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| << | < | > | >> |Pagina 7Esageriamo pure. Diciamo che ci fu un tempo, non molto lontano del resto, in cui vivevo con una mosca.Non è una metafora, si trattava di una mosca vera e propria e in quanto a sostenere di vivere con lei, chiedo scusa, ma, a quell'epoca, ignoravo o avevo dimenticato che l'esistenza di questo dittero non supera mai le quarantotto ore. Inoltre, vivendo pochissimo da diversi anni — ci arriveremo — era perfettamente verosimile che avessi provato, rispetto a una mosca — voglio dire a una mosca cocciuta, certo, a una mosca saldamente insediata nella sua breve esistenza di mosca, poiché non ignoravo, nonostante tutto, che una certa brevità governava i suoi giorni — la sensazione che condividevo la sua vita, o che lei condivideva la mia. Oppure, per dire le cose con piú esattezza, che, occupando tutto o parte del mio domicilio, a seconda delle sue incessanti esplorazioni, essa difendesse il suo territorio con tale costanza che il minimo che potessi fare, in quelle condizioni, almeno dal suo punto di vista, era accettarla o adottarla, in ogni caso trattarla con tutti i riguardi che le erano dovuti come residente di cui rivendicava lo statuto, nel rispetto dei diritti che le spettavano in quanto tale. Non era cosí, ovviamente. A quella mosca non avevo intenzione di riconoscere il minimo diritto. A dire il vero, non l'avevo mai amata e non intendevo usarle premure. Non avevo voluto, no, quando è entrata da me, buttarla subito fuori, convinto che, alla fine di novembre, con una temperatura di cinque gradi, a Parigi, la sua presenza in casa fosse cosí incongrua che avrebbe dovuto sparire da sé, soltanto in base al buon senso. Per scrupolo di realismo, d'altronde, e non potendo spiegarmi la sua presenza, tentai presto di usare a mio favore tutte le possibilità di cui disponevo obbiettivamente per disfarmene, e per cominciare, a quella mosca spuntata da chissà dove, aprii la finestra, anzi le finestre, in modo che ci si infilasse senza indugio e che tornando all'esterno, mi offrisse la prova di essere poco piú che un'illusione e di non aver mai dovuto trovarsi lí dove l'avevo vista la prima volta, cioè sul bracciolo della mia poltrona a due passi dal diario che avevo cominciato a scrivere il giorno stesso e di cui minacciava con le sue gracili zampette di percorrere le primissime righe. | << | < | > | >> |Pagina 35La prima volta che avevo ammazzato una mosca dovevo avere una dozzina d'anni ed ero in campagna. L'ultima, era stata verso i quindici anni, sempre in campagna. Ma la situazione oggi non era molto diversa, perché avevo sempre ammazzato le mosche al chiuso, nella casa di campagna.Il modo di procedere era sempre stato lo stesso. Non mi ricordo piú dove avevo imparato quella tecnica, semplicissima. Non aveva niente a che vedere, tengo a precisarlo, con l'immolazione. Prima degli undici anni, infatti, mi era capitato di far del male a una mosca, ma senza aver avuto alcun merito nel catturarla. La mosca, all'epoca, l'acchiappava mio padre, non mi ricordo piú in che modo, ma credo di non sbagliarmi molto dicendo che le capovolgeva sopra un barattolo di marmellata vuoto, o quasi vuoto, a meno che, nel caso in cui il barattolo avesse ancora contenuto un fondo di marmellata, non vi avesse attirato la mosca prima di rinchiudercela. Comunque sia, l'acchiappava lui, dopo di che, per quanto possibile, me la consegnava, non so perché, del resto, con quale scopo educativo, a meno che non cedesse semplicemente a una mia richiesta, insomma dalla mano di mio padre ricevevo la mosca e al riparo dagli sguardi, in particolare dal suo, dopo aver tenuto a lungo la mosca nel pugno chiuso, l'anestetizzavo con uno spruzzo di bomboletta e le strappavo tranquillamente le zampe. A quindici anni ero diventato meno crudele. In compenso, avevo fatto progressi sul piano sportivo. La mia tecnica, infallibile, consisteva nel lasciare dapprima la mosca posarsi. Che fosse o meno su una superficie orizzontale, come il ripiano di un tavolo, non aveva importanza. Una volta posata, la mosca era spacciata. L'unica possibilità di sfuggirmi sarebbe stata quella di posarsi nel cavo di un piatto ma, prima di iniziare la caccia, aspettavo che fosse sparecchiata la tavola. Il piú delle volte l'acchiappavo proprio lí, sulla tavola, dove ogni mosca, anche dopo il necessario colpo di spugna, trova materia per indugiare, ma, come ho accennato prima, poteva benissimo essere sul muro. Mi avvicinavo, con precauzione, e, in questa prima fase, l'abilità consisteva nel non spaventarla, cosa che il piú delle volte mi riusciva: infatti, tranne i passi lentissimi che muovevo verso di lei, non facevo il minimo movimento, con le braccia abbandonate lungo il corpo. La seconda fase, piú delicata, che portavo a buon fine mediamente una volta su due, consisteva nel tendere il braccio, lentamente, in modo che la mano venisse a trovarsi a venti, trenta centimetri dalla mosca, il palmo incurvato e appoggiato, di taglio, al supporto (ancora una volta, poco importava che fosse o meno orizzontale) e, inutile dirlo, senza che la mosca, allarmata, spiccasse il volo. Nella terza fase, muovevo velocemente la mano, sempre di taglio, sul supporto, in direzione della mosca e lí, senza lasciarle il tempo di dire né ai né bai, l'acciuffavo chiudendo la mano. Per finire, passavo, dopo questo stadio, sempre rischioso, della cattura, all'esecuzione propriamente detta. Con tutta la forza del braccio scagliavo la mosca contro una parete (che a volte era quella sulla quale l'avevo catturata), dove schiattava e da dove cadeva sulle mattonelle della cucina, perché quasi sempre la scena avveniva in cucina. Come ho già detto, non so esattamente chi mi avesse insegnato questa tecnica, abbastanza semplice, del resto, perché, insieme ad altri magari, come accade nella ricerca pura, possa esserne stato l'inventore. | << | < | > | >> |Pagina 51Loro, no. Capii subito che qualcosa non andava. André mi aveva chiesto come stavo e non era buon segno. Avevamo tacitamente stabilito tra noi che non mi avrebbe mai chiesto notizie. Dopo che mi ebbe posto la domanda gli risposi comunque che stavo abbastanza bene. Ah? Disse lui. Non esageriamo, feci. Ero costretto a transigere. Non volevo dire a André, per una volta che me lo chiedeva, che stavo davvero bene. Sapeva che con lui e Jeanne, comunque, stavo sempre bene e che, al di fuori della loro presenza, era meno sicuro, ma che, né a lui né a me, conveniva inoltrarsi su questo terreno. Il malessere, nella mia vita, aveva a ogni modo il suo posto, senza bisogno che André, scavando, lo mettesse in luce. Temetti che capisse dalla mia risposta che stavo bene a prescindere dalla loro presenza e non volevo. Ai suoi occhi sarebbe stato troppo.Eppure, era la verità. Da quando lui e Jeanne avevano deciso di partire, stavo benissimo e adesso che partivo con loro era addirittura una festa. Preoccupato. dunque gli chiesi a mia volta come stava. La risposta, evasiva, non era da lui. André aveva il gusto della discettazione. In quel momento, niente o quasi. Inoltre lo specchietto di cortesia era rialzato, impossibile incontrare lo sguardo di Jeanne. Aspettai che lei o André, dopo quel momento di imbarazzo, trovassero un argomento di conversazione, ma ancora niente. Un po' di aneddotica, di tanto in tanto, ma non proprio sentita, non sfociava mai, per esempio, sul generale. Mentre entrambi in tempi normali adoravano generalizzare l'aneddotico. Era il loro lato intransigente. Quel giorno, evidentemente l'esercizio non era alla loro portata. E in quanto a me, non mi sentivo in grado di trovare un argomento di conversazione. C'era ovviamente Odile, ma esitavo. Non gliene avevo mai parlato. Faceva parte, come il mio passato, della sfera privata, anche se la sua apparizione era recente. Per alleggerire l'atmosfera, tuttavia, dissi loro che, se non fosse stato per il rumore che regnava nell'abitacolo, perché andavamo adesso a forte velocità, si sarebbe sentito volare una mosca. Dapprima la presero male. Ma forse, corressi poi per ridere, ne avevo il rumore nell'orecchio e parlai di Odile. Non sorrisero. André, servizievole ma poco fantasioso, per una volta, mi parlò di bombolette, di apparecchi elettrici dissuasivi da mettere nelle stanze. Jeanne, sempre rigorosa, preferì interrogarsi sul mistero rappresentato dalla presenza in casa mia di una mosca, alle soglie dell'inverno. Ma non godevo, al piano terreno, della presenza di un formaggiaio dal quale compravo, a volte, qualche forma saporita o qualche tomino stagionato dove si storceva il coltello? Ma certo! dissi, non ci avevo pensato. È che non sono da molto in casa mia, aggiunsi a mo' di scusa. Insomma, mi capisci. In tre anni non sono riuscito a mettermi abbastanza in mente quel formaggiaio, per arguire che una mosca abitante da lui al piano terra, avesse la faccia tosta di innalzarsi fino al terzo piano. In questo caso, l'avvicinarsi dell'inverno non è piú un ostacolo, evidentemente. Era spesso cosí, ahimè. Quando mi capitava di dialogare con Jeanne, mi esponevo al ridicolo. Nel migliore dei casi, mi chiariva particolarità d'ordine tecnico, risolvendo a distanza, per esempio, un problema di rubinetto che mi stava a cuore e che avevo avuto la debolezza di sollevare davanti a lei perché aveva il dono di mettermi in confidenza. Eppure non aspiravo affatto che mi facesse da mamma. A pensarci bene, era piuttosto un modo per occupare una posizione di inferiorità rispetto a lei. Calcolavo che una posizione di inferiorità fosse la migliore per farmi accettare. Calcolo inutile, probabilmente, poiché non dovevo sforzarmi per ritirarmi, di fronte a Jeanne, in un ruolo di second'ordine. | << | < | > | >> |Pagina 95Mi svegliai presto, diedi una scrollata ad André, ma ne ricavai solo un borbottio. Mi fece capire poi, bofonchiando in modo espressivo, che non desiderava uscire. Io invece sí, dissi. Ho una voglia tremenda di uscire. Uscii.Andai a noleggiare gli sci. Prendevo già sul serio il mio programma per rimettermi in forma, dunque a grandi passi, a costo di un po' di affanno che mi costrinse a qualche sosta, scesi la strada verso la base delle piste, dalla parte dei noleggiatori di attrezzature. Arrivato davanti al negozio, presi posto nella fila che tracimava sul marciapiede e quando fu il mio turno provai gli scarponi e accettai un paio di sci. Infatti non si può, in un negozio di noleggio di sci, provare gli sci. Questione di spazio. Mi misi gli sci in spalla e dopo aver lasciato i dopo-sci nel negozio, mi diressi con gli scarponi ai piedi verso le piste. Evidentemente non si scia tutto l'anno e il ricordo degli scarponi calzati per forza prima degli sci, ma dopo i dopo-sci, a poco a poco si cancella. Ci si ricorda, certo che è penoso camminare con quelli ai piedi ma si dimenticano i dettagli. E in questo caso sono i dettagli che contano. L'appoggio del calcagno, ad esempio, che si riflette in tutta la caviglia, seguito dalla pressione problematica della pianta che invece non sentiamo piú. Poi il dolore a livello del collo del piede quando si deve fare un passo avanti, in linea di massima, per mezzo delle dita che, bloccate nella loro ganga rigida, non esistono praticamente piú. Probabilmente è il motivo per cui, in quei momenti, si pensa ai piedi come mai prima. Ma ci si pensa come a una componente remota del corpo, esiliata in una qualche prigione senza diritto di visita. I nostri piedi sono veramente tagliati fuori dal mondo e, peggio ancora, da noi stessi. Non abbiamo neppure la consolazione di dirci che, pur lontani da noi, vivono la propria vita. Non ci fanno solo male, ci fanno pena. La prospettiva di mettersi gli sci, a questo punto, benché non venga vissuta, riguardo ai piedi, come l'annuncio di una liberazione, è considerata tuttavia una riduzione di pena. Ed è interessante osservare che, in questa particolare disciplina, piú si procede nella bardatura, piú si va verso il sollievo. E insomma un concetto condizionato della libertà, abbastanza in sintonia con i nostri regimi liberali, che associa al lavoro e allo sforzo tale imprescrittibile diritto. Qui dunque per i fannulloni, per i deboli, non c'è salvezza. Varcata questa soglia, beninteso, sulle piste trionfa la potenza. Quanto a coloro che si lasciano spaventare dal male di piedi, gli rimangono le vie del centro e i marciapiedi, dove al massimo saranno tollerati, ma non è sicuro che vengano degnati di una qualche considerazione. E d'altronde, eccoli presto puniti. In queste località non concepite, come indica il loro nome, per passeggiare, si annoiano a morte.
Avevo tralasciato, prima di noleggiate l'attrezzatura, di far la coda per lo
skipass. Dovetti dunque raggiungere, con gli scarponi ai piedi, l'ufficio
apposito. Di nuovo, feci la coda. Intanto il mio sguardo spaziava, sempre verso
l'alto, da destra a sinistra, dallo skilift alla seggiovia, alla teleferica.
Francamente, per cominciare, preferivo lo skilift. Saliva solo fino a metà
della pista che aveva pochissima pendenza, cosa, pensavo tra me, che bastava e
avanzava per cominciare. Avrei sciato con i bambini e le nonne, ripassando lo
spazzaneve.
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