Copertina
Autore Ottiero Ottieri
Titolo Donnarumma all'assalto
EdizioneGarzanti, Milano, 2004 [1959], gli elefanti , pag. 256, cop.fle., dim. 120x190x20 mm , Isbn 978-88-11-67806-9
PrefazioneGiuseppe Montesano
LettoreRenato di Stefano, 2004
Classe narrativa italiana , storia sociale
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Pagina 5

PREMESSA



Domani, lunedí, comincio.

Stamani abbiamo lasciato a Santa Maria l'albergo delle Terme sul lungomare, alla volta della nostra casa d'affitto sulla Statale, sopra Castello. Mentre scendevo con le valige nell'atrio, un uomo vestito di maglia marrone è venuto avanti e ha chiesto del direttore, di me.

Ho detto subito: «Io non sono il direttore. Sono un impiegato qualsiasi. Non ho ancora cominciato a lavorare.»

L'uomo non si è dispiaciuto né si è deluso, come se non vi credesse o come se un impiegato del nuovo stabilimento valesse comunque un direttore. Alto, dignitoso, biondastro, aveva ugualmente una domanda pronta: «Dottore, cercate una casa?»

«L'ho trovata. Ci sto andando.»

«Io tengo un'occasione per voi. Un grande palazzo. In via Dante...»

«Alighieri?»

«Come conoscete questa via, dottore?»

«Non conosco la via... Conosco il nome.»

«Vi ricordate anche voi di quella grande, grandissima nava?»

«Non mi ricordo una nave...»

«Mio padre faceva il cuoco nella Dante Alighieri. L'hanno varata che ero piccolo. Vedeste che bella nava e che bella via, come la nava. Voi il nome già lo conoscete. Un palazzo adatto per voi, per un direttore.»

«Ho già trovato la casa... Ci sto andando. Non sono direttore. Mi raccomando, ditelo qui in giro che io non sono direttore.»

Sempre a disposizione, fiero di questo nuovo compito, egli si è inchinato solennemente:

«Non ve ne incaricate, dottore.» Ha preso le nostre valige fino all'automobile davanti al mare.

La sua maglia marrone era una di quelle maglie grosse che nelle città settentrionali le portano d'inverno sotto la camicia; era questa una divisa del sottoproletariato, lacera e nobile, ed egli la indossava come una corazza piena di buchi, come un giustacuore.

Non sono direttore. Sono un impiegato addetto all'ufficio del personale del nuovo stabilimento meccanico costruito a Santa Maria da una grande Società del nord. I miei compiti riguarderanno specialmente le assunzioni di operai: esse vengono fatte con l'aiuto della psicotecnica, la scienza dei test, e con l'intervista di selezione. Questo è un colloquio durante il quale si indaga la personalità dell'intervistato.

Lo stabilimento funziona da qualche anno, ma ha avuto inizi graduali, e solo adesso vi si crea una struttura organizzativa, ancora fresca, gracile. I dirigenti sono pochi e accentrano molte mansioni. Il direttore dello stabilimento tratta lui con la commissione interna; l'ingegnere, direttore della produzione, si occupa lui degli operai, che conosce uno per uno. L'ufficio del personale è appena nato, e sarà tutto assorbito dal problema delle assunzioni, dei rapporti con l'esterno: di contro a tre, quattrocento assunti e ad una espansione prevista di qualche altro centinaio, tutta la zona popolatissima ha fatto domanda per il nuovo stabilimento. Solo quando avrà fronteggiato le riçhieste esterne e acquistato prestigio presso i capi, l'ufficio del personale si occuperà anche degli operai interni. Per adesso il vero capo del personale è il direttore.

Lo stabilimento è sorto come un'officina, un reparto staccato dagli stabilimenti centrali. Piuttosto che allargare questi, nel nord, con un nuovo edificio, la costruzione è stata trasportata nel Mezzogiorno. Non è un capannone: l'architetto ha progettato una delle piu belle fabbriche d'Europa, colorata, circondata da un giardino; e intorno ad essa l'infermeria, la biblioteca, la mensa. Vi nasce un mondo unitario, caduto dall'alto nelle sue forme, ma per affondare nella terra e nello spirito di questo paese.

Questo paese è come una miniera umana; cova fra le piu profonde ricchezze d'uomini nel mondo. Noi siamo venuti a scoprire un nuovo, difficile oro, sepolto dalla natura e dalla storia.

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Marzo - Lunedí

Sono entrato per la prima volta, all'improvviso, nel laboratorio psicotecnico.

C'erano i candidati, seduti ai banchi, e hanno alzato il capo dai fogli dei test per osservarmi. Eccone un altro, pensavano, il nuovo, l'ultimo venuto. Che tipo è? Porta bene o male? Lo sanno che il nuovo impiegato arriva sul loro destino. Una luce forte fluiva dalle due pareti di vetro, d'angolo, ma subito mi sono tolto gli occhiali neri; tuttavia mi sono comportato freddamente, da funzionario indecifrabile senza guardare in faccia nessuno. Infatti non ho veduto nessuno. Ho salutato la signorina S., la mia collega, e mi sono dato a sfogliare le pratiche dei candidati sul tavolo accanto alla lavagna.

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Lunedí.

Nell'atrio vastissimo dello stabilimento, fresco di aria del mattino, silenzio, odoroso - danno un olio sui pavimenti rossi - passa lo stato maggiore dei lombardi, alti e chiari, razza diversa dai locali; essi escono dall'ufficio tecnico e irrompono sicuri nell'officina, scavalcando dal silenzio allo strepito impastato delle macchine. Quando ci sono loro, per soggezione ci si tiene un po' indietro.

Ma per ora è coi lombardi che preferisco parlare: ognuno mostra chiaro il suo carattere, e facciamo insieme il confronto con gli stabilimenti da cui ci hanno trasferiti, pieni di ricordi comuni, di tradizioni, di celebri nomi.

I meridionali, quelli di Santa Maria, sono piu monotoni, avendo tutti la stessa gioia del posto; ignari, credono che l'unica industria sia questa qui, isola affiorata da un mare senza continenti, anche in questa zona che dovrebbe essere industriale.

I lombardi, quando vanno in gruppo, avanzano tracotanti. Ma con uno di questi biondi, il piu modesto di cuore, che comanda il reparto nobile, ho già fatto amicizia. Nel suo reparto, l'attrezzaggio, si parla discretamente perché il rumore non è ancora infittito e gli uomini procedono calmi intorno ai banchi e alle macchine utensili con un ritmo umano. L'attrezzaggio ha macchine per preparare gli attrezzi e gli stampi per le altre macchine della «grande serie» (quelle che fabbricano i nostri prodotti tutti uguali, a migliaia) e fa un lavoro lento, preciso, di piccola serie o di pezzi unici. Qui ancora lo stesso uomo inizia e finisce un lungo compito sull'irrimediabile acciaio, intento alla qualità, non al ritmo.

Le macchine sono state dipinte d'azzurro, e le loro parti in movimento d'arancione vivo, i colori contro gli infortuni. Gli operai ci stanno larghi sul pavimento lucido e fra le macchine distanti fra loro come in una vetrina. Pare che non ci sia nessuno.

Dalla vetrata a occidente, verso l'isola, il sole obliquo del tramonto filtra e lambisce le facce degli attrezzisti in tuta blu, colorandole di rosa. Lavoravano traversati da una luce idillica e liquida.

Per me - e per altri - l'industria finora è stata la concentrazione, la folla fitta di teste e di macchine sotto i capannoni scuri e i fiochi tetti a sega. Il sole nella fabbrica, il cielo, il verde e il mare, benché li ami, non mi convincono. Sono nato nel centro d'Italia e la giovinezza l'ho tutta trascorsa in paese di sole, diventando meridionale. Ma l'industria l'ho conosciuta nel nord e la caratteristica di essa rimane sempre quella d'essere grigia, se è una industria vera. Le officine le ho sempre viste nere e senza spazio, come se la loro forza fosse proprio questa.

Ripamonti, capo dell'attrezzaggio, che viene dal settentrione, queste cose potrebbe capirle. È un vero capo, educato, dignitoso; spesso sorride, con morbide labbra grosse in una faccia sottile. Abbiamo cominciato, commentando insieme la novità, il colore delle sue macchine, di cui è un po' fiero e un po' liberamente scettico; ma per quanto irreprensibile, nei confini del regno tecnico e produttivo egli considera suo dovere esercitare una critica assoluta. Si arresta, se mai, sulle soglie dell'ideologia. Io avevo ritegno a entrare nell'argomento che, sotterraneo, qui domina sempre, fatale, anche se è stucchevole o odioso. Come si comportano gli operai meridionali?

«Come si comportano...?» ho detto piano.

Ha sorriso alzando il labbro. Si è guardato in giro fra i suoi uomini, soddisfatto. «Adesso sono molto bravi, sono molto contento».

«E prima?»

«Volevano sempre mettersi in luce con le parole, prima che coi fatti, mi capisce dottore. Ho spiegato che devono farsi in gamba coi fatti. Portarmi il pezzo. Non mi devono raccontare, raccontare, niente... Solo portarmi il pezzo... Ora andiamo d'accordo.» Alzava piu fortemente il labbro, nel suo sorriso frenato ma cosciente, nella sua circospezione senza viltà. «Ora li tengo in pugno» ha concluso quietamente.

Al centro dell'officina (al centro della croce, perché è composta di quattro bracci: come la rosa dei venti si irradia nel giardino ai piedi della brulla collina), anche nel profondo del frastuono, entrano dai vetri la luce fresca del cielo e il verde vicino degli alberi. L'ambiente è cosí spazioso, che l'intrico dell'officina vi si allenta, e forse disorienta il visitatore il quale si trova fra le macchine, ma come al limitare di un prato, di un bosco.

La «grande serie», il lavoro monotono e ripetuto delle macchine che fanno i milioni di pezzi per i nostri prodotti in serie, penetra lo stesso col suo strepito nel cervello, nelle orecchie e negli occhi.

Gli operai dei torni automatici, in piedi, osservano questi torni; girano intorno a queste macchine sputazzanti olio, le caricano di lunghe barre d'acciaio; poi controllano lo scatto ruotante degli utensili, che lavorano la barra, la materia prima, come mani svelte e successive: sotto, le migliaia di pezzi fatti, piccole viti, chiodi, rotolano nelle cassette come farina. Gli operai delle presse, delle frese, dei trapani stanno piu legati alla monotonia e al ritmo, di cui sono parte. Corrono fermi a centinaia di migliaia di pezzi all'ora, a testa bassa, con uno sforzo che sembra di assurda accelerazione, ma che serve soltanto alla regolarità. Tutti giovani, nuche fresche, sfumature di capelli da ragazzi, spingono sempre un poco di piú, impercettibilmente, per non lasciarsi invischiare dall'inerzia. Questa è la loro fatica: essa nemmeno si vede, poiché la regolarità, chiusa nel cottimo, sembra un moto facile e perpetuo.

Un lavoro difficilissimo e stupido. Subito si riconosce, simbolo della grande serie, di cui protagonista è il manovale specializzato, l'uomo di passaggio fra l'artigianato e l'automazione, manovale ma specializzato, monotono ma abile, intercambiabile come i pezzi che produce eppure carico di una attenzione, di una responsabilità da tecnico insostituibile.

Ecco la contraddizione per cui abbiamo paura del macchinismo industriale, e ne proviamo un fascino: esso scompone, frammenta la personalità umana nello stesso momento che pone il proletario nella condizione del suo piú alto impegno morale.

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Pagina 36

C'è una continua oscillazione fra l'ardore smisurato di lavoro che anima gli aspiranti e quel sospetto - che fanno nascere - di essersi senza valerlo abituati all'imbroglio, all'arrangiamento e alla pigrizia.

Da una parte hanno una smania di lavorare che li sprona e acceca e una abitudine fissa, antica, di cercare lavoro piú che di lavorare; dall'altra parte una abitudine alla disoccupazione cosí profonda che ha generato i suoi vizi e le sue difese naturali.

Questi vizi e queste difese naturali esasperano. Quando si dimentica che sono un prodotto storico, ci si trasforma in coloro che scendendo alla stazione non vedono niente, hanno solo terrore di essere derubati delle valige. Le querimonie, le profferte di devozione, le insistenze di certi candidati irritano. Fanno scoprire fatali trucchi dovunque, un paese dove fiorisce la menzogna, un paese che bisogna abbandonare. Poi si legge nei loro occhi la solita, antica tristezza e lo spavento: stanno dignitosamente schiacciati fra l'ossequio e la speranza, come nel battente di una porta, e torno meridionale.


Il colloquio e gli esami psicotecnici alzano una rete protettiva, un vaglio fra noi e loro, tra la fabbrica e il paese; sono anche la nostra difesa dalla disoccupazione. Questa rende immorale la psicotecnica che potrebbe essere neutra, e invece si colora del luogo dove si svolge. Selezione scientifica e disoccupazione si negano. La selezione potrebbe anche avere un valore umano, se la domanda e l'offerta di lavoro stessero in equilibrio; la selezione sarebbe un orientamento, anche per loro, una scala di attitudini relative, non di meriti assoluti. (Un sociologo ha osservato che è inutile stabilire in laboratorio l'idoneità di un gruppo di operai a entrare in una fabbrica di tappi, se le fabbriche di tappi della zona chiudono).

La selezione non sarebbe una decisione definitiva: un uomo può sempre migliorare, o almeno cambiare. Ma cosí i buchi del setaccio sono di diametro fisso e troppo piccolo, non piccolo per cattiveria nostra o perché la nostra tecnica è troppo severa: ma sempre piu piccoli quanto piú vi sia sproporzione fra la domanda e l'offerta, necessità di scarto.

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