Copertina
Autore José Ovejero
Titolo Nostalgia dell'eroe
EdizioneVoland, Roma, 2005, Intrecci 36 , pag. 316, cop.fle., dim. 145x205x18 mm , Isbn 978-88-88700-40-3
OriginaleAρoranza del heroe [1997]
TraduttoreBarbara Bertoni
LettoreAngela Razzini, 2005
Classe narrativa spagnola
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

Forse Neftalí Larraga non era un uomo coraggioso. Che in certi momenti della sua vita si fosse comportato da eroe poteva persino dipendere da una certa debolezza di carattere. In effetti, molti anni dopo, quando Neftalí era un vecchio pieno di figli, di ricordi, di nostalgie e di rimorsi, il fratello Miguel lo descrisse come un pusillanime, cosa che ai suoi occhi spiegava anche troppo bene perché Neftalí non avesse abbandonato Cuba dopo la rivoluzione, per cercare quell'Eldorado che gran parte della sua famiglia aveva trovato nelle imprese di confezioni di Miami.

Molto probabilmente la storia di Neftalí sarebbe finita nel dimenticatoio se Ramón, uno dei nipoti, non si fosse ostinato a seguire le tracce di quell'individuo di cui in casa non si parlava mai. All'inizio fu solo la curiosità a spingerlo a indagare sul nonno, tema tabù in famiglia, di cui sapeva appena che era stato un rivoluzionario cubano e che aveva combattuto nella Guerra Civile spagnola. Ramón andava orgoglioso del nonno rivoluzionario, possedeva la frequente sfacciataggine che permette alle famiglie di considerare come patrimonio proprio le medaglie e gli allori degli avi, senza aver mosso un dito per guadagnarseli. Per di più lo attraeva l'aura di mistero che circondava il mitico antenato: perché nessuno parlava di lui? Che cosa, quale dolore, quali ricordi, provocava i sospiri di sua nonna quando si menzionava il nome di Neftalí? E perché Lidia, la madre di Ramón, serbava nei confronti del padre quel silenzioso rancore?

Θ un sabato pomeriggio del maggio 1980. Ramón e Amparo sono seduti nella terrazza del villino, costruito dai genitori di Ramón, operai arricchiti, nel corso dei sabati e delle domeniche di vari anni su uno dei terreni incolti che circondano Madrid. La terrazza imbiancata a calce è orientata in modo da approfittare del sole pomeridiano nei giorni non ancora troppo caldi. Amparo, che non vive lì ma di solito va a passare il fine settimana dalla figlia, ha portato un vassoio di fagiolini a cui toglieranno il filamento, e reca con sé qualcosa di indefinibile, forse un peso ingiusto che porta sempre sulle spalle e fa sentire colpevole chi ha a che fare con lei, come se in fondo la si potesse alleggerire di quel peso, se solo ci si provasse. Ma Ramón sa che il carico appartiene esclusivamente ad Amparo e intuisce persino che l'espressione stanca potrebbe essere un trucco, un modo di attraversare la vita senza che nessuno osi pretendere troppo da lei, perché un tale carico è più che abbastanza.

– Nonna...

– Sì, tesoro.

– Senti...

– Dimmi, stella. – Amparo comincia a togliere i filamenti e le punte ai fagiolini, con movimenti meccanici ma precisi.

– Non mi hai mai parlato del nonno.

Amparo sussulta e gira la testa, timorosa delle orecchie della figlia. Ma finge subito indifferenza e riprende i soliti sospiri di biasimo che non arrivano mai a materializzarsi in un rimprovero vero e proprio.

– Ah, figliolo, cosa posso dirti!

– Perché se ne andò?

Lui si aspetterebbe un'espressione di dolore, un sospiro, questa volta di vero dispiacere, un mordersi un labbro di nascosto, uno sguardo per un attimo perso. Ma è rabbia, non contro Neftalí ma contro la storia della Spagna, che trasuda dalla risposta.

– Come avrebbe potuto non andarsene, poverino, se quel nano capoccione stava entrando a Madrid? Guarda che quello sgorbio maledetto non conosceva mezzi termini. Dio mio, che cattivo era! Padre Santissimo, quanto male e quanto sangue! Guarda che se non restavo ancora qualche giorno a Castellón beccava pure me.

Anche se il nipote non vuole che la nonna divaghi, e soprattutto che il tema della conversazione si allontani dalle peripezie di Neftalí, la curiosità è più forte di lui e indaga su altri particolari.

– Io me lo immaginavo, eccome – risponde Amparo, e adesso lascia da parte i fagiolini per concentrarsi sulla storia. – Vivevamo, io e la bambina, in casa di amici, perché Neftalí era a Madrid e per me la situazione era molto critica. Avevano un bel dire no, no e poi no, ma siccome io vedevo già i mori a Castellón, che gran farabutti erano i mori, dicevo a Tomàs, Tomàs quello dell'orba – precisa, come se fosse un conoscente del nipote – "ti dico che arriveranno e ci conceranno per le feste, senti, io prendo la bambina e vado a Valencia." E mentre lo racconta si rattrappisce leggermente, forse ricordando antichi brividi, e fa un gesto come se stesse per abbracciare la sua bambina, non si capisce se per proteggerla o per cercare conforto, ma poi si fa strada un sorriso e subito dopo una risata e cenni allegri del capo prima di mettersi a imitare Tomàs, quello dell'orba: "Amparo, stattene zitta, che sei 'na gran fascistona e 'na grande stronza, cosavuoich'entrino, Amparo, sei proprio 'na fascistona." Allora sì che è dispiacere, non una leggera tristezza, ma un dolore ormai abbarbicato alla sua esistenza che si posa sul sorriso di Amparo, persino su quello di Ramón (che ignora ancora la causa ma intuisce una lacerazione, una ferita assente dalla vita facile del figlio del selfmade man che non conosce altri dolori a parte le paure infantili e i tradimenti adolescenziali). La donna annuisce, chiude gli occhi, li riapre nonostante tutto senza lacrime, bisogna rassegnarsi, lei non solo sa che è andata così ma anche che succederà tante altre volte, la vita è fatta di sconfitte pure se qualcuno si sforza di ignorarle: – Entrarono eccome, Dio santissimo, quei gran culattoni, che facevano mettere in fila i nostri e non ne lasciavano uno vivo, poveretti, che non avevano fatto proprio niente, ma a quel maledetto miserabile non importava, non ne lasciava vivo uno. Che tragedia, figliolo, che tragedia!

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 42

A Juliana sarebbe piaciuto essere una strega: al ladro, all'empio, la saliva sarebbe diventata varechina; croste di sale gli avrebbero accecato gli occhi, il ventre gli si sarebbe ricoperto di piaghe, avrebbe cagato scorpioni, dal pisello gli sarebbero uscite vipere per mangiarselo vivo. Juliana però non era mai riuscita a ottenere riparazione né a mattere in atto una vendetta; ingobbita dall'impotenza, andò nell'unico posto dove si sentiva ascoltata. Sul far della sera salì ansimando la strada pietrosa che conduceva alla chiesa. E prima di entrare nel tempio iniziò il suo borbottio addolorato.

Quella donna credeva con un fervore primitivo e intimo. Non andava a messa se non obbligata, in occasione di matrimoni, battesimi e funerali. La sua religione era una cosa tra lei e Dio, in cui gli uomini non dovevano mettere becco. Quando facevano una processione con il santo patrono o portavano fuori a spalla Cristo o la Madonna, scostava la porta appena appena, si inginocchiava finché le sacre figure non si erano allontanate, si faceva il segno della croce e riprendeva le faccende. Aveva la sua cappella privata in una stanza: in uno dei muri c'era una nicchia dove convivevano Sant'Antonio, il Cristo di Medinaceli e diverse immagini di Madonne. Il lumicino che ardeva davanti a loro non si spegneva mai: neanche nei momenti di maggior miseria gli mancò l'olio.

La chiesa, invece, era quasi al buio per la scarsezza di mezzi e di carità: solo due lucerne appese ognuna a una colonna dell'entrata e tre lumicini che galleggiavano inquieti su sottili strati d'olio, lottavano senza speranza contro il buio, che calava denso come la resina dai muri massicci. Neanche l'altare era illuminato: il Santissimo Sacramento non si trovava nel tabernacolo.

Dio, però, c'era. Il suo alito oltrepassava i muri, le gelide lastre di pietra, le tenebre che si annidavano sotto i cassettoni del soffitto e arrivava fino a Juliana per scaldarle un po' le membra irrigidite dal freddo glaciale della sua misera vita.

Se quella donna temeva qualcosa, era il buio. Per questo era andata in chiesa senza neanche dirlo a Claudia. Doveva andarci da sola. Quando la disgrazia la prendeva di mira cercava di sfuggirvi compiendo dolorosi sacrifici: più di una volta aveva camminato scalza per oltre sei leghe lungo viottoli da capre fino al monastero di Guadalupe, dove arrivava a pezzi, con le piante dei piedi sanguinanti e con la convinzione che non fosse un dolore sufficiente per commuovere Cristo, che fu coperto di sputi, flagellato, incoronato di spine e crocifisso. Juliana si vergognava persino di chiedere compassione in cambio di una sofferenza così minima. Per questo, quando ciò che desiderava le sembrava una richiesta quasi smisurata, aspettava il calare della notte e da sola, sempre da sola, andava a sedersi sulla porta del cimitero, perché la paura dei demoni e delle apparizioni era una sofferenza più profonda del dolore fisico: le sofferenze del corpo possono essere dimenticate, quelle dell'anima distruggono irrimediabilmente una persona. Quando il panico minacciava di spingerla alla pazzia, scappava di corsa pregando la Madonna, unica forza che potesse difenderla dal Maligno. Ma quella volta Juliana pensò che non poteva permettersi la fuga: era in gioco la salvezza della figlia.

Ignorò le statue dei santi. Non andò a prostrarsi ai piedi di Sant'Antonio da Padova, giacché, a parte l'allegria, non aveva perso niente che potesse trovare grazie alla sua intercessione; non accese neanche un cero alla Madonna di Guadalupe, come faceva di solito, non si fermò a pregare per Santa Rita, la santa degli impossibili. Non mostrò interesse nemmeno per il glorioso combattimento che San Michele, patrono del paese, ingaggiava sull'altare maggiore. Rimase in piedi vicino a una colonna, annunciando più volte le sue intenzioni al Salvatore e implorandone la protezione. Finché l'ultimo fedele non ebbe abbandonato la chiesa. Allora, protetta dalle tenebre, mimetizzata sotto il colore terroso dei vestiti e l'aspetto pietrigno della carnagione, entrò in un confessionale e tirò la tendina.

Da lì udì i passi lenti del parroco, il rumore del catenaccio e la chiave che girava faticosamente nella serratura, l'eco del metallo che cercava di staccarsi dalle solide pietre, il monologo assorto del parroco – sembrava preoccupato per i nidi di cicogna e le tegole cadute – la porta della sacrestia che nel chiudersi fece tremare l'aria, i primi schiocchi senza alcuna spiegazione ragionevole. Quando uscì dal nascondiglio, i lumicini avevano smesso di consumare l'olio; le due lucerne si difendevano ancora dalla vittoria imminente dell'ombra vibrando, emanando un brutto fumo nero che anneriva le colonne. Juliana andò a prostrarsi dinanzi a Cristo in croce.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 113

Aaaaaaaaaaaah. La sua anima era tutta una piaga.

Aaaaaaaaaaaah. Gli occhi enormi sconvolti da ondate di terrore. Le pupille dilatate per abbracciare il passato e il futuro, tutte le sconfitte. I peli ritti in un costante spavento.

La luna è spuntata con violenza da sotto una nuvola e lo ha improvvisamente scoperto, proprio quando voleva uscire dall'ombra protettrice di una ceiba. La luna con il suo pallore cadaverico, gli occhi cinerei. La luna, quella spia, che sorveglia le sue mosse inseguendolo notte dopo notte, vorace e paziente proprio come gli urubù, sempre fuori dalla portata della sua mano, codarda, avvicinati se hai il coraggio, ti strapperò la pelle con i denti, ti seppellirò a pugni nel fango, smettila di volteggiare sulla mia testa, avvoltoio, spettro. Ma lei continua a osservare, irraggiungibile, con quegli occhi morti, quegli occhi di gelida eternità. E il terrore lo fa di nuovo stramazzare a terra.

Rotola come due cani che si azzuffano, si alza di scatto, scende giù in una corsa allucinante, con scarti che lo fanno sbattere contro tronchi invisibili, si lancia carponi tra uno spesso labirinto di spini che gli squarciano la pelle, quando non ne può più ruzzola verso il fiume, ma il contatto con l'acqua tiepida non gli lenisce il dolore, al contrario, sembra acuirlo.

Aaaaaaaaaaaah. Risale il pendio, adesso più lentamente, sbavando, la testa ciondolante protesa in avanti, i piedi che si muovono a fatica, impediti dall'argilla umida, dimentico di sé, di chi sia. Sentendosi mancare, va ad appoggiarsi alla spinosa corteccia di una ayúa, si frega contro di essa cercando di fare in modo che il dolore lo restituisca a chissà quale coscienza; vede, spaventato, il sangue affiorargli dalla camicia e sente l'odore di resina, argilla e sudore, che sembra sprigionare dal suo stesso sangue. Si allontana trasudando sofferenza.

Scostando con le mani ormai insensibili gli spini che gli sbarrano la strada, Neftalí Larraga si apre un varco nella macchia. A volte si gira per assicurarsi che non lo seguano. Quando raggiunge i cespugli più folti si sdraia, adesso che la luna non può vederlo, con la faccia al cielo. La notte lì è più profonda, più protettrice. Nessuno può vederlo. Soltanto qualche majá potrebbe strisciare fino al suo nascondiglio per osservarlo con occhietti infidi. Avendo conosciuto in Spagna la vipera e l'ammodite, forse si è già dimenticato che gli ofidi di Cuba non sono velenosi; o forse si ricorda, ancora in preda alla paura, delle esigenze delle stomaco: la mano gli si serra sull'impugnatura del machete e rimane in ascolto, perché l'orecchio, avvezzo a cercare i nemici in agguato, sarebbe capace di riconoscere l'aspro fruscio del ventre del majá contro il suolo. Ma lo avvolgono solo le voci senza vita dei vegetali, il sospiro distratto della brezza, il roco monologo del torrente. Si rilassa, i lineamenti gli si decontraggono, aaaaaaaaaaaah, geme, molto piano, tra sé, come un sussurro, come se lo consolasse udire l'unica voce di essere vivente che risuona in quei luoghi sperduti, aaaaaaaaaaaah, ripete, sollevato, prima di perdersi in una veglia buia piena di dolci allucinazioni.

Le notti cadevano su di lui all'improvviso, quasi a tradimento. Lo sorprendevano rannicchiato sotto qualsiasi cespuglio, insonne, ebbro di ricordi e paure, mentre, masticando canna da zucchero, aspettava di poter uscire dal nascondiglio.

Nei paesi della parte orientale della Sierra de Cristal cominciavano a circolare storie su un essere con occhi biancastri da cieco e labbra livide da cadavere che teneva lunghi conciliaboli con i cani, e si diceva che corressero assieme per tutta la notte e che i cani lo informassero dei loro segreti con guaiti leggeri e sommessi. Il signore dei cani era, dicevano, un'ombra incurante del dolore. Le madri minacciavano i figli, quando si rifiutavano di mangiare il purè di malanga, dicendo che sarebbe arrivato il signore dei cani, e bada bene, figliolo, si porta via i bambini disobbedienti, li porta al suo paese, che è, bambino, un posto dove non esiste il sonno – indovinava la genitrice con intuizione materna – e l'unica pianta che vi cresce è quella della paura, sicché vedi di comportarti bene.

Era vero che Neftalí si era quasi guadagnato la complicità dei cani dei casolari, che riconoscevano il suo odore e non abbaiavano neanche quando, attanagliato dalla fame, si avventurava nei dintorni degli abitati. Neppure le conversazioni che gli venivano attribuite con quegli animali erano prive di fondamento: grato per l'alito caldo con cui lo ricevevano, si metteva carponi, li baciava, si lasciava annusare, e si era abituato a emettere lievi gemiti a cui i suoi amici a quattro zampe, eccitati e soddisfatti, rispondevano in una lingua di latrati smorzati, di lamenti per quella vita da cani, di brontolii complici.

Inoltre per lui quegli animali erano vedette preziose, poiché lo aiutavano a riconoscere da lontano l'arrivo di estranei a orti e casolari; quando invece gli estranei arrivavano nel folto del bosco, era l'uccello judío ad avvisarlo della loro vicinanza. Credeva di saper distinguere quando un latrato era rivolto a un altro cane e quando a un essere umano, e se i latrati si prolungavano oltre il normale, Nefralí lo interpretava come l'arrivo di una truppa, abbandonava il nascondiglio di fortuna e tornava a rifugiarsi nel fitto intrico spinoso dei marabú oppure, se il tempo stringeva, si arrampicava sul primo albero ben ricoperto di tillandsie e liane per nascondersi sotto quel folto riparo. Ma la sua vera patria era la boscaglia. Lì, in quel mondo costellato dalle solide e molteplici colonne con cui il ficus si puntella a terra, in un intricato sottobosco di rampicanti, saponarie e rovi, si era costruito, per ripararsi dagli acquazzoni estivi, un rifugio costituito da un legno mezzo marcio piantato per terra a mo' di forcone, da sottili pareti di rami intrecciati e da un tetto di foglie di palma regia che lui stesso aveva tagliato, e più tardi perfezionato con una cerata rubata in una capanna abbandonata.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 133

Finché una notte non si aprì la porta della baracca che divideva con altri operai. I cani, accucciati vicino alla soglia, non abbaiarono; se la svignavano per andarsi a rannicchiare al riparo di qualche ombra. Intorno a Neftalí si produsse il vuoto. Voci ebbre invasero il suo sonno.

— Comunista di merda! Figlio di puttana! Adesso ti spacchiamo il culo!

Lo presero a botte, a male parole, a sputi. Alla sua faccia si avvicinò un volto paonazzo, dagli occhi fuori delle orbite, dalla saliva bianchiccia. Lo picchiavano per farlo parlare, ma era una scusa. Lui non poteva rispondere alle loro domande. Gli torsero le membra, lo strascicarono sulle tavole del pavimento, le cui schegge gli si conficcarono nelle gambe. Lo trascinarono fuori dalla baracca, facendolo strisciare su fango e pietre. Udì cigolare il cancello, un po' più lontano le imprecazioni in inglese, e poi l'avvilente eco in spagnolo, adesso lingua da arrampicatori e leccaculo.

– Sparisci!

– Se torni te lo tagliamo.

— You can't, you ass. There is nothing to cut there — affermò la voce del padrone.

La notte lo accolse a malincuore, come una madama di un bordello riceve un cliente ubriaco o straccione. In cielo la luna boccheggiava, una luna paffuta con faccia da stupida. Solo la vegetazione, in lontananza, si rivolse a Neftalí con la dolcezza di una donna. Vieni, gli sussurrò e fece ondeggiare le braccia, come per chiamare una nave distante. Vieni, vieni. Il bosco si apriva davanti a lui come un corpo per un abbraccio.

Neftalí si alzò come poté. Trascinandosi dietro una gamba tumefatta dalle botte e una paura in cui si ammassavano le facce dei morti e tutte le urla udite nei giorni ormai lontani, si mise a correre verso le ombre delle palme. Abbassò il capo, sicuro che da un momento all'altro lo avrebbe raggiunto uno sparo, e con un ruggito piombò nella rabbiosa demenza di una belva ferita. Camminò, inseguito dalla luna, la delatrice, in cerca di un rifugio che potesse proteggerlo da tanto odio. Spostandosi col favore delle tenebre, proprio come aveva fatto in Spagna, attraversò valli e passi, guadò fiumi, si inerpicò su colline coperte di alte erbacce, insensibile alle vesciche e alle piaghe dei piedi, senza neanche fermarsi a ingerire cibo, facendo una sosta per bere solo quando attraversava un corso d'acqua finché, dopo aver varcato il limitare ombroso di un bosco di mangrovie, decise che quel buio sarebbe stato il suo riparo: quelle intricate costruzioni di liane, tronchi e radici avrebbero depistato gli inseguitori. E poi tutto divenne un mormorare di ombre, un mondo senza contorni né direzioni. Camminava senza rotta per il labirinto delle acque basse, in cui perdeva lo scarso senso dell'orientamento che gli rimaneva, perché non c'erano strade né elementi fisici, bivi o colline che permettessero di orientarsi, solo un'interminabile successione di tronchi che protendevano i rami contorti verso qualsiasi apertura nella coltre della vegetazione per ricevere la luce del sole, sicché le estremità lunghe e legnose si allontanavano dal tronco fino a distanze inverosimili, e avrebbero finito per spezzarsi a causa del loro stesso peso, se l'albero non avesse costruito dei puntelli per garantire la stabilità dell'edificio vegetale. A Neftalí sembava che lo spazio dove i riflessi dell'acqua moltiplicavano il dedalo di percorsi, proporzioni e distanze, offrisse un rifugio ideale, un groviglio di ombre in cui nessun nemico avrebbe trovato le sue tracce. Quando si stancava di camminare nella boscaglia umida, stufo di udire rumori inspiegabili, uno sguazzare che a lui sembrava minaccioso, come se quelle acque inoffensive fossero infestate di sauri in agguato, o di nidi di rettili nascosti tra le radici, si arrampicava su una mangrovia frondosa e cercava di sistemarsi tra i rami. Lì aspettava – con l'inquietudine e la convinta rassegnazione di chi scopre nel proprio corpo i primi sintomi di una peste scoppiata nei dintorni – il ronzio, sulle prime quasi impercettibile, che annunciava l'invasione di orde crepuscolari, l'attacco plurimo, frenetico, lacerante, di milioni di zanzare che si spiegavano fra le mangrovie senza apparente strategia, nella smaniosa ricerca del sangue che avrebbe permesso loro di procreare, moltiplicare la loro già cospicua presenza: quando scoprivano una vittima si scagliavano su di essa con l'avidità del disperato.

Allora, impazzito per le punture e il continuo ronzio intorno alla testa, si immergeva di nuovo e si rotolava nella melma come un animale per coprirsi di una corazza, puzzolente ma efficace per arginare il furioso attacco degli anofeli e simulidi che si contendevano la pelle, ma soprattutto il sangue di chi consideravano terra di nessuno. Fu un miracolo, o forse una casualità, che la malaria e la dengue non attaccassero il suo organismo già di per sé debilitato dalla paura e dalla fame. Sentendo di non poter sopportare oltre l'assedio, il giovane sprofondava fino agli occhi nel fango, e rimaneva lì per ore, disteso lungo come un caimano, a odorare la pellicola verde che ricopriva l'acqua stagnante, il putridume e l'argilla, a sputare il sapore dolciastro, denso, concentrato che gli lasciava sulle labbra quel liquido in cui andavano a morire vegetali, batteri, insetti, forse uccelli e mammiferi, forse lui stesso, e quando nella sua mente tenebrosa apparivano le immagini del proprio corpo affogato, si alzava gocciolante, gridando, e correva inseguito dagli instancabili insetti verso qualsiasi promontorio che potesse garantirgli una certa sicurezza dalla minaccia delle acque.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 201

Per Lidia, finché non ci andò, quando aveva già compiuto undici anni e dovette affrontare il sudiciume quotidiano, l'odore di cavolo bollito che aleggiava pesante e rancido sui piccoli cortili, la ristrettezza delle viuzze e dei futuri, l'umidità che erodeva la calce delle pareti, le notti senza stelle – nascoste dietro lo splendore dei lampioni – la solitudine nella stanza di calle Zurita in cui aspettava che la madre tornasse dal lavoro, Madrid non era altro che un nome, quello di un mondo di cui conosceva l'esistenza, ma che non era mai riuscita a immaginare. Amparo lavorava come domestica per una vedova che viveva in calle Menorca. Per ottenere un lavoro in quella Spagna vile del dopoguerra aveva dovuto cambiare il documento di identità. "c" c'era scritto adesso dopo le parole "Stato Civile": perché chi erano le ragazze madri se non le concubine dei miliziani? Per quella feccia non c'era lavoro nella Spagna di Franco.

I primi tempi Lidia soffrì molto di solitudine. Era felice i pomeriggi in cui aveva la madre tutta per sé: la vedeva arrivare dalla finestra, scendeva di corsa per riceverla, si lasciava baciare e accarezzare, cosciente della propria importanza. L'alloggio era piccolo e bisognava entrarvi battendo le mani per scacciare i topi; il cortile, puzzolente; i vicini, spesso di cattivo umore, soprattutto gli uomini; ma, per quanto sentisse la mancanza dei nonni e degli zii, il privilegio di essere con la madre le sembrava un bene incomparabile. A volte, di rado, Amparo le parlava di Neftalí, di quanto lo amasse, e benché con meno convinzione, del suo ritorno ormai prossimo. Una volta sotto le coperte per proteggersi dal freddo, intonava anche canzoni che parlavano sempre di addii e assenze, o le raccontava storie di quando era nata, degli anni della guerra. Malgrado gli orrori descritti dalla madre, quegli anni alla bambina sembravano stranamente felici, un epoca in cui, nonostante le costanti minacce, la vita della madre assomigliava a quella di altre madri, la sua a quella di altre bambine.

Durante la giornata, finché Amparo non rincasava, Lidia si occupava delle faccende domestiche, contenta di poter essere utile. Scendeva nella corte a lavare le stoviglie sporche in un secchio di zinco, in genere aspettando che la fontana fosse libera per non doversi intrattenere in conversazioni con le vicine. Faceva i letti, toglieva la polvere con un piumino sottratto da una delle case in cui aveva servito la madre, lavava i pavimenti economizzando al massimo l'acqua e con questa i percorsi alla fontana. Finiva già a metà mattinata di mettere in ordine quell'alloggio squallido, che consisteva solo di una stanza, in cui non ci stava che un letto, e una cucina senza altro spazio che quello strettamente necessario per i fornelli, un tavolo e due sgabelli, uno dei quali doveva essere infilato sotto il tavolo quando non veniva usato, perché altrimenti non era possibile aprire la porta. Finite le faccende, andava nell'androne della casa popolare, da cui osservava l'andirivieni in quella via del centro di Madrid: la conoscevano i venditori ambulanti, l'arrotino del quartiere — che a volte le strizzava l'occhio mentre suonava con lo zufolo sempre la stessa melodia, prima salendo e poi scendendo senza fretta la scalinata — gli straccivendoli, gli accattoni e le loro capre o scimmie ammaestrate, i carbonai, che le facevano un po' paura per via degli occhi fulgidi dietro le facce annerite e richiamavano alla memoria storie che i più grandi raccontavano vicino al fuoco, per lei quasi incomprensibili ma costellate di parole tremende e suggestive che ricorrevano nei suoi sogni e nei timori delle veglie: la mano nera, lo squartatore, l'uomo col sacco. Forse non era dal sacco dove metteva i bambini che prendeva il nome, ma da quel sacco aperto che i carbonai si mettevano sulla testa, facendolo cadere sulle spalle per proteggerle dallo sfregamento della cesta. Le vicine, quando si imbattevano nella bambina accovacciata nel portone, la salutavano sempre con la stessa domanda:

— Lidia, bellina, non è ancora arrivata la mamma?

– No, non ancora.

- Be', se dopo sali su da me ti darò una caramella.

– Poi vengo – rispondeva Lidia, senza alcuna intenzione di mantenere la parola. Preferiva rimanere rannicchiata nel portone, a cavallo tra due mondi: quello rumoroso delle strade, che temeva ma allo stesso tempo la attirava, e quello buio, raccolto, familiare della corte, dove non poteva succederle niente. E per ammazzare le lunghe ore fantasticava anche su suo padre e sul lontano paese in cui si era dileguato: laggiù, al di là di un mare immenso sferzato da pericolosissime tempeste, sull'altra sponda, c'era papà Neftalí, e volendo farsi un'idea dell'enorme distanza che li separava, un giorno, dopo un acquazzone seguito da un freddo sole autunnale, aveva immaginato di trovarsi a un'estremità dell'arcobaleno, e se la meravigliosa curva fosse continuata, laggiù, oltre i tetti, oltre le montagne e le nuvole, dall'altra parte del mare e del mondo, l'altra estremità dell'arco sarebbe andata a posarsi sull'isola in cui viveva lui, forse proprio ai suoi piedi.

Forse l'epoca più felice della sua infanzia a Madrid fu quando una delle datrici di lavoro della madre insistette per iscrivere la bambina a scuola. Benché si rifiutasse di condividere la figlia con altri e in un primo tempo avesse cercato di accontentare la padrona con affermazioni poco compromettenti, Amparo finì per cedere. Lidia, morta di vergogna i primi giorni, infatti era di gran lunga la più grande della classe, seduta in uno degli ultimi banchi, si andò iniziando ai segreti messaggi della scrittura, alla pertinace precisione dei numeri, ai romantici meandri della Storia. Non appena se ne sentì capace, scrisse una lettera non molto lunga ma per lo meno insistente a Neftalí, nella quale descriveva gli ultimi incidenti scolastici e allo stesso tempo gli chiedeva di tornare a vivere con loro.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 269

I morti. Invadevano le sue notti, si impadronivano del suo panico e dei suoi dolori. Il soldato che si era suicidato nel bosco, squarciando con una detonazione una breccia nella bruma in cui viveva Neftalí, arrivava fino a lui con occhi che erano già dall'altra parte della barriera, ciechi, velati, materia senza coscienza. Persino il gatto, anche lui arrivava puntualmente a rimestare la sua angoscia, ricordandogli l'inevitabile processo di putrefazione e oblio. I cadaveri visti nella boscaglia: alcuni senza unghie e senza occhi; uno, gonfio e deforme, che era stato legato ai piedi di un cespuglio e gli avevano buttato addosso tre alveari. La ragazza le cui gambe nude spuntavano tra i rovi, e lui non volle avvicinarsi per non vedere cosa le avessero fatto. E soprattutto gli altri, quelli al di là del mare, i primi morti che aveva visto: i caduti della Caserma della Montagna, il falangista che aveva visto gesticolare disperato alla finestra e alla cui morte aveva contribuito, i cadaveri che aveva caricato sul cassone del camion. Tutti si accalcavano nel ricordo, rendendolo sordo a memorie più felici. Seduto sulla sedia a dondolo del salone, che trasferiva nel portico quando il caldo gli dava noia, era grato alle zanzare per il loro instancabile attacco, che gli permetteva di dimenticare per qualche momento le immagini della guerra cui aveva partecipato. Anche le sigarette lo aiutavano. Ne avvendeva una dietro l'altra. E quando arrivava l'alba, annunciata, prima che dal sole, dai passanti e dai veicoli diretti in città, si alzava, si lavava con acqua fresca e, rincuorato dalla limitata lunghezza delle notti, si preparava ad affrontare il nuovo giorno e i suoi compiti, che permettevano ancora al futuro di imporsi sul passato. Tra i due, il presente diventava insignificante.

Gli anni trascorrevano identici. Aleggiava, sulla vita di Neftalí come sull'isola, una perpetua minaccia di persecuzione. Cuba scivolava verso la retorica e il nazionalismo, mentre lui – a giudicare dalle foto di quel periodo, in cui fissa sempre l'obiettivo con piglio arrogante e una certa diffidenza, posando con il petto eccessivamente in fuori – si rifugiava in un'immagine di uomo tutto d'un pezzo, orgoglioso, solido, autoritario.

Quegli anni videro solo due cambiamenti importanti per Neftalí. Il primo fu l'inizio della separazione da Fermina.

Stanco della convivenza con una donna che non parlava quasi più se non per sbraitare e lagnarsi, dare ordini ai figli, o chiacchierare con i personaggi radiofonici, costruì una stanza addossata alla casa in modo da non continuare a dividere la camera con lei. Durante i lavori Fermina si limitò a osservarlo in silenzio con uno sguardo carico di risentimento. Non si lamentò né chiese spiegazioni; aveva capito non appena lo aveva visto portare i mattoni dietro la casa. Aspettò che finisse e solo allora ruppe il silenzio. Rimase ferma sulla porta, come se ispezionasse il luogo ma senza decidersi a entrare; si girò verso il marito, ancora intento a pulire le macchie di cemento.

– Cos'è questo, Neftalí Larraga? Cosa vuoi farmi?

– Θ meglio così, Fermina. Tra noi ormai non c'è rimedio. In questo modo almeno ognuno ha il suo spazio.

Lei fece per entrare ma si pentì, come se non potesse fare quel passo, arrendersi un'altra volta senza mettere le cose bene in chiaro. Allora si scagliò contro il marito, che non si difese dalle botte e dagli insulti. Poi, singhiozzando disperatamente, con la faccia deformata come quella di un neonato che strilla, trasferì i pochi effetti personali nella nuova stanza, da cui d'ora in poi sarebbe uscita solo per cucinare, fare le pulizie — cosa per la quale aspettava che Neftalí non ci fosse - e occuparsi degli animali e dell'orto, cominciato a coltivare da quando si erano fatti sentire gli effetti del razionamento dei viveri: in quel fazzoletto di terra piantò malangas e fagioli neri, qualche canna da zucchero e diverse piante di pomodori, che l'avrebbero aiutata a sopportare la scarsità conseguente l'embargo americano.

Il secondo cambiamento fu di ordine politico. Fidel Castro aveva decretato l'unificazione del PSP, il Partito Socialista Popolare, con il Movimento 26 Luglio e la loro confluenza nel Partito Comunista Cubano. Questo però non diminuiva la diffidenza provata da Neftalí nei confronti dei comunisti fin dai tempi della Guerra Civile spagnola, cresciuta quando si era reso conto che proprio i comunisti, che non avevano appoggiato la rivoluzione finché non ne era stato chiaro il trionfo, arraffavano incarichi e responsabilità negli organi rivoluzionari. Ma gli amici insistevano, non potevano capire perché ci mettesse tanto a chiedere l'iscrizione al partito.

– Non sono mai stato comunista, io. Cazzo, prima quell'etichetta me l'affibbiavano, adesso vogliono che me la metta da solo!

– Non puoi fare il cane sciolto. Bisogna essere uniti per vincere.

– Sentite, non mi rompete le palle, io lotto da quando mi è spuntata la barba.

– I tempi sono cambiati, Neftalí. Bisogna schierarsi. Perché da fuori vedano che su quest'isola siamo tutti fratelli.

– Andate troppo di fretta.

– Pretendi di saperne più di Fidel. Questa è superbia, Neftalí. Sei roso dalla superbia. Così non arrivi da nessuna parte. Adesso potresti ottenere incarichi più prestigiosi. Vecchio mio, da solo non arrivi da nessuna parte.

Soltanto quando si rese conto di essere rimasto solo, che tutti i suoi vecchi compagni erano già nel partito, si decise a fare il passo.

| << |  <  |