|
|
| << | < | > | >> |IndiceSAGGI INTRODUTTIVI IX Alla ricerca di un buon modello per l'uso delle risorse comuni. Una verifica storica fra open fields system, regole ampezzane e partecipanze emiliane di Cristiano Andrea Ristuccia XXIX Una lezione per le politiche pubbliche: il governo delle realtà sociali complesse tra «pubblico» e «privato» di Giovanni Vetritto e Francesco Velo XLI Premessa all'edizione italiana di Elinor Ostrom GOVERNARE I BENI COLLETTIVI 3 Premessa all'edizione originale di Elinor Ostrom 11 Riflessioni sui beni collettivi 12 Tre modelli importanti 19 L'uso metaforico dei modelli 21 Prescrizioni politiche vigenti 40 Una sfida 51 Un approccio istituzionale allo studio dell'auto-organizzazione e dell'autogoverno nelle situazioni caratterizzate da risorse collettive 52 Le situazioni caratterizzate dall'uso di risorse collettive 63 Interdipendenza, azione indipendente e azione collettiva 68 Tre interrogativi: modalità di offerta, legittimità e controllo 73 Impostazione dell'indagine 85 Studio delle istituzioni in contesti concreti 93 Un'analisi dei sistemi d'uso delle risorse collettive. Alcuni casi di sistemi durevoli, auto-organizzati e autogovernati 97 Proprietà comune di pascoli e foreste di alta montagna 107 Le istituzioni di irrigazione huerta 124 Le comunità di irrigazione zanjera nelle Filippine 132 Analogie tra istituzioni autogovernate e durature nell'uso di risorse collettive 157 L'analisi dei cambiamenti istituzionali 159 La corsa competitiva all'estrazione 166 Il gioco delle liti 186 Il gioco dell'imprenditorialità 194 Il sistema policentrico delle imprese pubbliche 198 Analisi della costituzione di nuove istituzioni 213 Analisi degli insuccessi e delle fragilità istituzionali 215 Due zone di pesca costiera turche con persistenti problemi d'uso di risorse collettive 218 Bacini delle acque sotterranee della California con persistenti problemi d'uso di risorse collettive 222 Una zona di pesca nello Sri Lanka 232 Progetti di sviluppo dell'irrigazione nello Sri Lanka 252 La fragilità delle zone di pesca costiera della Nuova Scozia 259 Lezioni da apprendere dal confronto dei casi analizzati 269 Impostazione dell'analisi delle risorse collettive auto-organizzate e autogovernate 273 I problemi dell'offerta, degli impegni credibili e della sorveglianza reciproca 282 Il quadro generale dell'analisi delle scelte istituzionali 310 Una sfida agli studiosi di scienze sociali 317 Bibliografia 353 Gli autori |
| << | < | > | >> |Pagina IXGoverning the Commons è uno di quei libri che sembrano invecchiare estremamente bene. Forse ci si può rendere conto del suo considerevole impatto nelle scienze sociali osservando la traccia che ha lasciato nella letteratura accademica e su Internet nell'ultimo quindicennio. Oggi Internet consente di «pesare» questa traccia: basta interpellare la rete. Si tratta di un esercizio che, oltre a rivelarsi divertente, dà nel nostro caso risultati sorprendenti o comunque interessanti. Dunque, ai primi di gennaio 2006 questo libro veniva citato in 1587 articoli pubblicati su riviste accademiche censite dal Social Science Citation Index; in 275 libri scannerizzati su Google book search se cercato come «Ostrom (1990)» e in 214 libri sullo stesso database se cercato come «Governing the Commons». Sulle circa 350 riviste accademiche completamente scansionate nell'archivio JSTOR «Governing the Commons» appariva 181 volte; «Ostrom (1990)» 131 volte e «Elinor Ostrom» 647 volte. Quanto a semplici ricerche sui motori di ricerca generali di Google i risultati ottenuti nello stesso periodo erano i seguenti: «Governing the Commons» 444.000, «Elinor Ostrom» 29.400. Volendo essere più puntigliosi e richiedendo solo risultati che combinino entrambe le locuzioni precedenti si ottenevano 31.000 hits. Infine, una ricerca per «Ostrom (1990)» generava 36.600 risultati. Beninteso, non sono questi numeri a dare al libro di Elinor Ostrom la qualità di un «classico contemporaneo» che gli spetta ma contribuiscono certamente a consolidarla. Il libro si occupa di risorse comuni. Queste sono risorse, tipicamente ma non necessariamente naturali, che, per ragioni prettamente fisiche o anche economiche, spesso sono difficili da delimitare onde precluderne l'accesso a terzi. Inoltre, il loro uso da parte di singoli utilizzatori (appropriators) ha potenzialmente l'effetto di ridurre i benefici che altri possono ottenere dall'uso della risorsa stessa. Queste non devono essere confuse con quei beni che in teoria economica sono definiti come beni pubblici, beni dal cui uso non è economicamente possibile escludere singoli beneficiari – ad esempio, la spesa per la difesa di un paese è un bene pubblico i cui benefici, in termini di sicurezza, si estendono a tutti i cittadini di quel paese indipendentemente dal loro contributo al suo finanziamento – ma il cui uso da parte di un agente non ne sminuisce la fruibilità per gli altri. Sia per le risorse comuni che per i beni pubblici vi sono fortissimi incentivi a comportarsi da free rider quando si tratta di finanziarne il mantenimento e, nel caso delle risorse comuni, di finanziare le istituzioni che ne governano l'accesso. La bellezza e la popolarità della tesi della Ostrom, testimoniata da tanta eco nella letteratura recente, risiede, in larga parte, nel suggerimento liberatorio in essa contenuto che la gestione delle risorse comuni sia non una claustrofobica sequela di rigide scelte dicotomiche (pubblico/privato, organizzazione/anarchia), ma bensì la ricerca di soluzioni ottimali su un continuum di infinite combinazioni possibili e che le opzioni presentate nei tradizionali modelli binari non costituiscano che gli estremi dell'insieme di tali possibili soluzioni organizzative. In particolare, la Ostrom fa notare che, nei casi oggetto di questo studio, il problema fondamentale che gli utilizzatori di un bene scarso e deperibile di uso comune si trovano a dover risolvere è quello di darsi una struttura organizzativa che incoraggi la scelta di strategie individuali cooperative che tengano conto degli effetti delle proprie azioni e decisioni sulla funzione di utilità degli altri beneficiari del bene in oggetto. Giustamente Ostrom nota che in condizioni di incompletezza e di disomogenea distribuzione delle informazioni concernenti la natura del bene oggetto dello sfruttamento, è importante riconoscere che tale struttura può, anzi deve, essere elastica, mutevole e capace di adattarsi alle nuove conoscenze sulla risorsa che gli utilizzatori acquisiscono col tempo e con il continuo uso della risorsa stessa. Inoltre le istituzioni che determinano i diritti/doveri di accesso alla risorsa devono essere flessibili, e facilmente adattabili per consentire agli «appropriatori» (appropriators) di cambiare le proprie strategie in conseguenza dell'accumulo di informazioni sui comportamenti degli altri utilizzatori e sulle conseguenze delle proprie e altrui strategie d'uso sullo stato della risorsa comune. Strutture eteroimposte hanno spesso il grande svantaggio di essere caratterizzate da procedure rigide, e da processi di decisione e arbitraggio complessi e protratti nel tempo. Al contrario, gli utilizzatori sono spesso in situazioni di vicinanza e familiarità protratta col bene oggetto di sfruttamento che consente loro di darsi strutture organizzative più pronte al cambiamento dinamico e meglio adattabili alle trasformazioni gestionali suggerite dall'emergere di nuove conoscenze. Anzi, Ostrom consiglia di considerare tali strutture organizzative non tanto come una cornice di riferimento statica (benché nel migliore dei casi adattabile) atta a ingenerare comportamenti individuali cooperativi ma come un processo partecipativo dinamico. Attraverso tale processo gli appropriatori divengono al tempo stesso consci dell'interesse comune, capaci di massimizzare i propri utili attraverso sequenze di azioni largamente caratterizzate da cooperazione, e divengono compartecipi di un sistema allocativo equo. E ciò anche in presenza di una sostanziale aleatorietà temporale nella distribuzione dei benefici ingenerati dallo sfruttamento di un bene sulla natura del quale le informazioni non siano complete. Il secondo aspetto che ha reso la tesi di Elinor Ostrom così influente nelle scienze sociali nell'ultimo quindicennio è il concetto di local empowerment. Concetto tanto caro alla tradizione conservatrice anti-federalista americana, quanto consonante con la linea ambientalista, alternativa, e a volte antagonista, del think globally and act locally. Qui non si tratta solo di ciò che in altri tempi sarebbe stato descritto come la possibilità di autogestione delle risorse locali, in questo caso risorse naturali di uso comune, ma anche come la ben più importante possibilità per tali comunità di definire autonomamente le regole fondamentali di uso-appropriazione del bene comune. Non solo, Ostrom dimostra come nelle inevitabili condizioni di informazione asimmetrica e incompleta tipiche delle risorse naturali di sfruttamento comune – siano essi banchi di pesca, aree di pastorizia montana di proprietà comunitaria ma con armenti di proprietà individuale, aree coltivate di tipo open field caratteristiche dell'Europa nord occidentale nel basso Medioevo, o risorse idriche allo stesso tempo scarse, comuni, e afferenti ad appezzamenti privati – la somma del costo di acquisizione delle informazioni necessario a definire tale sistema di regole d'uso, del costo di monitoraggio degli individui che tali risorse usano e, infine, del costo dell'azione punitiva nei confronti di coloro che tali regole ignorano e trasgrediscono, sia spesso inferiore a quella dei costi in cui si incorrerebbe in situazioni regolamentari eterodirette. Siano esse la privatizzazione del bene di uso comune, sempre che una tale soluzione sia effettivamente praticabile il che non è necessariamente detto, o l'imposizione dall'alto di legislazione volta a proteggere la risorsa naturale oggetto dello sfruttamento comune e a regolarne tale sfruttamento. L'attacco della Ostrom alla dicotomia privatizzazione/socializzazione del bene comune scarso è basato su una serie di intuizioni fondamentali. Da una parte, la possibilità di privatizzare beni comuni del tipo descritto sopra è limitata dalle caratteristiche stesse del bene. Ad esempio, spesso è molto costoso imporre diritti di pesca esclusivi: i banchi si muovono, il valore di una particolare area di prelevamento ittico è di difficile determinazione senza dettagliate conoscenze locali, il costo del monitoraggio e prevenzione della pesca di frodo può essere proibitivo per il singolo titolare della licenza di pesca. In queste condizioni, la privatizzazione dei diritti di sfruttamento di un bene che per sua stessa natura mal si presta a una gestione puramente privatistica, produce i comportamenti tipici che portano alla distruzione stessa del bene per sfruttamento eccessivo: free riding, utilizzo miope del bene, assenza di misure volte a preservare il bene stesso nel lungo periodo. D'altro canto, Ostrom giustamente osserva che questo di per sé non significa che l'opposta soluzione (regolamentazione dall'alto o addirittura socializzazione del bene) debba necessariamente essere la risposta ottimale ai problemi che ne impediscono un uso continuato ed equo. Spesso, infatti, i costi per la definizione delle regole e per il loro successivo enforcement sono notevoli. Solo in alcuni casi, relativamente rari, i costi relativi all'acquisizione di quelle informazioni sulla natura del bene stesso necessarie per definire regole d'uso ottimali in termini sia di conservazione del bene sia di massimizzazione del flusso degli utili attesi sono di entità modesta. Così come sono inusuali i casi in cui i costi associati alle funzioni di monitoraggio e sanzionatorie volte a garantire il pieno rispetto di tali regole, una volta imposte, siano sostanzialmente irrilevanti. In altre parole, Ostrom nota che spesso i modelli suggeriti dai teorici della imposizione dall'alto di regole d'uso sono incompleti in quanto, ad esempio, non tengono conto del prelievo fiscale, o del costo necessario per ottenere una licenza di sfruttamento. Tale dimenticanza sbilancia l'analisi dei costi e dei benefici a favore dell'intervento esterno da parte dello stato o della sostanziale privatizzazione del bene. Ma fiscalità e costi di concessione sono necessari a finanziare proprio le funzioni svolte dall'autorità statale per l'acquisizione delle informazioni relative alle caratteristiche fisiche, biologiche e d'uso della risorsa, per la definizione delle regole relative al suo sfruttamento, e infine per l' enforcement.
Fra i limiti di questo libro, tra l'altro limiti chiaramente dichiarati
dall'autrice, è il fatto che la discussione sia centrata sul punto
di vista degli
appropriators.
Si può facilmente intuire la motivazione dal punto di vista dell'impatto
politico di questa scelta. Però è
bene essere completamente consci che di una scelta, se non di una
forzatura, si tratta. Il dibattito sulla
tragedy of the commons,
tipicamente, si riferisce alle conseguenze tragiche che i comportamenti
individuali degli
appropriators
inevitabilmente determinano per se
stessi, ma immediatamente si estende al fatto che la scomparsa del
bene (e spesso degli
appropriators
stessi) costituisce una tragedia
per l'intera società e talvolta per l'intero genere umano. Come
Kurlansky ha fatto notare in un divertente libro di divulgazione
uscito qualche anno fa, il totale collasso dei banchi di merluzzo
atlantico davanti alle coste del Canada orientale negli anni ottanta
e nei primi anni novanta del ventesimo secolo e quello ritenuto
imminente sulle coste comunitarie del mare del Nord, costituisce
una tragedia che va ben al di là delle comunità costiere del
Newfoundland e dei pescatori scozzesi e inglesi che su tale pesca
fondavano le loro fortune. Ad esempio, incide profondamente su
usi e costumi culinari millenari e fondanti il sentire comune di
comunità che vanno dall'Europa nord occidentale
(cod fish and chips),
all'area mediterranea (si pensi al baccalà ormai introvabile,
così centrale tanto per le cucine iberiche quanto per quelle italiche), o anche
alle Antille e al Nord Africa. E la tragedia va ben
oltre aspetti puramente culturali, poiché incide profondamente su
una delle più grandi concentrazioni di risorse proteiche (appunto,
i banchi ittici dell'Atlantico settentrionale) a disposizione del
genere umano.
Il libro della Ostrom è fondamentalmente indirizzato a un pubblico di pessimisti economici col desiderio di essere redenti. Un linguaggio vivace e leggibile è stato scelto dalla Ostrom per convertire gli scettici alla possibilità di una redenzione comunitariamente trovata ed «environmentally friendly», anche in assenza di coercizione esterna. | << | < | > | >> |Pagina 11Sempre più frequentemente i media riportano la notizia della minaccia di distruzione di preziose risorse naturali. Nel giugno del 1989, ad esempio, il «New York Times» dedicò un articolo al sovrasfruttamento delle risorse ittiche nell'area del Georges Bank, a circa 150 miglia di distanza dalla costa del New England. Eppure, il pescato di merluzzo, sogliola ed eglefino era pari ad appena un quarto di quello registrato negli anni sessanta. Tutti sappiamo che il problema fondamentale è la pesca eccessiva; i soggetti direttamente coinvolti tuttavia non riescono a mettersi d'accordo su come risolvere questo problema. I Rappresentanti al Congresso raccomandano una nuova legislazione nazionale, malgrado le leggi già in vigore finora siano state fatte rispettare in modo occasionale. I rappresentanti dei pescatori sostengono che le zone di pesca non sarebbero in un così cattivo stato se il governo federale avesse rinunciato ai suoi sporadici tentativi di regolamentare la pesca nel passato. Il problema, in questo caso come in molti altri, è riconducibile alla ricerca del metodo migliore per limitare l'uso delle risorse naturali, così da assicurarne la sopravvivenza economica nel lungo termine. I sostenitori della regolamentazione centrale, della privatizzazione e della regolamentazione da parte dei soggetti direttamente coinvolti, hanno cercato di far prevalere le loro istanze politiche in una molteplicità di settori. Situazioni simili si verificano a tutti i livelli, dall'ambito locale a quello globale. Da più ambienti, accademici come politici, vengono proposte soluzioni relative al modo migliore di amministrare le risorse naturali utilizzate in comune. Alcuni articoli accademici sulla «tragedia delle risorse collettive» sostengono che «lo stato» dovrebbe controllare la maggior parte delle risorse naturali per prevenirne la distruzione; altri sostengono che, privatizzando quelle risorse, si troverà soluzione al problema. Tuttavia, ciò che si può osservare a livello globale è che né lo stato né il mercato sono in grado di garantire sempre lo sfruttamento produttivo, nel lungo periodo, delle risorse naturali. Non meno importante deve essere la consapevolezza dell'esistenza di istituzioni, non identificabili in modo netto in base alla dicotomia stato-mercato, che sono state in grado di amministrare a livello locale dei sistemi di risorse naturali, conseguendo successi significativi e per lunghi periodi di tempo. Non disponiamo ancora dei necessari strumenti o schemi metodologici per comprendere la totalità dei problemi associati all'amministrazione e alla gestione dei sistemi di risorse naturali e i motivi per i quali alcune istituzioni riescono ad essere efficaci solo in alcuni contesti. Questo libro contiene il tentativo di: 1) offrire una lettura critica dei fondamenti dell'analisi delle politiche, così come viene applicata alla gestione delle risorse naturali, 2) presentare casi concreti di tentativi, riusciti e non riusciti, di amministrare e gestire tali risorse e 3) avviare una riflessione sullo sviluppo di strumenti metodologici in grado di evidenziare capacità e limiti delle scelte (autonomamente intraprese, a livello istituzionale) in materia di regolamentazione delle diverse risorse naturali. A tale scopo, in primo luogo, descriverò i tre modelli concettuali usati più di frequente per sostenere le soluzioni basate sull'intervento pubblico o sui meccanismi di mercato. Successivamente, proporrò esempi teorici ed empirici, alternativi a questi modelli, per introdurre la possibilità di ricorrere a soluzioni che vanno oltre la scelta univoca fra stato e mercato. Quindi, mediante un modello di analisi istituzionale, cercherò di spiegare come alcune comunità di individui creino e sviluppino diversi modi di amministrare i beni collettivi. | << | < | > | >> |Pagina 93Molte delle problematiche analizzate nell'ambito di questo lavoro possono essere affrontate attraverso l'esame diretto di contesti nei quali: 1) gli appropriatori hanno ideato, applicato e monitorato il rispetto di regole nate per controllare l'uso delle «proprie» risorse collettive e 2) i sistemi di produzione delle risorse, così come le istituzioni, sono sopravvissuti per lunghi periodi di tempo. Il più recente gruppo di istituti analizzato in questo capitolo ha già più di 100 anni. La storia del sistema più antico esaminato supera i 1000 anni. Le istituzioni analizzate in questo capitolo sono sopravvissute a siccità, inondazioni, guerre, pestilenze e grandi cambiamenti economici e politici. Esamineremo l'organizzazione di risorse collettive di pascolo e boschive in aree montane della Svizzera e del Giappone e di sistemi di irrigazione in Spagna e nelle isole Filippine. Sottolineando che i sistemi di uso di queste risorse collettive sono sopravvissuti per lunghi periodi di tempo non intendo dire che le loro regole operative siano rimaste invariate dal momento in cui furono inizialmente introdotte. Tutti i contesti ambientali discussi in questo capitolo costituiscono realtà complesse, che hanno subito trasformazioni nel corso del tempo. In tali contesti, sarebbe quasi impossibile «creare regole operative definitive» al primo tentativo, o anche dopo molti tentativi. Queste istituzioni sono «stabili» o in condizioni di «equilibrio istituzionale», nel senso definito da Shepsle (1989b, p. 143), che considera «una istituzione come "essenzialmente" in equilibrio se i cambiamenti hanno agito per modificare un sistema esistente ex ante (e perciò parte dell'istituzione originaria) a fronte di cambiamenti istituzionali». In questi casi, gli appropriatori hanno previsto delle regole operative di base, creato organizzazioni per assumere la gestione operativa delle risorse collettive e modificato le proprie regole nel tempo, alla luce dell'esperienza passata, in conformità alle proprie regole in materia di scelte collettive e di scelte costituzionali. I casi descritti in questo capitolo sono particolarmente utili per approfondire le modalità in base alle quali alcuni gruppi di operatori auto-organizzati risolvono due dei maggiori interrogativi trattati nel capitolo 2: il problema della legittimazione e il problema del controllo reciproco (il problema della costituzione di istituzioni è trattato nel capitolo 4). La costante legittimazione degli appropriatori nei confronti delle loro istituzioni è stata determinante in questi casi. Regole restrittive sono state stabilite dagli appropriatori per tenere sotto controllo le attività di appropriazione e per regolamentare le attività di fornitura; si sono verificate migliaia di occasioni nelle quali avrebbero potuto essere ottenuti grandi vantaggi trasgredendo le regole, mentre le possibili penalità erano in paragone modeste. Rubare l'acqua durante una stagione secca nelle huertas spagnole avrebbe potuto, in alcune occasioni, salvare il raccolto di un'intera stagione da una distruzione certa. Evitare di attuare una manutenzione continua, giorno dopo giorno, dei sistemi di irrigazione delle Filippine poteva permettere a un agricoltore di ottenere un reddito aggiuntivo, di cui poteva avere la necessità, svolgendo altri lavori. Raccogliere illegalmente del legno all'interno di aree di proprietà della comunità fra le montagne svizzere o giapponesi avrebbe fruttato consistenti guadagni. Considerate le possibili tentazioni, gli alti livelli di rispetto delle regole, verificati in tutti questi casi, sono stati notevoli. Grandi risorse vengono investite in questi esempi nel controllo delle attività, ma i «guardiani» sono raramente agenti «esterni». I sistemi di sorveglianza cui si fa ricorso sono molto diversi. In tutti questi sistemi sono gli appropriatori stessi che svolgono un ruolo importante nel controllo reciproco delle proprie attività. Anche se il controllo reciproco presenta degli aspetti di un dilemma di secondo ordine, gli appropriatori di questi contesti riescono a risolvere in qualche modo questo problema. Inoltre, le penali accertate in questi contesti sono sorprendentemente basse, superando raramente una piccola frazione del valore monetario che potrebbe essere ottenuto violando le regole. Nella conclusione di questo capitolo, sostengo che la legittimazione e il controllo siano strategicamente legati e che la sorveglianza produca vantaggi privati per il sorvegliante, nonché vantaggi collettivi per gli altri. Nello spiegare i motivi della stabilità di queste istituzioni e dei sistemi di produzione delle risorse nel tempo, in ambienti caratterizzati da alti livelli di incertezza, occorre giustamente evidenziare le specificità delle comunità da cui questi esempi sono tratti, fatto che può spiegare questo livello di sostenibilità. Date le differenze degli ambienti e degli sviluppi storici, non ci si aspetta che le particolari regole adottate in questi contesti siano le stesse. E non lo sono. Dato il lunghissimo tempo che hanno avuto a disposizione per studiare le norme operative, attraverso tentativi ed errori, data l'asperità di questi ambienti come stimolo ad apportare miglioramenti e dati i bassi costi di modifica delle rispettive regole operative, è tuttavia ipotizzabile che questi appropriatori abbiano «scoperto» alcuni principi su cui basare un buon metodo di progettazione istituzionale in un ambiente caratterizzato dall'uso di risorse collettive. Non pretendo che le istituzioni concepite in questi contesti siano in alcun senso «ottimali». In effetti, dati gli elevati livelli impliciti di incertezza e la difficoltà di misurare benefici e costi, sarebbe estremamente difficile ottenere una misura significativa di ottimalità. D'altro canto, non esito a dirlo, queste istituzioni hanno avuto successo. In tutti i casi, gli individui interessati hanno avuto una considerevole autonomia nel costruire le rispettive istituzioni. Data l'importanza di queste risorse collettive per gli appropriatori che le utilizzano e data la capacità di questi ultimi di modificare le regole alla luce della passata esperienza, essi hanno avuto gli incentivi e i mezzi per migliorare le istituzioni nel tempo. Le ricchezze naturali delle aree montane svizzere e giapponesi sono state preservate, se non addirittura rafforzate, nel corso dei secoli, pur essendo state sfruttate intensivamente. La sostenibilità ecologica, in un fragile mondo caratterizzato da valanghe, precipitazioni imprevedibili e crescita economica, è un grande risultato per qualsiasi gruppo di appropriatori che abbia utilizzato per molti secoli delle risorse naturali. Anche la conservazione e la manutenzione di sistemi di irrigazione su larga scala nel difficile ambiente naturale della Spagna e delle Filippine sono stati successi altrettanto notevoli. Tale record non è stato eguagliato dalla gran parte dei sistemi di irrigazione costruiti in tutto il mondo durante gli ultimi 25 anni. In considerazione di tutto ciò, il mio intento è stato quello di identificare un insieme di principi di progettazione di base, comuni alle istituzioni di successo, al fine di determinare in quale modo la loro applicazione abbia influenzato e incentivato gli appropriatori, e preservato nel tempo l'uso delle risorse collettive e le stesse istituzioni che ne disciplinano l'uso. Quando, nel capitolo 5, verranno trattati i casi in cui gli appropriatoci non sono stati in grado di ideare o mantenere vive, nel tempo, delle organizzazioni istituzionali in grado di risolvere i problemi dell'uso delle risorse collettive, si valuterà in quale misura i principi di progettazione adottati dagli appropriatori nei casi di «successo» siano riscontrabili anche nei casi di «insuccesso». I casi discussi in questo capitolo ci aiutano anche a esaminare altre due questioni. In primo luogo, l'analisi delle istituzioni legate all'uso di risorse collettive nelle zone di montagna svizzere e giapponesi (aree a rischio e in precario equilibrio) al fine di ottenere alimenti e prodotti forestali, è funzionale a contestare la questione della presunta prevalente superiorità delle istituzioni di proprietà privata ai fini della ripartizione e specificatamente riguardo alle destinazioni d'uso del territorio. Sebbene molti studiosi di economia pubblica e territoriale ammettano che difficoltà tecniche impediscono la creazione di diritti di proprietà privata sulle risorse a durata limitata, come le acque di falda, il petrolio e il pesce, la quasi totalità di questi esperti condivide il presupposto secondo il quale la creazione di diritti di proprietà privata su terre arabili o da pascolo sia un'ovvia soluzione al problema del degrado. Dasgupta e Heal (1979, p. 77), ad esempio, sostengono che quando vengono introdotti i diritti di proprietà privata su aree di terra arabile o da pascolo, «la risorsa cessa di essere di proprietà comune e il problema viene risolto di colpo». Molti teorici dei diritti di proprietà sostengono che, in regime di proprietà comune, è probabile che emerga uno dei seguenti risultati indesiderati: 1) le risorse comuni vengono distrutte perché nessuno può essere escluso dal loro utilizzo o 2) i costi della negoziazione di un insieme di regole di ripartizione risultano eccessivi, perfino nel caso in cui si pervenga all'esclusione. Al contrario, ciò che si osserva in questi casi è la costante coesistenza, fianco a fianco, di proprietà privata e di proprietà comune, in contesti nei quali gli individui interessati hanno esercitato un considerevole controllo nella definizione degli accordi a livello istituzionale come dei diritti di proprietà. Generazioni di abitanti nei villaggi svizzeri e giapponesi hanno valutato i benefici e i costi della gestione in comune, come della proprietà privata, connessi alle varie tipologie di terreni e alle loro diverse destinazioni d'uso. I valligiani, in entrambi i contesti, hanno scelto di conservare l'istituzione della proprietà comune come fondamento dell'uso della terra e di importanti analoghi aspetti delle economie dei villaggi. La sopravvivenza economica di questi abitanti è dipesa dall'abilità con cui essi hanno utilizzato le loro risorse limitate. Non si può considerare la proprietà comune, in questi contesti, come residuo primordiale di antiche istituzioni che si sono evolute in una terra ricca. Se i costi di transazione della gestione in comune fossero stati di molto superiori ai costi che si sarebbero verificati in presenza di istituzioni di proprietà privata, gli abitanti dei villaggi avrebbero avuto molte opportunità di ideare diversi sistemi di proprietà della terra per la gestione delle risorse collettive montane. In secondo luogo, nei seminari da me tenuti mi è stato spesso chiesto, quando presentavo i casi della Svizzera, del Giappone o della Spagna, se gli stessi principi di progettazione potessero essere utili per la soluzione di problemi riferiti all'uso di risorse collettive nei contesti del Terzo Mondo. L'ultimo caso trattato in questo capitolo, le istituzioni zanjera delle Filippine, rappresenta una risposta nettamente affermativa a questa domanda. Tutti i principi di progettazione presenti nei casi svizzeri, giapponesi e spagnoli sono presenti anche nel caso filippino. Un'analisi delle analogie di base delle istituzioni garanti dell'uso di risorse collettive rimaste attive per lunghi periodi di tempo, per quanto basata su un numero limitato di casi, può avere applicazioni più vaste. | << | < | > | >> |Pagina 269Nel capitolo 1 abbiamo discusso tre modelli utilizzati per giustificare la raccomandazione politica secondo la quale agli individui che usano collettivamente le risorse collettive dovrebbero essere imposte delle soluzioni da parte di autorità pubbliche esterne: la tragedia dei beni collettivi di Hardin, il gioco del dilemma del prigioniero e la logica dell'azione collettiva di Mancur Olson. Tutti e tre i modelli portano a prevedere che coloro che utilizzano tali risorse non coopereranno in modo tale da ottenere vantaggi collettivi. Inoltre, si ritiene che gli individui siano intrappolati in una situazione statica e che non siano in grado di modificare le regole che influenzano i loro incentivi. I casi presentati in questo studio provengono da un universo di sistemi d'uso di risorse collettive di dimensioni relativamente piccole (la più grande comprende circa 15.000 appropriatori), ciascuna situata in un solo paese. In tutti questi casi, coloro che si appropriano delle risorse sono fortemente dipendenti da un flusso di risorse scarse per realizzare dei profitti economici. I casi evidenziano come alcuni degli appropriatori appartenenti a questi contesti, ma non tutti, risolvano quelli che sono considerati dilemmi di secondo ordine, per organizzare le loro stesse istituzioni. Varie strutture istituzionali vengono ideate per giungere a questi risultati. Diritti commerciabili relativi al flusso delle unità di risorse sono stati sviluppati ad Alicante e in tre dei bacini di acqua di falda della California, ma gli stessi sistemi di risorse non sono divenuti di proprietà privata. Forme di organizzazioni pubbliche sono state usate, inoltre, nei bacini idrici della California e in diversi altri contesti, ma nessuno dei casi che hanno avuto successo ha comportato una regolamentazione diretta da parte di un'autorità centrale. La gran parte delle strutture istituzionali utilizzate nei casi di successo erano articolate combinazioni di strumenti pubblici e privati. Questo studio, se solo riuscirà a demolire la convinzione di molti analisti politici che l'unica via per risolvere i problemi delle risorse collettive sia quella dell'imposizione, da parte di autorità esterne, di diritti di proprietà privata assoluti o di una regolamentazione centralizzata avrà realizzato uno scopo importante. Allo stesso tempo, non si pretende che le strutture istituzionali costituite da coloro che si appropriano delle risorse collettive, piuttosto che da autorità esterne, abbiano prodotto soluzioni ottimali. Il caso Mojave illustra chiaramente questo punto. Ma la sopravvivenza, per lunghi periodi di tempo, delle risorse descritte nei capitoli 3 e 4, nonché delle istituzioni per amministrare quelle risorse testimonia il raggiungimento di un livello almeno minimo di soluzione. Questo studio ha ancora un altro scopo, oltre a sfidare l'assunto secondo il quale panacee istituzionali universali dovrebbero essere imposte da autorità esterne per risolvere problemi di dimensioni minori, ma comunque complessi, incerti e difficili. Osservare che il mondo è più complesso di come viene presentato in questi modelli è ovvio e non risulta di alcun aiuto. Ciò che occorre è un ulteriore sviluppo teorico, che aiuti a individuare le variabili da includere in qualsiasi tentativo di spiegare e prevedere in quali circostanze è più probabile che gli appropriatori che usano risorse collettive di dimensioni minori si organizzino e amministrino efficacemente le loro risorse collettive, e in quali casi è più probabile che non riescano nel loro intento. Questo sviluppo teorico non solo dovrà fornire modelli più utili ma, soprattutto, dovrà tracciare un quadro generale che aiuti a dirigere l'attenzione degli analisti verso importanti variabili di cui occorre tenere conto nel lavoro empirico e teorico. I modelli descritti nel capitolo 1 non sono errati. Laddove le condizioni nel mondo si avvicinano alle condizioni presunte nei modelli è prevedibile che i comportamenti e le conseguenze osservati si avvicinino ai comportamenti e alle conseguenze previsti. Quando individui caratterizzati da alti tassi di sconto e scarsa fiducia reciproca agiscono in modo indipendente, senza la capacità di comunicare, di stipulare accordi vincolanti e di predisporre meccanismi di sorveglianza e applicazione forzata è improbabile che essi scelgano strategie collettivamente vantaggiose, a meno che tali strategie non siano le loro strategie dominanti. Il crollo della pesca delle sardine nel Pacifico (McHugh 1972) e il crollo della pesca della balena blu nell'Antartico (Clark 1977) sono tragiche testimonianze della capacità di questi modelli di prevedere le conseguenze di situazioni empiriche che si avvicinano alle condizioni teoriche. Si tratta non di modelli errati, ma di modelli particolari che si basano su presupposti, anziché su teorie generali. Questi modelli riescono a prevedere strategie e conseguenze in situazioni date, che si avvicinano alle condizioni iniziali dei modelli stessi, ma non sono in grado di prevedere conseguenze al di fuori di tale ambito. Essi sono utili per prevedere il comportamento nell'ambito di sistemi d'uso di risorse collettive di grandi dimensioni, nelle quali nessuno comunica, ognuno agisce in modo indipendente, non viene posta alcuna attenzione agli effetti delle proprie azioni e il costo implicato dal tentativo di cambiare la struttura della situazione è alto. Essi, però, sono molto meno utili per descrivere il comportamento di coloro che si appropriano delle risorse collettive in contesti di piccole dimensioni, oggetto della nostra indagine. In tali situazioni, gli individui comunicano e interagiscono ripetutamente tra loro. In questo modo, è possibile che essi sappiano di chi fidarsi, quali effetti avranno le loro azioni nei confronti gli uni degli altri e nei confronti della risorsa, e come organizzarsi per ottenere vantaggi ed evitare danni. Quando gli individui hanno vissuto in tali situazioni per un tempo significativo e hanno sviluppato norme e modelli di reciprocità essi posseggono un patrimonio di natura sociale, con il quale possono costruire strutture istituzionali per risolvere i dilemmi delle risorse collettive. I modelli che presuppongono l'assenza di comunicazione e di capacità di modificare le regole, se applicati ai sistemi di dimensioni minori, sono applicati al di fuori del loro ambito specifico. L'applicazione dei modelli al di fuori del loro ambito specifico può produrre più effetti negativi che positivi. Le politiche pubbliche basate sul concetto che tutti coloro che si appropriano delle risorse collettive sono incapaci e hanno bisogno di regole che vengano loro imposte possono distruggere un capitale istituzionale che è stato accumulato durante anni di esperienza in determinate località, come evidenziato nei casi delle zone di pesca della Nuova Scozia. Il fatto che i modelli vengano applicati metaforicamente a una grande varietà e non a un insieme limitato di situazioni non deve essere imputato interamente agli analisti politici e alle autorità pubbliche. Mode e abitudini si diffondono attraverso le università così come in altri contesti. Tra molti accademici esistono forti preferenze per i modelli analitici fissi, che forniscono previsioni chiare. Per rendere trattabile un modello, i teorici devono ricorrere a postulati semplici. Molti di questi postulati equivalgono a fissare un parametro (ad esempio, la quantità di informazioni a disposizione dei partecipanti, o l'ampiezza della comunicazione) pari a una costante (ad esempio, informazioni complete o assenza di comunicazione). Il modello risultante, dato che appare relativamente semplice, con solo poche parti variabili, può essere considerato da qualcuno un modello generale, piuttosto che un modello particolare, come in effetti è. La semplicità e la generalità apparenti non sono, tuttavia equivalenti. Dare a una variabile un valore costante di solito restringe, invece di allargare, la sfera di applicabilità di un modello. Inoltre, le politiche basate su modelli che rappresentano le situazioni come immutabili o prestabilite in modo esogeno, anche se ripetitive, conducono alla raccomandazione politica secondo la quale un individuo esterno alla situazione dovrebbe modificare la struttura in essere. L'analista che tenta una chiara previsione in merito agli equilibri deve mantenere alcune variabili costanti (e quindi esogene) nell'analizzare gli effetti di un numero limitato di variabili endogene che si immagina siano sotto il controllo di coloro che sono all'interno della situazione. Questi modelli dimostrano cosa faranno gli individui in una situazione che non possono cambiare. Questi modelli non ci dicono cosa faranno gli individui se hanno il potere autonomo di costruire le loro stesse istituzioni e se possono influire sulle norme e i vantaggi reciproci. Né possiamo sapere in quale modo la capacità degli innovatori di sviluppare delle istituzioni che possano portarli a risultati migliori e non peggiori, per se stessi e per gli altri, possa essere rafforzata o bloccata dalle strutture degli ordinamenti istituzionali del regime politico circostante. Sarebbe naturalmente possibile sviluppare dei modelli per descrivere in quale modo gli individui possano cambiare la struttura della situazione in cui si trovano, nel corso del tempo, ma le analisi politiche correnti si basano sui modelli statici trattati nel capitolo 1.
L'analisi approfondita dei casi di studio può rafforzare l'apprezzamento per
l'arte umana di forgiare e riforgiare proprio le
situazioni in cui gli individui devono prendere decisioni e subire le
conseguenze delle azioni compiute, su base quotidiana. Gli appropriatori di
Alanya, Torbel, dei villaggi di montagna giapponesi, di
Valencia, Ilocos Norte, dei bacini di acqua di falda della California
e perfino di Mawelle, hanno tutti trasformato le strutture che si
presentavano loro, partendo da una struttura in cui un insieme di
individui non organizzati prendeva decisioni indipendenti sull'uso
di una risorsa collettiva che rendeva scarse unità di risorse, e trasformandola
in una struttura in cui un insieme di individui organizzati prendeva decisioni
in modo sequenziale, contingente o a
cadenza fissa. Gli agricoltori dello Sri Lanka, che vivevano in
grandi insediamenti, non erano in grado di trasformare la struttura
di incentivi che si prospettava loro, fino a quando degli agenti
esterni non diedero inizio a piccoli cambiamenti, che alla fine
furono usati come base di grandi cambiamenti istituzionali. I
pescatori di Bodrum e della baia di Izmir continuano a sperimentare la
dispersione della rendita e non sembrano in grado di modificare la situazione in
cui si trovano. Gli abitanti del deserto di
Mojave possono esaurire completamente il loro bacino sotterraneo, pur avendo
tentato di risolvere i problemi di appropriazione
e di organizzazione ideando istituzioni nuove, ma inadeguate.
Per quale motivo alcuni di coloro che si appropriano delle risorse collettive riescono a dotarsi di nuove regole, a ottenere un rispetto quasi volontario di tali regole e a sorvegliarne reciprocamente il rispetto delle regole, mentre altri non ci riescono? Come sostenuto nel capitolo 2, la costituzione di nuove istituzioni, gli impegni credibili e la sorveglianza reciproca non si spiegano facilmente mediante le vigenti teorie istituzionali. Nel capitolo 3, ho offerto una spiegazione iniziale per quanto riguarda gli impegni credibili e la sorveglianza reciproca, in cui le regole per l'uso di una risorsa collettiva sono conformi a un insieme di principi progettuali. La spiegazione si basa molto anche sui postulati del capitolo 2, a proposito di individui, fallibili, che adottano norme e che perseguono strategie contingenti, in ambienti complessi e incerti. Si può prevedere che tali individui prendano impegni contingenti a seguire regole che: - definiscono un insieme di appropriatori autorizzati a usare una risorsa collettiva (principio progettuale 1); - si riferiscono agli attributi specifici della risorsa collettiva e della comunità degli appropriatori che la usano (principio progettuale 2); - sono predisposte, almeno in parte, da appropriatori locali (principio progettuale 3); - sono sorvegliate da individui che rispondono agli appropriatori locali (principio progettuale 4);
- sono soggette a sanzioni mediante penalità graduali (principio
progettuale 5).
Se gli individui vengono dotati di regole che soddisfano questi
criteri, essi possono prendere impegni credibili, vantaggiosi e sicuri. Si
tratta di impegni volti a rispettare le regole fintantoché:
1) individui in situazioni molto simili prendono gli stessi impegni e 2)
i benefici netti previsti a lungo termine, da ottenere attraverso
questa strategia, sono maggiori dei benefici netti previsti a lungo
termine per gli individui che seguono strategie dominanti a breve termine.
|