Copertina
Autore José Ovejero
Titolo La vita degli altri
EdizioneVoland, Roma, 2007, Intrecci 60 , pag. 378, cop.fle., dim. 14,5x20,5x2,2 cm , Isbn 978-88-88700-40-3
OriginaleLas vidas ajenas [2005]
TraduttoreBarbara Bertoni, Isabel Saussol
LettoreAngela Razzini, 2008
Classe narrativa spagnola
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Pagina 9

Lebeaux premette il tasto per fermare il nastro e andò a sedersi dietro la scrivania. Il suo avvocato rimase impassibile, immobile dov'era, in piedi accanto alla scrivania con lo sguardo fisso sul registratore come se stesse ancora ascoltando. A Lebeaux la flemma dell'avvocato faceva ribollire il sangue. Sarebbe stato capace di restare fermo lì per un'ora, con la valigetta di cuoio in mano – perché diavolo non la posava a terra? – a osservare il registratore da sopra gli occhiali e a strofinare tra di loro, con un movimento lento, deliberato, irritante, le dita dell'altra mano.

– Il nastro è finito, Degand.

L'avvocato annuì lentamente senza sollevare gli occhi dal registratore, come se pensasse che da un momento all'altro si sarebbe acceso da solo. Continuava a strofinarsi i polpastrelli.

Si schiarì la voce per due volte: sembrava il preludio a un discorso e invece rimase in silenzio.

– Per l'amor di Dio, Degand, dica qualcosa, si esprima, si lamenti, mi consoli, bestemmi. Ma dica qualcosa.

L'avvocato, ancora assorto sul registratore, alzò gli occhi. Si schiarì di nuovo la voce.

– Le dispiace se mi tolgo il cappotto?

– Per me può anche restare in mutande purché mi dica cosa pensa della registrazione.

Degand si tolse con calma il cappotto, che come tutti i suoi vestiti pareva indossato per la prima volta, e lo appese all'attaccapanni. Con un cenno chiese il permesso di sedersi e interpretò lo sguardo di disperazione che il suo superiore rivolse al cielo come un consenso.

— È uno sporco ricatto — affermò.

Lebeaux lo osservò per qualche istante, meravigliato. Nessuno si sarebbe mai aspettato che in quell'uomo dall'aria ebete, rispettoso fino al servilisrno, di un'eleganza maniacale e dal modo di parlare lento e non sempre coerente — non era difficile immaginarselo a invecchiare negli archivi del Palazzo di giustizia — albergassero un'intelligenza fuori dal comune e una determinazione che non tollerava ostacoli. Gli mancava solamente la capacità di esprimersi.

— Che altro?

— Se non le dispiace, vorrei chiederle...

— Degand, non la tiri tanto per le lunghe. Chieda quello che vuole chiedere, e dica quello che vuole dire.

— Sì. Certo, certo. Volevo domandarle in che modo ha fatto la registrazione. Come sapeva che l'avrebbe chiamata?

— Non lo sapevo. Ha chiamato qui allo studio. La segretaria mi ha passato la chiamata perché è riuscito a convincerla che era una questione di vita o di morte. Quando ha cominciato a raccontarmi di cosa si trattava, gli ho detto che non potevo parlare, che non ero da solo e gli ho chiesto se poteva richiamarmi dopo qualche minuto per darmi il tempo di cambiare stanza. Ho messo giù, ho acceso il dittafono e ho premuto quel tasto del telefono che permette di ascoltare e parlare senza tenere in mano la cornetta, sa a quale mi riferisco.

Degand annuì.

— Quando il telefono ha squillato, ho risposto.

— Ben fatto, signor Lebeaux. Ben fatto.

— Grazie, Degand.

— Dall'accento non sembra un africano - osservò l'avvocato.

— No, neanche cinese, e nemmeno italiano. E allora?

— Per il tipo di ricatto sembrerebbe un africano.

— Uhm...

— Un africano con motivazioni politiche.

— Cinquecentomila euro non sono una motivazione politica.

A Lebeaux sembrò che per una volta fosse Degand a spazientirsi, o perlomeno interpretò così il suo ripiegare le labbra all'indentro rendendole più invisibili del solito: Degand, infatti, aveva le labbra talmente sottili che sembrava non avercele affatto.

— C'è qualcosa che non ho capito, Degand?

— Se mi permette...

— Continui, Degand.

— Se mi permette, non penso che il ricatto abbia una motivazione politica. Ma in caso di necessità potrebbe apparire come atto politico.

— E come?

— Non chiamandolo ricatto, ma contributo di una famiglia di sfruttatori coloniali per rimediare al disastro provocato in Congo: un indennizzo per i poveri africani che furono depredati e trattati in modo disumano da persone come il suo bisnonno. O qualcosa del genere.

— Non credo proprio che quel tipo lì darà i cinquecentomila euro a Medici senza Frontiere.

— Ma presentandolo in questo modo il ricatto ha più peso. Sa bene che la gente è stupida, l'opinione pubblica sarà più solidale nei confronti di quel delinquente che verso di lei, se lo vede come un portatore di giustizia. Il danno per il suo prestigio sarebbe maggiore... perché avrebbe più risalto sulla stampa.

— Quindi vuole che io abbia paura della pubblicazione della foto sui giornali, che paghi per evitare che venga sporcato il nome della mia famiglia e che venga messa in discussione l'origine della mia ricchezza. Cinquecentomila euro in cambio di una foto di cento anni fa.

Degand fece una smorfia di perplessita, ma non rispose.

— Esatto. Se non fosse per l'ultima frase, neanch'io mi preoccuperei troppo.

Lebeaux riavvolse di poco il nastro e riaccese il registratore: "...ma la corruzione della sua famiglia arriva fino a oggi. Se non paga, manderemo alla stampa ulteriori prove che la riguardano direttamente."

Degand scosse il capo.

— Poker.

— Cosa?

— Sta giocando a poker, e credo stia bluffando. Ma, ovviamente, può darsi anche di no. Non si sa mai, no? Cos'ha intenzione di fare, signor Lebeaux?

— Aspettare, Degand. Aspettare che insista, che scopra di più le sue carte, che mi invii quella foto, a dir suo atroce, che prova la malvagità della mia famiglia e tutte quelle idiozie. E vediamo se riusciamo a scoprire cosa sa o cosa non sa, poi valuteremo la gravità della situazione. Anche se io credo che qualcosa sappia, non può basarsi solo su una schifosissima foto.

— Da quale numero, voglio dire, hanno verificato...?

— Sì, abbiamo il numero dal quale è stata effettuata la chiamata. Da una cabina.

— Da dove?

— Glielo stavo dicendo. Da una cabina telefonica e non da un domicilio privato o da un ufficio. Un telefono pubblico che potrebbe usare chiunque.

— Ah.

— Degand?

— Signor Lebeaux?

— O mi dice subito a cosa sta pensando o la licenzio in tronco.

— Pensavo, anzi, penso che sarebbe opportuno sapere da quale cabina è stata fatta la telefonata. La gente non è molto furba, sa?

— Ha ragione. Ci pensa lei a scoprirlo?

— D'accordo. Mi dia il numero da cui è stata fatta la telefonata, non sarà difficile. No, non sarà difficile.

— Spero che agisca con discrezione.

— Con discrezione? Sì, sì. Non pensavo certo di contattare la polizia. Abbiamo abbastanza amici alla Belgacom. È questo il bello di avere tanti amici, no?

Lebeaux non replicò e Degand capì il senso di quel silenzio, e quindi si alzò, inclinandosi leggermente, andò all'attaccapanni e s'infilò il cappotto.

— Degand, se si trovasse nella mia situazione pagherebbe? In fin dei conti, non sono tanti soldi.

Degand si girò verso il suo superiore. Sospirò. Aggrottò le sopracciglia, come se fosse profondamente turbato, e chinò la testa per guardarlo da sopra gli occhiali.

— Io, al posto suo, signor Lebeaux, gli caverei le budella.

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Pagina 80

— Questa volta ci tocca Saint Josse — disse Claude quando arrivarono a Place Madou. Non reggeva a lungo le situazioni di tensione, cercava subito la riconciliazione o lo scontro diretto. Daniel accolse di buon grado la proposta; aveva bisogno di stimoli per sostenere la giornata, solo così, forse, si sarebbe scrollato di dosso il torpore indotto dalle pasticche.

— Sai qualcosa dell'appartamento?

— No, non sono andato io a vederlo, ma visto dove sta deve essere un appartamento di musulmani.

— Non penso.

— Ci risiamo. E perché non dovrebbero esserci musulmani, saccentone? Non sei mai passato in quel quartiere? Si vedono solo gellaba e chador. Sembra il Cairo, te lo giuro.

— Sì. Ma i musulmani non si rivolgono a un'impresa come la tua. I musulmani hanno famiglie numerose, un sacco di amici e pochi soldi. Un belga può morire da solo senza che nessuno se ne accorga, a parte il cane; la morte di un musulmano è un fatto sociale. E non vanno a spendere i pochi soldi che hanno perché te ne occupi tu. E poi, le cose che hanno non le sprecano; se non vogliono una cosa, la vendono.

— Musulmani o cristiani, fa lo stesso, in quel quartiere non diventeremo certo ricchi.

Claude parcheggiò il furgone davanti al palazzo. Era un edificio in mattoni, con la facciata stretta, probabilmente era stato costruito negli anni Trenta. Le condizioni della porta e delle finestre rivelavano che da allora non erano stati fatti molti lavori di riparazione. Per la strada un gruppetto di adolescenti giocava a calcio. Claude lanciò uno sguardo preoccupato verso il furgone, ma non si azzardò a chiedere loro di andare a giocare un po' più lontano.

— Questi qui non ci mettono niente a bucarti le gomme — mormorò.

Claude controllò l'indirizzo su un foglietto tirato fuori dalla tuta e cercò il campanello corrispondente al nome. Andò ad aprirgli un uomo anziano e magro, con lo sguardo vispo, un berretto a righe in testa e la barba lunga, rada e canuta. La sua lunga veste era intonata al berretto. Diede la chiave a Claude e gli spiegò che l'appartamento che cercavano era al secondo piano ed era appartenuto al precedente proprietario della casa, un belga, che l'aveva venduta a lui e alla sua famiglia, incluso l'appartamento del secondo piano, a condizione che potesse rimanere lì fino a quando non sarebbe morto. L'uomo era deceduto proprio qualche giorno prima e non erano riusciti a contattare i parenti. Qualche mobile si poteva recuperare, a lui stesso avrebbe fatto comodo un letto che era ancora al piano di sopra, un letto matrimoniale in ottimo stato e un frigorifero quasi nuovo, ma, conoscendo gli europei, se fosse spuntato fuori qualche parente l'avrebbe accusato d'aver rapinato un morto. Ovviamente, pur rammaricandosene, dovevano fargli la fattura, nell'eventualità si fossero complicate le cose. Ma non poteva dar loro più di duecento euro, ed era anche troppo per le sue tasche.

Claude esitò un istante ma, del resto, non aveva altri impegni quel giorno.

C'era un odore strano lì. Nel pianerottolo incontrarono tre giovani ragazze con la testa coperta dallo hijab e, sebbene non portassero il velo, si coprivano il volto tirandosi quasi fino agli occhi i bordi delle loro giacche di lana. Stavano ridendo.

— Sì, copritevi la faccia, puttanelle, come se non vedessimo che state ridendo di noi.

Claude e Daniel salirono le scale, seguiti a pochi passi dalle tre ragazze, a cui si aggiunsero due ragazzini anche loro nordafricani. L'odore diventava sempre più intenso a mano a mano che salivano.

— Claude, secondo te cosa troveremo lassù?

— Un cadavere. Quel cornuto che non faceva che riverirci magari si aspetta che svuotiamo la casa, morto compreso.

— E se il morto è ancora lì, cosa facciamo?

— Cosa vuoi che facciamo, lo lasciamo dov'è. Siamo dei rigattieri, mica un'impresa di pompe funebri.

— D'accordo, ma lo lasciamo sul letto o lo mettiamo per terra e portiamo via il letto?

Scoppiarono a ridere, più per nervosismo che per altro. Arrivati al secondo piano si fermarono davanti alla porta. Anche le ragazze che li seguivano si fermarono alcuni scalini più in basso, bisbigliando e ridacchiando.

— Che tanfo. E se ce ne andiamo e lasciamo che quel cornuto si arrangi da solo? — propose Claude.

— Ho bisogno di soldi. Ho l'affitto da pagare e mi hanno già mandato una diffida in cui mi avvertono che se non pago mi cacciano via dall'appartamento.

Claude sospirò. Infilò la chiave nella serratura, la girò e diede uno spintone alla porta. Il fetore arrivò con una vampata così asfissiante che sembrava avessero aperto la porta di un appartamento in fiamme.

— Io me ne vado — annuncio Claude tappandosi il naso. - Se lì dentro c'è un cadavere, è morto da almeno un mese.

Daniel trattenne i conati di vomito, ma scosse la testa. E sparì nell'abitazione, lanciandosi attraverso la porta con la decisione degna di un pompiere.

Claude aveva quasi raggiunto la strada quando Daniel lo chiamò dalla tromba delle scale.

— Non è un cadavere — lo rassicurò.

— Fa lo stesso. Puzza troppo.

Claude salì una rampa di scale, ma arrivato alla penultima si fermò, indeciso.

— Il bagno è rotto. E chi viveva qui non l'ha fatto aggiustare. Anche la vasca è piena di merda — gli disse Daniel dal pianerottolo.

— Che schifo. Io non entro.

— Dài.

Daniel raggiunse Claude con due salti e lo trascinò per un braccio senza dar peso alle sue proteste. — Di mobili ce ne sono pochi. In due ore abbiamo finito.

Claude risalì le scale controvoglia, con i risvolti della tuta tirati su fino agli occhi; in quel momento capì che le ragazze non si coprivano il viso per pudore, ma perché sapevano a cosa andavano incontro. Daniel nel frattempo aveva aperto le finestre del soggiorno e della cucina. Lo seguì in camera da letto, notò con un sospiro di sollievo che il letto era vuoto e spalancò la finestra.

Fecero il lavoro in fretta e furia, fregandosene se i mobili, pochi e di scarso valore, si graffiavano o se si rompevano i servizi da tavola buttandoli negli scatoloni. Claude si rifiutò di entrare nel bagno, e così fu Daniel a staccare l'armadietto senza svuotarlo e a tirar via la lampada, evitando di guardare dentro la vasca piena di una massa scura e acquosa, in cui galleggiavano fogli di giornali mezzi imputriditi. Quando finirono scesero le scale di corsa, seguiti dalle risate dei vari inquilini della casa.

— Nel furgone, con i finestrini completamente abbassati, il senso di nausea a poco a poco passò.

— Oggi non hai mangiato il panino.

— E tu non ti sei messo a rovistare nei cassetti e a inventarti storie.

— Non le invento. Le deduco.

— Eh, già. E cos'hai dedotto oggi?

— Molto poco.

— Io sì che ho scoperto qualcosa. Che era un porco quello.

— Per questa settimana non ci sono altri lavori — disse Claude quando arrivarono davanti all'edificio in cui viveva Daniel, un casermone grigio di tredici piani costruito negli anni Sessanta nel quartiere popolare di Les Marolles; sulla porta due targhe, una in olandese e l'altra in francese, ne commemoravano l'inaugurazione da parte di re Baldovino nel 1958, l'anno dell'Esposizione Universale e della costruzione dell'Atomium.

— Ti avviso se dovesse capitare qualche altro lavoro. Passi al bar dopo?

— Non lo so.

— Dài, non startene chiuso in casa. Assomigli sempre più a un pipistrello.

— Ok, magari più tardi faccio un salto.

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Pagina 131

Kasongo si fermò a un phone center per chiamare in Zaire. Continuava a chiamare Zaire la nazione, il fiume, la moneta; non avrebbe tradito anche lui il maresciallo, l'uomo visto così tante volte in televisione fluttuare in cielo tra le nuvole, un dio nuovo che aveva scacciato il dio egoista dei preti.

La madre di Kasongo era ricoverata a Kinshasa al Mama Yemo — che ormai non si chiamava più così perché avevano cambiato nome a tutto — per un tumore allo stomaco, perlomeno questo gli aveva detto sua sorella che, inoltre, gli aveva fatto sapere che la vecchia non poteva parlare perché aveva un sacco di tubi infilati in bocca e nel naso e che non ne aveva più per molto. Stavano spendendo un patrimonio in medicine, in particolare la morfina era molto cara perché difficile da trovare: la davano ai soldati feriti o a coloro a cui dovevano amputare un arto, sebbene si dicesse che i medici la rubavano per venderla ai tossicodipendenti. Dovevano comprare le siringhe per strada e avevano regalato la televisione al chirurgo, altrimenti non l'avrebbe operata. E anche gli infermieri li dovevano corrompere con cibo e regali, e lui, Kasongo, era da un pezzo che non mandava soldi; s'era dato alla bella vita in Europa mentre loro dovevano occuparsi di tutto. L'unico che portava qualcosa a casa era il più piccolo: alla fine, bisognava ringraziare Dio che una mina gli avesse portato via le gambe.

Suo fratello André lo avevano riportato a Kinshasa su un furgone militare, con le gambe mozzate all'altezza delle ginocchia e con gli occhi così arrossati che da un momento all'altro sembrava dovessero sprizzare fiotti di sangue. Era drogato al punto da perdere quasi i sensi, non si sapeva se per gli antidolorifici o per quello che di solito prendevano i soldati al fronte. Tornavano dal confine col Ruanda, dove aveva servito la patria lottando contro un'accozzaglia di invasori che avevano preso d'assalto il paese, una banda di cannibali e assassini, di zombie senz'anima. Approfittando del fatto che il Leopardo era stato tradito dai suoi amici e che si era temporaneamente ritirato per leccarsi le ferite, branchi di iene facevano scorribande per la savana nutrendosi delle carogne e ridendo dei lamenti dei moribondi; ciò che rimaneva se lo mangiavano gli avvoltoi che, arrivati da lontano, volteggiavano sopra il paese pronti a lanciarsi sulle ultime spoglie.

André rimase in ospedale per quasi due mesi. Ma quando fu dimesso non tornò a casa della madre. Ogni tanto Kasongo lo incontrava per strada, e lo vedeva implorare uomini e donne tirandoli per i pantaloni e le gonne, allungare la mano e supplicare come un bambino e invocare Dio; l'aveva sentito piagnucolare più di una volta dietro l'angolo e aveva fatto dietro-front, non voleva vederlo né salutarlo. Gli facevano venire la pelle d'oca, lui e i suoi amici invalidi che si trascinavano per le strade di Kinshasa, girovagavano attorno alle aziende dei bianchi e li perseguitavano come un branco di ratti, li circondavano e, se il bianco non usava la forza, non lo lasciavano andare fino a quando non gli dava i soldi per una birra. Lo aveva visto giocare anche a calcio – come si fa a giocare a calcio senza gambe? ma la dignità non ce l'hanno questi? – nella melma, insieme agli altri invalidi incitati da un gruppo di ubriaconi. Ripugnante, tutti quei corpi che arrancavano, quelle bocche ansimanti, quei movimenti da scimpanzé, quella sorprendente velocità con cui usavano le braccia per rincorrere il pallone. Si vergognava di vedere suo fratello mentre si rotolava nel fango e mostrava a tutti quel corpo da circo, mostruoso, un fenomeno da baraccone, sembrava felice, alzava le braccia in segno di trionfo se faceva gol e si dondolava come una scimmia sul deretano. Kasongo non lo salutò quando dovette lasciare Kinshasa. Non si sarebbe sorpreso se il fratello l'avesse denunciato in cambio di qualche soldo da spendere con gli invalidi.

Per questo gli dava fastidio che sua sorella si lamentasse con lui, che gli dicesse che lui non faceva niente mentre André era l'unico a portare qualcosa a casa. Come se a lui la famiglia gli avesse dato qualcosa. E le sue sorelle minori, non ricevevano nulla da quegli uomini con cui strusciavano alle feste? A cosa servivano allora?

– Perché mi racconti tutte queste cose? Pensi che spendo i soldi per una telefonata intercontinentale per farmi riempire le orecchie dalle tue lagne? Passami la mamma.

– Sei senza cuore. Noi ci sacrifichiamo per farla sopravvivere e tu non vuoi nemmeno starci a sentire. Sei il fratello maggiore. Dovresti essere qui.

La vecchia è morta, pensò, morta e sepolta, e i miei fratelli si saranno divisi l'eredità. La storia della morfina serve a giustificare il fatto che per me non resta niente. Stanno freschi. Non appena trovo i soldi vado là e mi farò dare quanto mi spetta fino all'ultimo zaire.

Il phone center era pieno di africani, soprattutto donne. Sole o in gruppo, chiacchieravano a voce alta. Kasongo decise di ammazzare il tempo scegliendosi una fidanzata. Dopo aver ispezionato le giovani e le mature, le adolescenti e le anziane, arrivò alla conclusione che quella che gli piaceva di più era una ragazza magra, con scarpe rosse col tacco, un tessuto wax colorato annodato in vita, una camicetta celeste e trecce finte legate ai capelli. Cercò con insistenza il suo sguardo, la fissava come fa uno stregone quando esorcizza qualcuno, ma nemmeno una volta riuscì a incrociare i suoi occhi. In ogni caso, era troppo giovane per lui. E troppo bella. Una ragazza vanitosa che s'era schiarita la pelle con degli intrugli.

Kasongo annusò l'aria: sì, lì dentro c'era un buon odore, di femmina, sotto i profumi che circondavano ognuna di loro, sotto quelle zaffate dolciastre che le precedevano e annunciavano il loro arrivo e il loro passaggio, sotto al rossetto col quale facevano risaltare ancora di più le loro labbra, sotto al burro di karité con cui si ungevano i capelli per lisciarli, sotto il sudore delle ascelle, sotto l'odore delle gomme da masticare alla fragola e alla menta, sotto quegli aromi che si fondevano nell'aria come liquidi che cadono nello stesso recipiente, un altro odore dominava su tutti e non si indeboliva quando si mescolava agli altri, anzi regnava sugli altri, proprio come la benzina crea delle macchie iridate sulla superficie delle pozzanghere. Kasongo immaginava di poter annusare ognuna di loro tra le gambe; era come se mettesse la testa sotto la gonna di ognuna di loro, come se potesse vedere quello che loro credevano fosse nascosto, vedere il colore della peluria, chi ce l'aveva folta, chi canuta, a chi di loro scorreva il sudore nelle pieghe tra le cosce e il pube, chi si era lavata quella mattina — alcune solo con l'acqua, altre col sapone — chi di loro aveva le mestruazioni.

Finalmente toccò a lui, e Kasongo entrò in una cabina che sfortunatamente non odorava di donna, ma di fumo di sigaretta; c'era, infatti, un posacenere di ottone traboccante di mozziconi.

Dovette pagare quasi un euro per sentire la voce di sua sorella alla segreteria telefonica. Poveri sì, però la segreteria telefonica ce l'avevano ancora. Aveva una voce a lutto, deliberatamente triste, lei che quando parlava sembrava un tacchino. Kasongo non lasciò nessun messaggio.

Uscì dal phone center. Sputò. Si fermò, incerto sulla direzione da prendere. Dove poteva trovare una pistola?

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Pagina 205

Vuoi che ti racconti come è la mia vita? Così, al telefono? Come passo le giornate?

D'accordo, guarda, tanto per cominciare non è facile essere donna, madre nubile e lavoratrice. Sì, sarà una banalità, ma il fatto che sia banale non lo rende meno difficile.

Ti racconto la mia giornata di oggi, così ti farai un'idea. La mattina porto Amélie a scuola... No, andiamo ancora indietro: alle sette suona la sveglia, vado in camera di Amélie e quando alzo la persiana arriva il primo grugnito di protesta; Amélie nasconde la testa sotto il cuscino, sì mette a piagnucolare, dà un calcio al materasso quando la scuoto con delicatezza.

Amélie, tesoro, devi alzarti.

Poi l'accompagno in bagno; mi sorbisco la sua sfuriata perché non trova lo spazzolino rosso – no, quello verde non è la stessa cosa, deve essere per forza quello rosso – e la sua rabbia perché le è andato a finire il sapone negli occhi, glieli sciacquo, anche se so che non serve, con l'acqua tiepida.

Vero che non ti brucia più?

Sì brucia, mamma, scema!

Poi esce dal bagno per entrare nell'altro campo di battaglia: non trova mai il vestito che cerca, e senza quei pantaloni o senza quella maglietta non vuole andare a scuola.

Amélie, è in lavatrice, tieni, mettiti questa maglietta rossa, pure questa ti piace tanto.

E Amélie si butta a terra, piange, mi insulta, e quel pianto, all'inizio finto, si trasforma in una tristezza autentica, mi si avvicina quasi strisciando – le sto accanto in ginocchio – e aspetta che la prenda in braccio. E così la prendo in braccio e, con lei ancora sconsolata, vado ad aprire la lavatrice che per fortuna non ho ancora messo in azione, tiro fuori la maglietta sporca e gliela infilo. Amélie, irrimediabilmente triste, con o senza maglietta, anche se si è un po' calmata per la mia concessione, mi permette generosamente di aiutarla a vestirsi. Andiamo a fare colazione e comincio a tremare perché so che non vorrà i fiocchi d'avena che ci sono oggi, se sono quelli con la tigre mi chiederà quelli col leone, e se sono quelli col leone butterà giù la scatola con una manata piagnucolando,

Dov'è la tigre?!

Ma se questi ti piacciono di più, Amélie.

Bugiarda!

No, oggi no; versa i fiocchi nel latte, li mescola finché non diventano pappetta, ne prende una porzione piccolissima col cucchiaio, come se dovesse imboccare un uccellino, si porta alla bocca solo una punta del cucchiaio, facendo un grande sforzo, mescola di nuovo, schiaccia ancora la pappetta fino a quando la tazza non si rovescia.

Non mi piacciono, non ne voglio più,

dice, quasi a giustificare il fatto d'aver rovesciato la tazza. Non mi prendo la briga di pulire e nemmeno di riprovare a convincerla a mangiare qualcos'altro. A quell'ora i miei nervi sono già a pezzi, e so che Amélie mi tenderà una trappola dopo l'altra, che cercherà qualsiasi scusa per farmi scoppiare e urlare, e così litighiamo, lei piange, ha tutte le ragioni del mondo perché la mamma è,

stupida, brutta,

la colpevole, si butterà di nuovo a terra, batterà i piedi mentre io continuerò a gridare, e ci vorrà mezz'ora prima che ci riconcilieremo, mezz'ora di scuola che si risparmierà... Oggi non cedo alla tentazione. Sopporto le sue provocazioni, le infilo le scarpe, obbedendo ai suoi ordini,

non stringere tanto, no!, due nodi no, solo uno!

In un altro momento cercherei di convincerla che se faccio solo un nodo le scarpe si slacceranno subito, e invece mi limito a disfarne uno. Usciamo, la trascino per strada – la mattina è l'unico momento in cui Amélie non vuole che la porti in braccio, insiste per camminare da sola e con passo volutamente lento – fino a scuola, e quando arriviamo inizia a piangere, un pianto vero, non piange per farmi commuovere o per sfidarmi o prendere tempo; piange perché sa che passerà un altro giorno in quel posto che detesta, dove si sente sola – non lo so, non capisco perché Amélie non abbia amici, perché nemmeno un maestro le si sia affezionato; ho sbagliato qualcosa? Piange sommessamente, nulla di teatrale, mentre l'accompagno in classe tenendola per mano; davanti alla porta – ovviamente arriviamo tardi, gli altri bambini sono già dentro – mi inginocchio e lei mi abbraccia, non per provare a trattenermi, ma solo per trasmettermi la sua disperazione. La lascio con un nodo in gola, ma cerco di sorridere quando, dopo essermi allontanata di qualche passo, la saluto con la mano.

Poi me ne torno a casa, lavo i piatti sporchi della sera prima, accendo la lavatrice, i letti non li rifaccio nemmeno, eccetto quello di Amélie quando, per fortuna sempre meno spesso e oggi no, si fa la pipì addosso. Ho tempo di prepararmi un caffè, di berlo mentre ascolto la radio (non so cosa cucinare per la bambina, ogni giorno sento una notizia diversa sui cibi contaminati da batteri o da diossine o da virus, sto diventando sempre più esperta in nutrizione, sempre più rassegnata ad aver mangiato tutta la merda di questo mondo perché gli altri si arricchissero alle mie spalle, ma almeno risparmino Amélie, curioso pensarla così, accettare con tanta leggerezza che danneggino me ma lascino in pace la bambina, come se fossimo ostaggi di una banda di malvagi, "ame faccia quel che vuole, ma alla bambina no, per piacere", dov'ero rimasta?). Ah sì, ascolto la radio mentre bevo il caffè, mi preparo per andare al lavoro – per portare la bambina a scuola mi infilo una cosa qualsiasi — prendo il 54 e arrivo alla Porte de Namur, e da lì proseguo a piedi fino all'Ultime Atome.

Lavoro, turno di giorno, perché con Amélie di sera non posso. Servo ai tavoli, prendo le ordinazioni, do una mano in cucina. Non mi posso lamentare. I colleghi sono simpatici, i clienti in genere anche. E sono grata per i soldi che guadagno, guarda, solo al pensiero di non avere un lavoro mi sento morire, non è che fare la cameriera sia esaltante, ma almeno dopo posso andare al supermercato e comprare quello che mi serve.

Dunque: dopo il lavoro vado a fare la spesa, poi torno a casa; Amélie è già arrivata, la sento chiacchierare in casa della vicina che per fortuna va a prenderla e sta un po' con lei; è uno di quei debiti che si accumulano e che non si riescono più a saldare, per quanto ti sforzi sai che sarai sempre in debito, perché hai molto poco da offrire e un deficit costante, e anche se non è il tipo di persona a cui vorrei lasciare mia figlia, aspetta, è simpatica e tutto il resto, ma le parla di Dio e la fa pregare, me la farà diventare una suora, ma senza di lei non saprei cosa farne della creatura. Ho già abbastanza rimorsi perché la lascio tutto il giorno a scuola, una bambina così piccola, so che ti sembrerà stupido ma è come se le stessi rubando qualcosa, e in più la inganno dicendole che i bambini devono andare a scuola perché così imparano tante cose e da grandi potranno scegliere, ma dimmi tu cosa posso scegliere io.

Quando ho messo tutta la roba in frigo e ho cominciato a preparare la cena (niente di speciale, pasta col pomodoro o tortellini col prosciutto cotto, oppure patate e salsicce), do un paio di empi alla parete che separa la mia cucina da quella della vicina, e quasi immediatamente il campanello suona, tante volte finché non vado ad aprire, e Amélie mi salta in braccio, mi stringe due volte e inizia a raccontarmi tutto quello che le è successo a scuola (guarda caso, quando mi parla della sua giornata, penso che in fondo non è così infelice, non se la passa tanto male, ha giocato, ha corso, non l'hanno sgridata troppo, mi racconta sempre cose divertenti capitate a lei o a qualche suo compagno... ma so che domani piangerà di nuovo e che le sembrerà un dramma tornare lì). Ceniamo. Giochiamo. Le leggo qualche pagina di un libro. Ci laviamo i denti e ci mettiamo il pigiama, ah, no, non è tutto: prima, la solita litigata per decidere se dormirà nel mio letto o nel suo, vince quasi sempre lei e anche oggi l'ha avuta vinta; poi l'accompagno a letto, leggo ancora qualche pagina ad alta voce, spengo la luce ma solo dopo averle promesso che non me ne andrò finché lei non si sarà addormentata.

Finalmente si addormenta. Esco dalla stanza in punta di piedi. Mi siedo sul divano. Prendo una sigaretta — la prima della giornata, quella che mi devo meritare — prima di accenderla mi servo un bicchierino di porto e accendo la segreteria telefonica sperando che ci siano solo messaggi gradevoli - e quindi nessuno da parte del padrone di casa né dello psicologo della scuola né della polizia... Della polizia?, non ce n'è motivo, è da molto che non succede, poi ti racconterò, e nonostante tutto la paura c'è ogni volta che ascolto la segreteria — insomma, vediamo:

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