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| << | < | > | >> |IndiceI Conquistatori 7 Il peso delle ore 31 Gogomobil 47 Chi se ne frega 57 Come sono strani gli uomini 67 Sono ancora a Berlino. E sto morendo di paura 83 Il premio 99 Le pene dell'inferno 119 Stripper 131 Gli anni di Venusberg 141 |
| << | < | > | >> |Pagina 9 [ inizio libro ]- Sono figlia di Changó, sono sangue suo.Beve una sorsata di Hatuey, si guarda intorno con un misto di alterigia e distacco, come se il suo lignaggio, lo stesso del dio Changó, la collocasse al di sopra di miserie e umiliazioni. Indossa un vestito nero corto, senza maniche, leggermente strappato sotto l'ascella. È truccata appena e, come ornamento, porta soltanto un paio di minuscoli orecchini, tutto il contrario dell'altra che invece è addobbata dalla testa ai piedi: nastri colorati intrecciati ai capelli neri, strati successivi di bracciali tintinnanti ai polsi, due orecchini su ciascun lobo, unghie smaltate, varie tonalità di fard, fuochi d'artificio con cui nascondere la mancanza di intelligenza. Era stata quella truccatissima a rivolgersi a me per prima. Stavo seduto nella hall dell'Hotel Sevilla, vicino alla porta perché mi giungesse un po' di fresco dalla strada, e bevevo un mojito troppo dolciastro. Lei era ferma davanti all'entrata, e già da un po' mi lanciava sguardi ipoteticamente seduttori che non avevo voluto cogliere. Alla fine si decise e mi fece un segno. Mi volsi verso di lei malvolentieri; la sua professione si indovinava a un chilometro di distanza e a me non andava di portarmi a letto quell'albero di Natale. Mi chiese di invitarle a sedersi con me - solo allora mi resi conto che erano in due - poiché senza l'invito di un cliente non le lasciavano passare e lei ne aveva piene le palle di aspettare in piedi. Non volli sembrare crudele e feci cenno al portiere che le signorine erano mie ospiti. | << | < | > | >> |Pagina 61Dopo la partenza di Marichel mi venne un po' di malinconia. Non perché se n'era andata, sia chiaro, ma perché a Colonia c'era un tempo di merda, la stufa a carbone non tirava e la mia stanza era una squallida topaia, anche se questa non era una novità, me n'ero accorto il giorno in cui l'avevo presa in affitto. La padrona me l'aveva mostrata ben consapevole che non valesse niente, ma con l'aria di credere che neppure il futuro affittuario valesse poi tanto. Era un locale minuscolo, con un letto ormai a pezzi che, con un copriletto e un paio di cuscini, fungeva anche da divano - un tavolo e una sedia in truciolato, una lampada a gomito e una merdosa stufa d'anteguerra. Il bagno in comune era pieno di peli, muffa e pozzanghere di acqua lercia, mentre in cucina le pentole sporche avevano formato una pila; ma il momento clou del sopralluogo fu quando mi indicò la dispensa e vidi che straripava di sacchi pieni di spazzatura. Questi ragazzi! disse, come fossero figli suoi un po' bricconcelli, ma mi scucì i duecento cinquanta marchi senza vergognarsi minimamente per lo stato della stanza.'Questi ragazzi' erano Karl e Theo. Fino ad allora credevo che i finocchi fossero persone pulitissime, dal momento che tengono tanto all'aspetto esteriore, be', come minimo me li immaginavo sempre con straccio e piumino in mano. Il fatto che fossero finocchi lo capii subito, non appena la padrona di casa li chiamò e loro si misero a riordinare la cucina, Karl con un sorriso di scusa che non riuscii a interpretare, Theo invece con uno sguardo da poeta romantico, ma non malinconico come quello degli eroi dei libri, bensì il più gelido che avessi mai visto. Se ti guardava, dovevi darti un pizzicotto per avere la certezza di non esserti trasformato in un attaccapanni. Con Karl andavo d'accordo. Anche se non avevamo molto da dirci. O forse proprio per questo. Non è che la sua omosessualità mi desse fastidio, ma non sapevo bene come comportarmi. Ci scambiavamo qualche frase nel corridoio, oppure un saluto quando andavo a riprendere il telefono in camera sua, poiché c'era solo un apparecchio nel corridoio con un cavo lunghissimo e per parlare ognuno se lo portava in stanza. L'idea di rimettere a posto il telefono non lo sfiorava minimamente e quando io lo cercavo, a volte anche senza averne bisogno, ma solo per rompere i coglioni e perché si rendesse conto che la sua camera non era il posto deputato al telefono, lui mi guardava con un'aria di scusa e con un sorriso indecifrabile. Quello con cui avevo zero rapporti era Theo. Viveva rinchiuso nella sua tana, in attesa di una misteriosa opportunità per andare a Berlino; sto raccontando fatti antecedenti al crollo del famoso muro, e siccome i berlinesi avevano il privilegio di non fare il servizio militare, i più furbi se ne scappavano lì prima di ricevere la cartolina. Theo molto furbo non doveva essere perché non gli era ancora capitata l'occasione di andarsene e ora faceva la vita del fuggiasco, sempre al buio, stile orso. Non appena rientrava a casa si chiudeva a chiave in camera sua, spegneva la luce e rimaneva nel silenzio, come un animaletto, ah, quanto mi sarebbe piaciuto fare come in alcuni programmi televisivi dove sistemano una telecamera nella tana di una bestiolina e ti fanno vedere tutto quello che fa sottoterra quando crede che nemmeno Dio la veda. | << | < | > | >> |Pagina 72È difficile fare conversazione con qualcuno di cui non puoi esplorare un minimo le origini. Senza parlare almeno un po' del passato, non c'è speranza di trovare punti di riferimento, di situare la propria presenza in un contesto. Il presente si esaurisce in un attimo e, per di più, è meno significativo del passato e di quello che viene percepito come futuro. Ma come si chiede a un serbo cosa faceva prima di venire in Spagna? Dietro quel volto di ragazzo un po' semplice, cresciuto troppo in fretta, potrebbe esserci la storia di una famiglia distrutta dalla guerra: un padre morto durante un bombardamento, una madre prigioniera di croati o musulmani; magari la storia di una vittima diretta dell'orrore. Come si chiede a uno sconosciuto - Marta aveva parlato con lui solo tre o quattro volte dopo aver giocato a tennis - se l'hanno mai fatto prigioniero, se l'hanno torturato, se la sua famiglia è ancora in vita? Ma se fosse questa la sola possibilità, si potrebbe pure intravedere uno spiraglio: il dolore spalanca le porte alla compassione e questa all'intimità. Il fatto è che questo ragazzo un po' goffo fuori dal campo, che fa spesso cadere la cenere per terra e guarda i libri sullo scaffale con un'espressione piatta - l'espressione di chi non riconosce e non si stupisce che sia così - potrebbe anche essere un criminale di guerra. E cosa si chiede a un soldato serbo: hai mai ucciso qualcuno? È vero che violentavate le donne musulmane e le costringevate a partorire figli per la Grande Serbia? Com'è lo sguardo di un uomo a cui stai tagliando i testicoli?- Ti piace il prosciutto? - chiese Marta. Zoran si mise comodo sul divano, diede qualche pacca alla tappezzeria e sorrise soddisfatto come se fosse sul punto di acquistarlo a un prezzo stracciato. Poi cominciò a bere la sua birra, senza sentirsi minimamente in dovere di conversare con la padrona di casa. Marta pensò che non era stata mai con qualcuno che emanasse così poco erotismo. Prima, sul campo, il movimento dei muscoli, le gocce di sudore che gli imperlavano la fronte, lo sguardo vigile e l'atteggiamento aggressivo avevano alimentato il miraggio di un uomo in armonia col proprio corpo, di un animale affascinante nella semplicità dei suoi desideri. Per questo motivo le era venuta voglia di farci insieme una ruzzolatina. E anche perché, soprattutto dopo la separazione, aveva spesso questo tipo di relazioni di breve durata che avevano il pregio di confermarle il proprio fascino consentendole, al tempo stesso, di sentirsi libera e padrona delle proprie azioni, passioni e follie. Col vantaggio di non dover rendere conto a nessuno. Ora, però, vedendolo seduto a sorseggiare la sua birra, ingoiando olive come fossero noccioline, con lo sguardo assente ma non assorto - il che avrebbe perlomeno conferito dignità alla sua distrazione, facendo supporre una certa profondità - semplicemente indifferente a lei e a quanto lo circondava, la voglia di avventure le stava decisamente passando. Chissà perché mi caccio sempre in queste storie. E comunque, di sicuro questo non farà colazione qui domani. La sola idea di svegliarsi e trovarsi il serbo sdraiato accanto, probabilmente con l'alito cattivo e l'intestino rumoroso, le diede il voltastomaco. | << | < | > | >> |Pagina 113Arturo si sorbì l'intervento con una smorfia di disgusto. In fondo, il conferimento del premio non era un atto culturale bensì mondano, come un debutto in società o il matrimonio di un ozioso rampollo della nobiltà. Lì, tutti i suoi colleghi - lui compreso - si sarebbero ritrovati a portare a spasso la propria vanità per la sala congressi. E che espressione soddisfatta avrebbero sfoderato durante la consegna dell'illustre premio, loro che contribuivano in maniera tanto semplice - cioè, ubriacandosi di whisky e champagne pagati dai contribuenti - allo sviluppo della letteratura in Spagna! Si sarebbero sentiti importanti, i loro commenti avrebbero dimostrato la solida formazione acquisita, e le loro labbra sciorinato citazioni - sempre le stesse, per potersi capire - e sbavato ricordi di momenti altrettanto insigni. E gli scrittori premiati avrebbero strisciato in mezzo a loro, corteggiati dagli uni e dagli altri, costretti a sopportare la conversazione, naturalmente brillante, dei loro mecenati.
Sebbene Arturo fosse deciso a fare in modo che ciò non si verificasse, si
concesse di immaginare Angel mentre riceveva il premio dalle mani del ministro,
oggetto dell'invidia di tanti e tanti autori che avrebbero trascorso notti
insonni, traducendo la propria avidità in metafore e perifrasi virtuose. No, non
era giusto che Ángel Sanjuán, paria per scelta, arrivasse a ricevere
l'ammirazione e il beneplacito dei protagonisti e delle mezzecalzette del mondo
culturale e politico. Nella sua fantasia, vedeva Angel impegnato in
un'amichevole conversazione con il ministro, magari occupando il posto che
invece desiderava per sé. Se lo raffigurava lì a raccontare il romanzo nei
dettagli, scambiando battute con politici e giornalisti influenti, o spiegando
loro quali autori avevano ispirato il suo percorso letterario. Il giorno dopo, i
giornali avrebbero mostrato le foto di Ángel Sanjuán, la grande rivelazione
della letteratura spagnola, in mezzo alle principali figure di spicco del paese.
Arturo, che dopo la decisione della giuria era andato a festeggiare il verdetto con un paio di colleghi, rientrò a casa all'alba. Rosa, anche se già a letto, era ancora sveglia. Quando entrò in camera da letto, lei spense il televisore e si voltò verso di lui con malcelata curiosità. - Avete già deciso? - Sì - rispose allegro Arturo prima di sparire nel bagno, assaporando la curiosità della moglie. - Senti, - disse quando riapparve con il pigiama già indosso - mi verso un whisky. Mi fai compagnia? - Ti vedo tutto pimpante. L'hai spuntata tu? Arturo ignorò la domanda, uscì dalla stanza e tornò con due bicchieri di whisky belli colmi. - Tieni, festeggia con me. Cin cin. Rosa si bagnò appena le labbra, mentre Arturo mandò giù un bel sorso, alla John Wayne, aaahhh. Poi si divertì a far tintinnare i cubetti di ghiaccio. In realtà era tutta una commedia, la prosecuzione di quanto aveva recitato durante tutto il pomeriggio. Perché, a dire il vero, gli faceva male lo stomaco: un principio di ulcera, la vita sedentaria, lo stress dovuto alle responsabilità, ecc... Ma il fatto di conoscere le cause non lo faceva affatto sentire meglio. E, fra l'altro, il whisky gli stava dando la nausea.
Per non parlare delle lacrime, che stavano lì lì per spuntargli. "Che
spreco, Dio che spreco" diceva una voce dentro di sé, commentando, senza che
nessuno glielo avesse chiesto, la vita sciupata di Arturo Pérez. "Abbiamo perso
la dignità" gli diceva un'altra vocina saccente, ma lui si rifiutava di
ascoltare, perché la gente non ha la minima idea di cosa sia la vita. Nessuno. E
meno che meno Ángel Sanjuán. Malelingue, ecco cos'erano, se n'andavano in giro
dandosi arie da gente rispettabile, perché non si erano mai trovati a fare i
conti con la tentazione. Che merito c'è nel non peccare quando non si ha
l'opportunità di farlo? Lo volevano forse criticare perché a quarant'anni non la
pensava più come a venti? Cazzo, quando si è giovani si è più radicali, anche
perché non si ha la possibilità di agire e si sa che con le parole si va sempre
più lontano che con i fatti. La prima volta che si sbatte il muso contro la
realtà è quando ci si sveglia dal sonno. Però naturalmente, questa gentaglia che
rifiuta le responsabilità non se n'è ancora resa conto.
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