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| << | < | > | >> |Pagina 9Io, Trésilien-Théodore Augustin, non sono mica sempre stato qui a fare avanti e indietro per questa stanza miserabile. Figuriamoci. Io sono stato qualcuno. Ho avuto i miei giorni di gloria. Sono stato vessillo della nazione. Ho persino avuto un mio stendardo personale, con un uccello di mare dalle ali spiegate nel cielo aperto. E avevo la mia guardia d'onore. Presentat-arm! Ero preceduto da uscieri che mi facevano strada. Il corteo era aperto da una freccia di motociclisti sfavillanti da capo a piedi. E io, ritto nella parte posteriore della limousine, a salutare la folla. Salutavo con un piccolo gesto della mano e dentro di me dicevo: "Passo io, potete applaudirmi". E loro, come se m'avessero sentito, applaudivano ancora più forte. I bambini delle scuole mi portavano fiori, mi recitavano poesie. Io tagliavo nastri. Tutto quello che c'era da inaugurare lo inauguravo. Tenevo discorsi. Tutti applaudivano. E dopo, nella Grande Sala del Palazzo, le signore m'inebriavano con i loro profumi. Figuriamoci: mica sono sempre stato uno lercio che puzza di piscio vecchio e di chibichou. Questa barba lunga non ha sempre mangiato il mio viso. Ce l'hanno incollata loro per rendermi brutto. Ma sono bello, io. Più che bello, sono elegante. Ho ancora il frustino, gli stivali lustri e occhi che fanno scattare sull'attenti. Mi hanno voluto sbattere qua dentro, fare di me oggetto di scherno. Inutile: sono Presidente a vita. Sono il Presidente Trésilien-Théodore Augustin. Nessuno può togliermi l'energia che mi pulsa dentro. Nessuno. Gli individui, in questo mondo incerto, molto spesso sono una delusione. Passano accanto alle grandi cose. I loro occhi vedono soltanto l'involucro del quotidiano. A dargli retta non si farebbe mai niente di esaltante. Sono impastoiati nella loro misera routine. Avanzano meschini lungo il cammino delle abitudini. Ecco perché mi sono sempre sentito in dovere di spronarli. Di trasmettere loro un po' del fuoco interiore che mi fa vivere e agire. È questo fuoco che mi sostiene. È da lì che nasce la vera forza che rigenera tutto il mio essere. Malgrado l'ingratitudine dei miei concittadini, che mi tengono rinchiuso qua dentro perché hanno paura di me, rimango audace e determinato, vincitore delle avversità da qualunque parte arrivino. Forgiato dagli insegnamenti di questi ultimi anni, prevedo sin da ora il mio futuro trionfo, e mi lascio alle spalle il tempo delle tribolazioni, i traditori e i miserabili. Poiché so che questa stanza è di transito, e so anche di avere in me le riserve d'immaginazione e d'energia necessarie a riprendere il potere, resto tranquillo di fronte alle umiliazioni che tentano di impormi. Guardo con un sorriso divertito la presunzione di quelli che ieri venivano a mangiare nel palmo della mia mano. Il suolo non era mai abbastanza basso per i loro inchini. Vermi, vermi, vi dico. Brulicavano nei corridoi del palazzo, sempre lì a supplicare. Io li prendevo a calci in culo. E loro tornavano sempre. Cani striscianti. Occhi adulatori. Mi proponevano tutto, donne, ragazzini, bambini. Tutto. Io li compravo. Li rivendevo. Li scambiavo. Li liquidavo. Ed erano sempre lì a leccarmi gli stivali. Lo vedevo benissimo, non avevano capito niente. Inciampavano nei loro stessi intrallazzi e cadevano a terra in modo miserevole. Quello che volevo, e che voglio ancora, è una terra tutta nostra. Una vera terra per noi che viviamo qui, con il nostro cielo, i nostri alberi, le nostre colline, i nostri torrenti, le nostre scogliere, il nostro mare, i nostri animali che corrono, volano, nuotano, strisciano. Non è solo una questione di diritto, è una questione di coscienza. Un modo di stare al mondo non imposto. La possibilità di misurare la nostra durata da soli, le nostre follie, le nostre realizzazioni, e anche i nostri errori. Insomma, l'indispensabile fierezza di camminare al nostro passo. Questo risultato vale un colpo di stato, no? I politici si creano leggi su misura. Io sono un militare, e ho dovuto prenderne il posto perché loro non sono stati capaci di sistemare i problemi. Sono venuto a sanare una situazione compromessa da almeno due secoli. Ecco cosa dovrebbero ricordare quelli che mi danno del dittatore. In realtà si attribuiscono l'onore di infangarmi. Si arrogano la libertà di presentarmi, oggi, conti che sono loro a dover pagare da quando il tempo di questo paese gira in tondo. Dunque ho preso il potere. | << | < | > | >> |Pagina 39Da quando, grazie soltanto alla sua caparbietà, Trésilien era diventato l'Onnipotente Dispensatore di Retribuzioni, nel paese si moriva parecchio. Anche se i telegrammi di felicitazioni affluivano a sacchi al Palazzo la gente moriva, da credere che la gioia troppo forte del trionfo della Rivoluzione se li portasse via uno dopo l'altro. Si moriva alle assemblee. Al palazzo di giustizia. Per le strade. Al cinema. Al Circolo degli escursionisti. A casa dei banchieri. All'Associazione dei non vedenti e ipovedenti. Si moriva al teatro municipale. Nei giardini pubblici. Nelle biblioteche. Nei gallodromi. Alla messa. Si moriva dappertutto. Per un sì, per un no. L'innocenza e la preghiera non servivano più da paravento a nessuno. Le persone potevano anche pregare tre volte al giorno, recitare tre volte al giorno "liberaci dal male", morivano lo stesso. E altrettanto semplicemente sparivano. Un bel giorno, così, all'angolo della strada. Senza lasciare traccia. Ci si dava da fare come matti per ritrovarli. Se n'erano andati. Nessuno sapeva dove. Si diffondeva sempre più la nuova e singolare moda di trasferirsi senza lasciare indirizzo. Inchieste giudiziarie senza risultati si incaricavano di seppellirli, a detrimento delle imprese di pompe funebri che chiudevano una dopo l'altra – delle trentaquattro iscritte all'albo ne rimanevano solo tre. Altrettanto danneggiate le piangenti di professione che cantavano sommessamente: "Aggiungi un posto a tavola, Signore, alla Tua tavola stasera. C'è un convitato in più. Aggiungi un posto a tavola, Signore, alla Tua tavola. Accoglilo bene nella Tua casa, era un nostro amico." L'erba ripensava con nostalgia all'epoca in cui riposava felice, lontano da caserme e prigioni. Aveva riflessi cangianti nelle sere di luna. Quando pioveva, ad agosto e settembre, si riempiva di fragranze. Intonava il Te Deum. Scendeva fino alle acque stagnanti, annunciando la buona novella. Non avrebbe tardato. Gli apostoli non avrebbero avuto il tempo di fare il giro delle città di Israele, la parola non avrebbe avuto il tempo di viaggiare a lungo, Suor Catherine-Aurélie-du-Précieux-Sang non avrebbe avuto il tempo di essere canonizzata, i prodigi annunciati da più di quattromila anni non avrebbero avuto il tempo di compiersi che il paese avrebbe già recuperato la maggior parte del ritardo, grazie alla Nuova Costituzione e grazie a Saint-Expédit. A proposito di recuperi, Cétoute, Apaça e Florius furono ritrovati morti tutti e tre. Nel medesimo giorno. In luoghi differenti. E tutti e tre avevano i testicoli bucati. Il rapporto del medico legale attestò che erano morti all'incirca alla stessa ora ma ognuno vittima di un colpo di fuso orario differente, il che sembrava del tutto inconcepibile in un paese così piccolo. Si cercò di chiarire come avessero impiegato il loro tempo nelle ore precedenti la morte. L'ipotesi che fossero stati insieme tra le diciassette e le diciannove avrebbe facilitato l'inchiesta; purtroppo i fusi orari del medico legale erano lì a rendere logicamente inverosimile la possibilità che si fossero incontrati. Apaça, ritrovato sulla spiaggia di La Française, sotto il Fort-Saint-Louis, era morto da poco: il suo testicolo sinistro presentava un foro di appena alcune ore. Sua moglie Cordélia lo aveva accompagnato fino al molo, era rimasta ad aspettarlo in macchina — non le piaceva l'acqua di mare. Non aveva visto niente, sentito niente. Cétoute lo avevano ritrovato dalla parte dell'Anse Azérot, a nemmeno cinquanta chilometri di distanza, morto anche lui, con lo stesso foro nel testicolo destro ma che risaliva almeno a una settimana prima. Era disteso faccia a terra, le mani che tenevano il ventre, nella posizione commovente di un feto che chiede perdono. Eppure sul corpo non aveva alcun segno di violenza. Accanto erano accuratamente disposte le scarpe con dentro gli slip; i pantaloni invece non erano stati ritrovati. Quanto a Florius, ne avevano rinvenuto il corpo per metà fuori dall'auto presso la spiaggia dei Raisiners, a Trinité. Aveva indosso solo la camicia, niente slip. I due testicoli erano trapassati da un foro di quindici giorni. | << | < | > | >> |Pagina 74Da bambino guardava il guano dei merli galleggiare nell'acqua della tinozza dove lavava i piatti. Sembravano barchette tremanti in balìa del vento. Si divertiva anche a osservare i merli che si rimiravano allo specchio lasciato appeso alle persiane da Désir dopo essersi rasato. Parevano innamorati della propria immagine. Cercavano con tutte le loro forze di entrare nel riflesso e nel provare se la facevano addosso per il piacere. E così lasciavano per terra fiocchi biancastri.Non sempre si è padroni delle proprie associazioni di immagini: il guano biancastro dei merli lo portò a pensare al suo vecchio maestro, Blanchard, con il rispetto dovuto a lui e alla sua anima ridotta in polvere insieme alle ossa tanto tempo prima. Il maestro Blanchard era severo. Aveva passato quarantatré anni della sua vita a riempire di principi laici il cervello dei ragazzini che, come Trésilien all'epoca, volevano solo correre liberi nelle savane. Il maestro Blanchard si era impegnato a tenerli inchiodati ai banchi — pietà per le loro tenere chiappe! — e a raddrizzarli con la bacchetta di legno. Ne faceva un uso tagliente e smodato, perché la regola era la legge, espressione della volontà generale, e doveva essere la stessa per tutti, sia per proteggere che per punire. Il maestro Blanchard poi li aveva appuntiti come ami. Martellati come suole a colpi di participi passati, di verbi irregolari, di epiteti, di attributi, di problemi. Preso da tutto questo aveva finito per spegnersi proprio prima di ricevere le onorificenze accademiche. Che cosa avrebbe pensato della situazione attuale il maestro Blanchard? Era immerso in queste riflessioni quando vide la nuvoletta di resistenza provocatrice che, come ogni mattina alle dieci in punto, passava davanti alla finestra del suo studio.
"Finché Vent Debout guiderà lo sciopero," disse "quella nuvoletta continuerà
a fluttuare per irritarmi. Andrò a trovarlo, è l'unico modo di mettere ordine in
questo casino."
Vent Debout, dalla veranda di casa sua, lo senti telepaticamente: "Trésilien ha voluto il paese ai suoi piedi ed ecco che ora si mette a tremare. Quel piccolo capitano non ha abbastanza palle per affrontare uno sciopero da solo. Ha bisogno che qualcuno gli tenga la mano al buio. Venga pure: la brace non fa altro che precedere la cenere." Trésilien si trovò faccia a faccia con Vent Debout. Era agosto: il mezzogiorno lasciava cadere rondelle di sole per terra. Il vento soffiava piano seguendo il suono delle campane di quella domenica mattina. Vent Debout guardò negli occhi il Presidente senza dire una parola. Trésilien gli chiese: — Perché mi mandi quella nuvola ogni mattina? Cosa vuoi? — Io? Ho altro da fare che mandarti nuvole. Ma tu, qual buon vento ti porta? Beato chi ti vede! Perché sei venuto a trovarmi? — Ho bisogno di un consiglio. — Tu? E a che proposito? — Della situazione. — Non ne ho consigli da darti. Sei tu il Generale. Fai la rivoluzione a tuo piacimento. È quello che desideravi, no? — Sì, ma l'uomo propone e gli avvenimenti dispongono. Quello che volevo era far progredire il paese. Mi ritrovo con storie di testicoli forati e uno sciopero di puttane sul groppone. Non so veramente perché tutti quanti si sono messi in testa di voler turbare così l'ordine pubblico. Gli uomini vengono fatti fuori tre alla volta in maniera stravagante; le donne rifiutano di fare l'amore. Farebbero di tutto per rendermi la vita impossibile. Ti dirò una cosa Vent Debout, non è facile guidare un paese: ti ritrovi rompipalle dappertutto. Ti mettono in ogni modo i bastoni fra le ruote. In qualsiasi momento devi risolvere un mucchio di imprevisti. Si aspettano rutti di sapere che ora è. — E sei proprio tu a dirlo. — Sì, io, perché? — Sei tu che hai voluto regolare l'ora del paese. — Certo, sull'ora effettiva della sua storia. E adesso, quando faccio il conto dei giorni e delle notti, trovo solo muli ostinati. Si rifiutano di andare avanti invocando mille motivi. Ad esempio, ultimamente, mi ero proposto di onorare un vecchio medico dando il suo nome a un edificio scolastico. Sai che ha preferito non morire solo per crearmi problemi? La legge è inesorabile su questo punto: occorre esser morti da cinque anni perché il tuo nome sia onorato pubblicamente; non ci posso fare nulla, è così. Trovo che il primo dovere dei medici avanti con gli anni dovrebbe essere quello di dare l'esempio morendo all'età stabilita, cosa ne pensi tu? | << | < | > | >> |Pagina 98La seconda giornata delle Assise internazionali iniziò con una nota triste. Le bandiere di tutti i paesi rappresentati danzavano al vento, ma la luce del giorno era lugubre. Prendeva ritmo dagli odori di baccalà fritto che le venditrici del Grand Marché facevano esalare dalle loro pentole, ma si sentiva bene che mancava qualcosa alla gioia.Si capì il perché quando videro arrivare al Palazzo dei Congressi il maresciallo Mobutu Sese Seko. Il capo dello Zaire non portava il suo leggendario copricapo di pelle di leopardo. Non aveva nemmeno in mano il celebre bastone con cui aveva spezzato le reni di Patrice Lumumba. Sembrava stanco. Sentiva di aver perso. Che era perso. Ripassava a mente tutto quello che aveva fatto per sradicare il potere assoluto. I sacrifici. La volontà impeccabile. Le misure di intimidazione. L'eliminazione degli oppositori. Tremava nel suo sguardo una fiammella ferita. Che vacillava, sfavillava. Si chiedeva quanto a lungo avrebbe potuto resistere. Fin dal midollo delle sue ossa emanava la paura. Non gli si conosceva nessuna malattia e anche i medici, che regolarmente lo seguivano, non cessavano di divulgare certificati di salute assolutamente ottimisti. Eppure si sentiva condannato. Fin nel più profondo della sua coscienza. Con passo vacillante raggiunse il suo posto in tribuna. Quando salì, si produsse il miracolo: era di nuovo sano. Non era venuto fin qui per fare la figura del depresso. La Guida dello Zaire, era lui. Di conseguenza, doveva offrire ai colleghi e al pubblico l'immagine di un capo saldo e possente. Quando fu il momento del suo intervento si alzò, andò al microfono, gonfiò il petto. Si mise a parlare della grande idiozia degli oppositori. Non sono riconosciuti. Non hanno alcuna presa sulle masse popolari. Nessuno li prende mai sul serio. Peggio, la loro volontà d'andare controcorrente nella storia si presta alla derisione. Chi ha chiesto loro di distribuire volantini? Di tenere discorsi? Di scrivere libelli? Di fondare riviste? Di avere idee? Di riflettere? Riflettere su cosa? Per fare cosa? È mai capitato che il pensiero abbia riempito una sola pancia? (scandiva le sue frasi). Il pensiero, come lo mangi? Con cosa? Certo bisognava essere stupidi per consacrarsi ad attività di cui nessuno vedeva l'utilità. Perché, se questi pseudo-intellettuali servivano a qualcosa, da quando si erano messi a scrivere, arzigogolare, elucubrare, lo stato sarebbe dovuto andare diversamente. Ora va bene lo stato. Gli pseudo-intellettuali, nel mondo intero, compiono dunque il ridicolo atto di trasportare acqua in un cesto. E vorrebbero essere presi sul serio? Gente inutile e arrogante. Un'arroganza da maestrini che cercano di dominare il popolo. Un bel giorno avevano sognato di invertire la marcia del secolo. Ma, grazie a Dio, il secolo non li aveva attesi per avanzare. Tuttavia restavano pericolosi, laddove potevano appoggiarsi alla cricca lubrica e mercenaria dei trafficanti di rivoluzione. Più parlava, più la sua voce e tutta la sua persona ne guadagnavano in autorità. Forte dell'esperienza, suggerì numerose ricette per rimettere al passo tutti coloro che, contro la democrazia, qui o altrove, tentavano di dedicarsi al vagabondaggio e alle furfanterie politiche. Mentre parlava, lo si sentiva sospinto dal proprio slancio – lo si sarebbe potuto vedere prendere il volo da un momento all'altro. Sul suo orecchio sinistro fluttuava la bandiera del Leopardo Verde. Su quello destro la Tigre Bianca. Sulla spalla destra planava il Caimano Fluviale. Sulla spalla sinistra, il Serpente Corallo. Quando si doveva dar battaglia, li utilizzava per pestare nel mortaio i nemici del popolo. Certamente riconosceva di non aver amici, come stupirsene quando uno lotta ventiquattro ore su ventiquattro da più di vent'anni per mantenere l'ordine? Ma almeno nel suo paese era riuscito a mettere definitivamente con le spalle al muro i fautori dei disordini. Terminò il suo lungo discorso esortando i partecipanti alla fermezza: "Non chiedete nessuna prodezza al guerriero," diceva loro "ma fidatevi della spietatezza per vincere." Fu applaudito entusiasticamente e il suo discorso portato alle stelle sulle ali degli ucelli di mare.
La stampa lo riportò in tutte le lingue conosciute. La statura
del Maresciallo ne ottenne come vantaggio almeno una ventina di
centimetri: da Guida dello Zaire, diventò il Bastione della Democrazia. La sua
fermezza venne lodata, perché rendeva gli oppositori dei cagnolini dal morso
tenero, condannati a guaire inutilmente nel deserto.
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