcosa, la prego, qualcosa di storico, qualsiasi cosa, mi interroghi, su Kranich, forza. Mi ci vollero un paio di secondi per riordinare le idee, poi balbettai va be', d'accordo, come vuole: a quando risale la costruzione, cioè, voglio dire, la fondazione di Roma? Ma no, esclamo la Kniemann, Kranich, si concentri, intendo domande, domande vere, domande difficili, domande cui può rispondere solo chi sa tutto senza eccezioni, forza, si sbrighi, non abbiamo molto tempo. Ci pensai febbrilmente e le chiesi chi era stato il primo Ministro degli Esteri della Repubblica federale tedesca. Non ci siamo, disse, ed estrasse dalla cartella un manuale di storia del triennio. Forza, Kranich, lo sfogli, prenda una pagina a caso e mi interroghi. Aprii il libro e le chiesi quant'era lunga la linea Sigfrido. Sì Kranich, rispose lei, finalmente sorridendo, quattrocento chilometri, chiuse gli occhi, circa quattrocento chilometri, forse addirittura più lunga, più propriamente detta Vallo occidentale, proseguì, costruita fra il maggio del '38 e l'agosto del '39, Si estendeva da Aquisgrana a Basilea con circa quindicimila bunker. Ancora, Kranich, chieda ancora, non si fermi. La interrogai sul concordato di Worms. Bravo, mi incoraggiò la Kniemann, 23 settembre 1122, stipulato fra Enrico V e Callisto II. Mi parli di Giuseppe Flavio. Superficiale, Kranich, più a fondo Kranich, più a fondo. La interrogai per circa cinque minuti, poi cominciai a inventarmi le domande, a quanto pareva la Kniemann sapeva il numero di scarpe di Napoleone, comunque non potevo verificare, il colore di capelli del re Sole (sotto la parrucca), la taglia di Lenin e Federico II, sapeva quanti strumenti suonava Ludwig Erhard e a che ora era stata composta La Marsigliese. Impallidì solo quando le chiesi quante diottrie mancassero a Franz-Josef Strauß. Mi tolse il libro di mano, con un certo risentimento, mi parve, si alzò e andò al suo posto. Non riuscii a vedere cosa fece dopo perché in quel preciso istante una professoressa piuttosto giovane, piccola e occhialuta, si precipitò verso di me. Ero fuori di testa? gridò al sottoscritto. Perché, cosa c'è? chiesi confuso. Come potevo essere così sfacciato da indossare una camicia nera? Non capivo cosa intendesse. Hilde Bräunle, tedesco, francese. Kranich, risposi... Era la coordinatrice della foto di gruppo. Non avevo ricevuto la sua lettera? Che lettera? mi informai. La lettera che metteva nero su bianco come avrei dovuto vestirmi quel martedì per venire a scuola. No, risposi, non ho ricevuto nessuna lettera. Di male in peggio, commentò, e mi passò un elenco. Qui, disse, ecco, più chiaro di così: Kranich, maglia chiara. Dissi che non capivo come... Il fotografo, mi spiegò lei, può scattare la foto soltanto se gli insegnanti sono disposti a scacchiera, in maglia chiara e maglia scura alternate. Per il contrasto, ovvio. Da anni lei, Hilde Bräunle, si occupava di comunicare per lettera ai colleghi come avrebbero dovuto vestirsi il giorno della fotografia, un'opera di coordinamento tutt'altro che semplice nella quale occorreva tenere conto di svariati fattori: alcuni insegnanti si rifiutavano di indossare il nero se non ai funerali, altri non avevano un solo capo chiaro nel guardaroba, inoltre bisognava considerare l'altezza di ognuno, ossia il posto che ciascun elemento poteva occupare nella rispettiva fila senza coprire un altro più basso. Ci stava ore, su quel piano. Per non dire della caterva di lettere da spedire. E poi arrivava un menefreghista come me a mandarle all'aria tutto il lavoro. Era impensabile che il fotografo scattasse con tre insegnanti vicini vestiti di scuro. Annuii. Come possiamo rimediare? chiesi. Frau Bräunle si sedette e si calmò. Dunque, disse, vedo tre possibilità. Quali? chiesi. Potevo farmi fotografare a torso nudo. No, replicai immediatamente, è fuori discussione. O, proseguì la Bräunle, rinunciavo alla foto. E la terza possibilità? mi informai. Magari un altro docente poteva avere con sé una maglia chiara da prestarmi. Bene, dissi, sento un po' in giro. La campanella stava per suonare, era l'una, mi alzai e chiesi a tutti i colleghi che incontravo se avessero una maglia chiara, nessuno poté aiutarmi, solo Achim Renner disse di avere un'idea. Si allontanò e tornò dalla palestra appena in tempo, con una canottiera gialla che indossai correndo verso l'ingresso ovest, dove mi misi ad aspettare ansante lo scatto del fotografi, insieme agli altri: in quel momento tutta la pressione che mi si era accumulata nello stomaco scese brontolando verso l'intestino, mi ricordai della seduta interrotta al bagno dei professori e mi augurai che il fotografo si sbrigasse, cosa che naturalmente non fece. Ci congedarono solo dieci minuti dopo e io mi precipitai al gabinetto con ancora indosso la canottiera gialla.
Quando, dopo un bel pezzo, riemersi dai bagni, l'edificio scolastico era già
immerso nel silenzio. Cercai Pascal, ma non lo trovai
da nessuna parte. Non si era presentato nemmeno per la fotografia.
La cosa mi inquietava. Raccolsi le fotocopie dei voti e lasciai la
scuola, presi il sottopassaggio, l'uomo con la fisarmonica non c'era,
e tornai a Stoccarda. In treno trovai una copia del giornale di Göppingen, dalla
quale strappai vari annunci immobiliari. A casa mangiai quanto riuscii a
rimediare nella desolazione del frigo, nel frattempo disposi i fascicoli dei
miei studenti sul tavolo della cucina e
cominciai a imparare a memoria i voti degli anni precedenti. Più di
una volta sentii gli occhi chiudersi, ma tenni duro. Verso le otto
avevo ormai i voti scolpiti nella memoria e mi misi a preparare le lezioni per
il giorno successivo. Lavorerò con il massimo zelo, mi dissi, e in effetti
quando mi alzai dalla scrivania erano le due del mattino. Ero allo stremo, ma le
poche forze rimaste mi bastarono per tirare fuori il libro di storia, appuntare
dodici domande difficili e
metterle in borsa in previsione delle future conversazioni con la
Kniemann. Spogliandomi mi accorsi di indossare ancora la canottiera gialla, mi
sdraiai, mi accomodai fra i cuscini, mi produssi in
un lungo e pacifico sbadiglio ed ero proprio sul punto di assopirmi
quando uno shock bestiale mi fece sobbalzare. Mi alzai e mi picchiai il palmo
sulla fronte: la riunione per materia! Inglese! All'ora di pranzo! Dopo la foto!
Me n'ero dimenticato. Invece di partecipare avevo trascorso tutto il tempo
seduto sul cesso, poi avevo cercato Pascal senza trovarlo. Il mio cuore cominciò
a battere così forte che non riuscii a chiudere occhio per il resto della
nottata.
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