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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione 21 Nota bibliografica 27 Nota critica METAMORFOSI 42 Libro Primo 92 Libro Secondo 146 Libro Terzo 190 Libro Quarto 238 Libro Quinto 278 Libro Sesto 322 Libro Settimo 374 Libro Ottavo 426 Libro Nono 476 Libro Decimo 520 Libro Undicesimo 566 Libro Dodicesimo 604 Libro Tredicesimo 660 Libro Quattordicesimo 710 Libro Quindicesimo Indici 765 Indice dei nomi mitologici 783 Indice toponomastico |
| << | < | > | >> |Pagina 9Nel periodo che va dall'e all'8 d. C. Ovidio fu impegnato contemporaneamente nella stesura dei Fasti e delle Metamorfosi: la prima opera rimase incompleta, mentre la seconda nell'anno in cui il poeta fu colpito dal decreto di relegazione doveva essere già completata e doveva già circolare nel suo assetto definitivo (Tristia, I, 724), benché il poeta stesso si lamenti che la partenza da Roma gli aveva impedito di emendare l'opera, che era ancora crescens et rude carmen e bisognevole dell' ultima lima (ibid. 22; 30; III, 14, 21-23: il poeta afferma di aver bruciato la propria copia all'atto della partenza da Roma, notizia destinata a divenire un topos nelle biografie degli scrittori). Con il titolo greco Metamorphoses, attestato da manoscritti e da citazioni tardo-antiche, Ovidio senza dubbio faceva riferimento alle opere greche in continuità delle quali poneva il suo poema, ma nei primi due versi del libro I (il prologo di appena quattro versi è il più breve di quelli premessi a poemi latini), parafrasando il titolo stesso (in nova ... mutatas dicere formas/corpora) puntualizza per il lettore l'essenza delle trasformazioni che era suo disegno cantare: infatti, con il nesso in nova ... mutatas ... corpora, che interpreta il prefisso meta- del termine greco, egli traduce in azione compiuta quanto quel termine medesimo indica come fenomeno in fieri. Sotto questo aspetto, poi, l'accoppiamento dei sostantivi formae/corpora risulta molto significativo, poiché, come si evince sin dal libro I, la forma è nel suo significato più specifico corpus, cioè materia che ha un principio costitutivo ancorato alla natura, sicché ogni nuova forma non può che manifestarsi con caratteristiche fisiche. I soggetti che subiscono i mutamenti sono o semidei o eroi o personaggi di rango elevato o anche umile gente, come Filemone e Bauci e l'innominato ragazzo mutato da Cerere in geco: i nova corpora assunti in seguito al mutamento sono, per lo più, quelli di animali quadrupedi o volatili (p. es., Callisto in orsa, le figlie di Anio in colombe) oppure di alberi e fiori (p. es., Ciparisso e Narciso) oppure di minerali (p. es., Niobe), ma Aretusa, Ciane, Egeria si trasformano in fonti d'acqua, mentre Eco diventa puro fenomeno acustico. Si avverano, inoltre, metamorfosi particolari, come quella di Ifide cretese che diventa maschio da donna che era, o quella di Ceneo che prima cambia sesso e poi è mutato in uccello, o quella dei voti contro Crotone che risultano essere di color bianco invece che nero, come dovevano essere, o quella, infine, di Salmacide ed Ermafrodito. Se il mutamento di forma quasi sempre si opera su esseri forniti di intelletto facendoli «decadere» dal loro stato superiore, qualche altra volta il movimento è dal basso in alto, per così dire, per cui le pietre di Deucalione e Pirra si trasformano in uomini, la statua di Pigmalione si anima sotto le sue carezze, le formiche di Egina diventano cittadini della medesima, dalle ceneri di Memnone nascono uccelli, mentre i vascelli di Enea si cambiano in ninfe marine. Le trasformazioni, poi, sono provocate dall'avversione o dalla protezione di qualche divinità (p. es., Minerva contro Aracne, Diana per Aretusa), dal dolore o dall'amore (p. es., Ciane e Clitie), dal rimorso o dalla purezza d'animo (p. es., Mirra e Bauci e Filemone) dei protagonisti (ma Esculapio si trasforma in serpente per propria volontà). Tranne che in un caso (quello di Io), nessuno riacquista la forma perduta, pur mantenendo in quella acquisita i sentimenti e la sensitività che aveva prima della trasformazione. [...] Definire, però, la tipologia dell'epica ovidiana è tuttora problematico, nonostante che quasi ottant'anni fa un saggio, divenuto punto di riferimento negli studi sul poeta, avesse qualificato le Metamorfosi come il poema dei sentimenti robusti o enfatizzati, della divina maestà, del grandioso e del solenne. La netta contrapposizione tra la tonalità elevata del poema e quella della restante poesia elegiaca è stata ridimensionata in seguito alle numerose ricerche condotte intorno al perpetuum carmen. ศ stato facile notare, per esempio, la consistente presenza dell'elegiaco in tante storie di trasformazioni: basti richiamare qui l'episodio di Ceice e Alcione (XI, 410-748) dove si trova tutto l'armamentario dell'elegia, querellae, giuramenti, speranze, attese, rimpianti, insomma tutto ciò che è delegato a muovere la compassione. Ma si sono scoperti altri tratti che epici non sono, quali l'umoristico, il grottesco, l'idillico, il novellistico e il fiabesco. Anche qui poche prove: per l'umoristico è sufficiente considerare l'imborghesimento cui vengono sottoposti gli dèi (p. es., Giove che spera di farla franca agli occhi della moglie correndo l'avventura con Callisto [II, 423 ss.]); per il grottesco ci dà un modello insuperabile la descrizione della mostruosa sovrastruttura sul corpo di Scilla (XIV, 59-65); per l'idillico basta la lettura della descrizione della campagna intorno a Pergusa dove si aggira Proserpina (V, 385 ss.: è stato acutamente rilevato che l'elemento idillico fa contrasto con l'esito tragico della vicenda in cui viene introdotto [Otis, p. 357 s.]); per il novellistico il racconto di Cefalo e Procri (VII, 794-865) contiene tutti gli elementi umani che caratterizzano una novella, vale a dire la gelosia, la delazione, l'equivoco, la fatalità, mentre, infine, il legame che si stabilisce tra Ciparisso e il cervo (X, 106-42) costituisce una fiaba incantevole e delicata. Né tutti questi elementi allotri alla tradizione epica sono da ritenere sporadici o casuali, dal momento che il poeta ha cura di mescolare insieme tratti di un genere all'altro (p. es., nell'episodio elegiaco di Ceice la tempesta marina che provoca la morte dell'eroe e il sogno che Alcione ha di notte dopo l'avvenimento appartengono di certo alla tradizione epica), sicché la conclusione più prudente da trarre è che Ovidio volle scrivere, sì, un epos, ma che ne mise insieme uno sui generis, caratterizzato non da un'unica tonalità o da un unico ethos, ma da «una elaborata politonalità» e da «una grande discontinuità di stile e di contenuto» (Otis, p. 334, che vede nelle Metamorfosi due piani intrecciati tra loro, sebbene in costante tensione, uno epico ed eroico ma deliberatamente piegato al comico e al grottesco, l'altro anepico, umano, naturale e perciò marcato di tragica serietà). [...] Il problema più affascinante che ci propongono le Metamorfosi resta, però, quello del significato che Ovidio ha dato ai miti narrati. Se si vuol pensare ad un'impostazione «filosofica» del poema, bisognerà dire che essi servono al poeta per esporre metaforicamente una sua teoria evoluzionistica della materia dal chaos al cosmo. Infatti, la grande teoria del divenire messa in bocca a Pitagora nel libro finale del poema (cui si fanno però ripetere pensieri di Eraclito e di Empedocle) ed estrinsecantesi con affermazioni di principio quali omnia mutantur, nihil interit: errai et illinc / huc venit, hinc illuc et quoslibet occupai artus / spiritus eque feris humana in corpora transit / inque feras noster, nec tempore deperit ullo (165-68) o momenta cuncta novantur (185) o nostra quoque ipsorum semper requieque sine ulla / corpora vertuntur, nec, quod fuimusve sumusve, / cras erimus (214-16) (dove anche la metensomatosi viene vista come una manifestazione del perpetuo flusso di tutte le cose) potrebbe far credere che il poeta voglia ristabilire con il discorso sacro una verità «scientifica» da contrapporre all'irrealtà dei miti narrati (è significativo il fatto che il filosofo spieghi, per esempio, come nascano in natura le rane, l'orso, il pavone, mentre nei libri precedenti [VI, 317 ss.; II, 401 ss.; I, 625 ss.] la loro origine era legata alla metamorfosi subita da alcuni esseri umani). C'è, però, da osservare che i nova corpora, risultato della metamorfosi, non sembra che siano pronti o predisposti per un successivo mutamento, escluso quello interno al «genere» acquisito, se tale genere è costituito da esseri viventi, il che contrasta, in certo senso con tutta la teoria pitagorica. E allora le trasformazioni sono il segno di una realtà che si dissolve, lo specchio che riflette problemi profondi e angosciosi, o una mera finzione poetica? La prima ipotesi, secondo cui Ovidio avrebbe vissuto la lacerazione dei suoi tempi (il dramma, cioè, di una generazione che perde la propria identità) attraverso la descrizione della dissolvenza dell'identità psicologica dei protagonisti (Frไnkel), può apparire persuasiva sulle prime, ma nella sostanza non tiene conto che per il poeta la realtà fisica ha gli stessi contorni instabili e precari di quella psichica, sicché essa, la tesi si intende, riesce alla fine molto riduttiva. Anche al secondo interrogativo è stata data da tempo una risposta negativa, ribadita in seguito dal raffronto con Virgilio e con la sua maniera di trattare il medesimo mito (vale a dire quello di Enea) e dalla constatazione che Ovidio svincola il mito dalla sua «funzione problematica, tragica, metafisica e speculativa» (Galinsky, 1976, p. 14). Sembrerebbe allora che i miti siano stati scelti per le loro intrinseche qualità narrative e per la connessa capacità di soddisfare il gusto per la fabulazione proprio del poeta. C'è, in questa asserzione, molto di vero, ma c'è anche il rischio di presupporre un monolitico blocco di miti da cui il poeta avesse attinto a piene mani, variando il materiale a fini ludici. In questo modo, però, si lasciano nell'ombra le reali motivazioni di tale gioco, per capire le quali è necessario non perdere di vista la concezione poetica di Ovidio o meglio la funzione che egli affidava alla poesia. Capovolgendo, infatti, una tendenza dell'estetica antica che considerava l'arte mimesi della natura, il poeta rivendica alla letteratura il diritto all'indipendenza dalla realtà, individuando per essa «uno spazio particolare, una dimensione specifica, un universo svincolato dalle leggi del reale e anche del verisimile»: non c'è secondo lui limite alla licentia vatum, i quali sono riusciti a dare vita perfino agli dèi o a surrogare la storia nelle sue lacune, a creare in sostanza, un universo «reale» pur basandosi sulla finzione (Rosati, 1983, p. 87). Esemplare per questo aspetto è la figura di Pigmalione che, innamoratosi della statua da lui stesso fatta, vive quella sua illusione al punto che questa alla fine acquista la dimensione della realtà. | << | < | > | >> |Pagina 16Contenuto dei libri delle Metamorfosi
LIBRO I.
Proemio. Cosmogonia con la descrizione della separazione
dei quattro elementi e della creazione degli animali e dell'uomo. Le
quattro età del mondo che segnano un regresso morale dell'umanità. Lotta dei
Giganti per togliere il regno a Giove. Giove decide di
distruggere il genere umano con un diluvio universale, dopo le prove
di crudeltà date da Licaone, trasformato in lupo (è questa la prima
metamorfosi del poema). Deucalione e Pirra, unici sopravvissuti al
diluvio, dànno origine a un nuovo genere umano, lanciando pietre alle
proprie spalle. Nascita di nuove fiere: il pitone ucciso da Apollo. Apollo
si innamora di Dafne, che viene mutata in alloro. Giove si innamora di Io, che
viene trasformata in giovenca e vigilata da Argo, ucciso a sua volta da
Mercurio. Metamorfosi di Siringa. Io riacquista la forma umana e viene
adorata come divinità. Il libro si chiude nel nome di Fetonte, figlio del
Sole, la cui saga abbraccia quasi metà del libro II.
LIBRO II.
Fetonte ottiene da suo padre, il Sole, di poter guidare il suo carro lungo la
volta celeste, ma non riesce a indirizzare i cavalli per la via consueta,
provocando gravi danni all'universo, finché Giove non lo colpisce con il fulmine
e lo fa precipitare nell'Eridano. Le sorelle di Fetonte, le Eliadi, sono
trasformate per il dolore in pioppi. Cicno mutato in cigno per la perdita
dell'amato Fetonte. La ninfa Callisto, compagna di Diana, sedotta da Giove è
mutata in orsa e poi in costellazione celeste. Il corvo da bianco diventa
nero. La figlia di Coroneo mutata in cornacchia, Nictìmene in gufo, Ociroe in
cavalla. Batto, per aver ingannato Mercurio, è trasformato in roccia.
Aglauro, figlia di Cecrope, è mutata in statua da Mercurio. Ratto di Europa
per opera di Giove.
LIBRO III.
Cadmo, eroe fenicio, giunge in Beozia e fonda Tebe. Suo figlio Atteone, per
aver visto Diana nuda, è mutato per punizione in un cervo e viene sbranato dai
suoi stessi cani. Giove, innamorato della figlia di Cadmo, Semele, che morirà
per aver voluto vedere il re degli dèi in tutto il suo fulgore. Eco,
innamorata di Narciso, si riduce allo stato di semplice suono, mentre Narciso,
innamoratosi della propria persona, si consuma fino alla morte, trasformandosi
in fiore. Penteo, nipote di Cadmo, si oppone alla diffusione del culto di
Bacco e viene fatto a pezzi dalle Baccanti, guidate da sua madre Agave.
LIBRO IV.
Le figlie di Minia si oppongono al culto di Bacco e durante le feste a lui sacre
continuano a lavorare, raccontando a vicenda varie storie (la vicenda amorosa di
Piramo e Tisbe, gli amori adulterini di Marte e Venere, la passione del Sole per
Leucotoe, trasformata nella pianta dell'incenso insieme alla rivale Clizia,
mutata invece nel fiore dell'eliotropo, e infine la prodigiosa aggregazione in
un sol corpo di Salmacide ed Ermafrodito). Le figlie di Minia alla fine di
tali racconti sono trasformate in pipistrelli. Ino, figlia di Cadmo, insieme
al marito è spinta alla pazzia da Giunone, per cui Ino si butterà in mare con
il figlio Melicerta, ma si salva assumendo il nome di Leucotea per sé e
di Palemone per il figlio. Metamorfosi di Cadmo e della moglie Armonia in
serpenti. Saga di Perseo, figlio di Danae e di Giove che l'aveva sedotta sotto
forma di pioggia d'oro: vince la Gorgone e adorna il suo scudo con la testa di
questa; pietrifica Atlante nella regione dell'Esperia; volando verso l'Etiopia
libera Andromeda, destinata ad essere sacrificata a un mostro marino; sposa
Andromeda.
[...] | << | < | > | >> |Pagina 43ศ mio proposito cantare il mutamento di corpi in altri nuovi: o dèi (ché siete voi gli autori di quei mutamenti) siate favorevoli alla mia impresa e accompagnate il mio poema universale dall'origine del mondo fino alla mia età. Prima del mare e delle terre e del cielo che tutto avvolge, l'aspetto della natura era uniforme in tutto l'universo, che chiamavano Chaos, massa grezza e senza ordine e nient'altro se non blocco inabile: ammassati in questo Chaos germi discordanti di sostanze non bene armonizzate. Il sole non ancora irradiava la luce sul mondo né la luna nella sua crescita riacquistava le corna né la terra librandosi sul suo peso era sospesa nell'etere addensato intorno, né il mare aveva steso le sue braccia su un lungo tratto delle terre. E per la condizione in cui si trovavano e la terra e il mare e l'etere, la terra era vacillante, il mare innavigabile e l'etere privo di luce: nessun elemento conservava la propria forma, c'era contrasto tra le forze, poiché in uno stesso corpo il freddo era in conflitto con il caldo, l'umido con l'asciutto, la cedevolezza con la rigidità, la pesantezza con l'inconsistenza. Tale contrasto risolse un dio, cioè la natura più benevola: infatti, staccò le terre dal cielo e le acque marine dalle terre e separò la limpida volta celeste dallo spesso etere; e dopo aver districato e tirato fuori dalla massa informe tali elementi, li congiunse in armoniosa unione pur separati nelle loro sedi. La natura ignea e senza peso della volta celeste brillò di luce e si trovò un posto nell'alta rocca: ad essa è vicino per inconsistenza e per posizione l'etere; la terra più densa di essi si prese i grandi elementi della vita e si assestò sotto il suo peso: il mare, spargendosi intorno, occupò le estreme zone e abbracciò la parte solida dell'orbe. Quando un dio, chiunque fosse, divise quella massa così disposta e con tale divisione la condensò in sezioni, all'inizio compattò la terra in forma di un grande globo, perché essa fosse uniforme da ogni parte; poi diffuse le acque e impose che si gonfiassero per i venti impetuosi e lambissero i lidi della terra intorno alla quale si erano stese. Aggiunse fonti e smisurati specchi d'acqua e laghi e imbrigliò con rive tortuose il corso dei fiumi, i quali, sparsi in vari luoghi, vengono in parte assorbiti dalla terra stessa, in parte si gettano nel mare e, accolti nella distesa dell'acqua senza limiti, battono i lidi invece che le rive. Volle che le pianure si estendessero, che le valli si abbassassero, le selve si coprissero di fogliame, che i monti pietrosi si innalzassero; e come due zone da destra e altrettante da sinistra suddividono il cielo alle quali si aggiunge una quinta più calda delle stesse, così la provvidenza divina ripartì con lo stesso numero la massa della terra avvolta dal cielo, sicché altrettante zone sono delimitate sulla terra. Delle quali quella mediana non è abitabile per il calore; due altre sono coperte di neve alta: altrettante zone dispose tra l'uno e l'altro spazio, e creò un giusto equilibrio mescolando il caldo con il freddo. Su di esse sta sospesa l'aria; la quale quanto è più leggera del peso della terra e dell'acqua, di tanto è più pesante dell'etere. Lì stabilì che avessero sede le nebbie e le nubi e i tuoni che scuotono gli animi degli uomini e i venti che provocano lampi e fulmini. A questi il creatore del mondo non permise che occupassero dappertutto l'aria; a stento ora si impedisce loro, sebbene ciascuno soffi in spazi diversi, di non sconvolgere il mondo: sì grande è la discordia dei fratelli. L'Euro suole muoversi verso l'Aurora e i regni Nabatei e la Persia e le catene montuose esposte ai raggi mattutini; l'occidente e le piagge che si riscaldano al sole che tramonta sono esposti allo Zefiro; l'orribile Borea domina sulla Scizia e sul Settentrione; la terra opposta è sempre umida per le nubi e per l'Austro portatore di pioggia. Sopra queste regioni il dio mise il fluido etere che è privo di peso e non mostra traccia dell'impurità terrestre. Aveva appena così diviso il tutto con limiti ben fissi, quand'ecco che le stelle, che a lungo erano state avvolte da una spessa caligine, cominciarono a brillare in tutta la volta celeste; e perché nessuna regione fosse priva di esseri animati, gli astri e le entità divine occupano la regione celeste, le onde si adattarono ad essere abitate da pesci guizzanti, la terra accolse le fiere, l'aria mobile gli uccelli. Sino allora mancava un essere animato più augusto di questi altri e fornito di una mente più profonda e tale da poter dominare su tutto: nacque l'uomo, sia che quell'artefice della natura, origine di un mondo più perfetto, lo abbia creato con seme divino, sia che la terra, fresca di nascita e separata da poco dall'alto etere, conservasse i germi del cielo creato insieme ad essa; e il figlio di Giapeto impastando questa terra con le acque pluviali la plasmò a somiglianza degli dèi che reggono l'universo, e mentre tutti gli altri esseri animati guardano proni la terra, all'uomo invece dette una figura eretta e volle che guardasse il cielo e drizzasse i suoi occhi alle stelle. Così, la terra che prima era stata incolta e senza forma, trasformandosi accolse le sembianze sconosciute degli uomini. L'età dell'oro fu la prima a nascere: essa spontaneamente, senza giudici, senza leggi praticava la virtù e la giustizia. Il timore della pena era assente, né si leggevano sulle tavole fissate a muro prescrizioni o sanzioni né la gente implorante aveva paura del volto del proprio giudice, ma tutti erano tranquilli mancando chi punisse. Non ancora il pino tagliato sui suoi monti era disceso nelle limpide acque, per scoprire terre straniere, e i mortali non conoscevano altri paesi se non il proprio. Non ancora cingevano le città fossati a strapiombo, non erano in uso la tromba diritta né il corno dal bronzo ricurvo, non gli elmi né le spade: senza bisogno di soldati le genti trascorrevano in tutta sicurezza ozi piacevoli. Da parte sua la terra libera e non toccata dal rastrello, non solcata dagli aratri, da sé dava tutti i prodotti, e gli uomini soddisfatti per i cibi ottenuti senza sforzo raccoglievano i corbezzoli e le fragole dei monti e le corniole e le more che allignavano sugli ispidi roveti e le ghiande che cadevano dalla vasta pianta di Giove. La primavera era eterna e i placidi Zefiri accarezzavano con il loro tiepido soffio i fiori nati senza essere stati seminati: inoltre la terra non arata produceva anche messi e il campo pur non rinnovato biondeggiava di turgide spighe: da un lato scorrevano fiumi di latte, dall'altro fiumi di nettare, e il biondo miele stillava dalla verde elce. Dopo che il mondo, una volta cacciato Saturno nel Tartaro tenebroso, fu sotto la potestà di Giove, subentrò l'età d'argento, meno prospera di quella dell'oro, di maggior valore rispetto a quella del fulgente bronzo. Giove abbreviò i tempi dell'antica primavera e circoscrisse l'anno nelle quattro stagioni, l'inverno e l'estate e l'autunno incostante e la primavera di breve durata. Allora per la prima volta l'aria infuocata dal caldo asciutto divenne incandescente, e penzolò il ghiaccio rappreso dai venti; allora per la prima volta gli uomini abitarono le case: ma a far da casa furono le spelonche e le frasche ammassate e i rami tenuti insieme con la corteccia; allora per la prima volta la semenza di Cerere fu interrata nei lunghi solchi, e i giovenchi si lamentarono sotto la pressione del giogo. La terza che succedette a quella fu l'età del bronzo, più violenta per carattere e più incline alle armi crudeli; tuttavia non al colmo della perversione; l'ultima si formò dal duro ferro. Subito si riversò su quell'età del peggior metallo ogni nefandezza, scomparvero pudore, sincerità, lealtà; al loro posto subentrarono le frodi, gli inganni, le insidie e la violenza e la scellerata cupidigia di ricchezze. Il navigante alzava le vele ai venti, nonostante che ancora non li conoscesse bene, e quegli alberi che a lungo si erano innalzati sugli alti monti, trasformati in carene sobbalzarono sopra mari sconosciuti, e uno scaltro agrimensore assegnò lunghi confini alla terra, prima comune a tutti al pari della luce del sole e dell'aria. E non soltanto alla terra feconda si chiedevano le messi e gli alimenti necessari, ma si penetrò nelle viscere della terra, e si cavarono fuori quelle ricchezze che il dio aveva nascosto e collocato vicino alle ombre stigie, sicché furono stimoli per una mala condotta; e comparve il ferro malefico e l'oro più malefico del ferro: nacque la guerra, che combatte servendosi di entrambi quei due malanni e che brandisce le armi fragorose con la mano macchiata di sangue. Si vive di rapina; il forestiero non può fidarsi dell'ospite, né il suocero del genero, anche l'affetto tra i fratelli è raro. Il marito agogna la morte della moglie, questa del marito; le spietate matrigne preparano livide pozioni velenose; il figlio indaga sugli anni del padre prima del tempo. Giace sconfitta la benevolenza e la Vergine Astrea abbandona, ultima dei celesti, le terre grondanti di sangue. E perché non fosse al sicuro nemmeno l'alto cielo, si narra che i Giganti aspirarono a impadronirsi del regno celeste e che ammucchiarono i monti innalzandoli fino alle stelle. Allora il padre onnipotente scagliando fulmini squassò l'Olimpo e fece cadere il Pelio sull'Ossa che gli stava di sotto; mentre quei corpi immani giacevano sotto la massa da loro accatastata raccontano che la Terra si inumidì inondata dall'abbondante sangue dei suoi figli ancora caldo e che lo animò e, perché rimanessero tracce della sua stirpe, lo mutò in sembianze umane. Ma questa discendenza divenne sprezzante degli dèi e avidissima di strage spietata e violenta: avresti potuto dedurre che erano nati dal sangue. | << | < | > | >> |Pagina 165Mentre sulla terra accadevano queste cose secondo la volontà del destino e la prima infanzia di Bacco, nato due volte, non correva rischi, un giorno Giove, esilarato dal nettare, come si tramanda, mise da parte i gravi pensieri per trastullarsi gaiamente con Giunone inoperosa e «Senza dubbio disse il piacere che voi provate è maggiore di quello che tocca ai maschi». La dea dice di no: si stabilì di chiedere il parere del dotto Tiresia: egli aveva provato il piacere di ambo i sessi. Infatti, avendo percosso con un bastone in una verde selva i corpi accoppiati di due grandi serpenti e per questo da maschio divenuto donna, meraviglia!, era così vissuto per sette anni; nell'ottavo rivide gli stessi serpenti e «Se l'effetto di una percossa a voi inflitta disse è tanto da cambiare la condizione di colui che ne è l'autore, anche ora vi colpirò». Dopo averli percossi, ritornò la costituzione di prima con il sembiante che aveva dalla nascita. Orbene, costui incaricato come giudice di quella lite scherzosa, confermò le parole di Giove; la figlia di Saturno si tramanda che si dolesse più del dovuto e non in modo proporzionato alla causa, sicché condannò il suo giudice ad una cecità eterna. Ma il padre onnipotente (ché non è permesso a qualunque dio vanificare le azioni di un altro dio) gli concesse, in compenso della privazione della vista, di conoscere il futuro, addolcendo la condanna con quell'onore.Tiresia, divenuto famosissimo in tutte le città della Beozia, dava alle genti che li chiedevano responsi veritieri; le prime prove della veridicità e della validità delle sue profezie le ebbe la glauca Lirìope, che una volta il Cefìso aveva impigliato nella sua corrente tortuosa e le aveva usato violenza avvolgendola nelle proprie acque. La bellissima ninfa concepì e partorì un pargolo tale da poter essere amato fin da allora e lo chiamò Narciso; intorno a lui fu consultato il vate profetico per sapere se avrebbe visto i lunghi giorni di una matura vecchiaia: «Se non si conoscerà» egli disse. La profezia dell'augure a lungo sembrò menzognera, ma la confermarono la fine, gli avvenimenti, nonché il genere di morte e la singolarità della follia. Infatti, il figlio del Cefìso aveva aggiunto un anno ai quindici già compiuti e poteva essere creduto o un fanciullo o un giovinetto: molti giovani lo desideravano e molte fanciulle; ma non riuscirono a toccarlo né giovani né fanciulle (tanto aspra era la superbia racchiusa nella sua delicata bellezza). Ma una volta lo vide, mentre spingeva verso le reti i cervi tremanti, una ninfa loquace, che non aveva appreso di stare zitta davanti a chi parlava né di parlare per prima lei stessa: era Eco risonante. Eco aveva ancora un corpo e non era solo una voce: tuttavia, quella ciarliera usava la voce non diversamente da quanto faccia ora, cioè ripetere di molte parole le ultime voci. L'aveva così ridotta Giunone, in quanto, ogni volta che avrebbe potuto sorprendere le ninfe in amplesso con il suo Giove sui monti, ella accortamente tratteneva la dea con un lungo discorso, finché le ninfe fuggissero. Dopo che la Saturnia si accorse di questo trucco: «Avrai scarsa possibilità disse di usare questa lingua con la quale sono stata ingannata e breve assai sarà l'uso che farai della tua voce». Con l'azione conferma le minacce; pertanto la ninfa ripete la parte finale del discorso e ridice le parole ascoltate. Orbene, quando essa vide Narciso che vagava per le campagne solitarie, se ne innamorò e si mise furtivamente sulle sue orme, e quanto più lo segue, più intimamente brucia del fuoco d'amore, non diversamente di quando lo zolfo infiammabile, spalmato sulla sommità delle fiaccole, capta il fuoco che gli è stato accostato. O quante volte avrebbe voluto avvicinarlo con parole carezzevoli e porgergli supplichevoli preghiere! ma la sua natura si oppone, non permettendole di iniziare il discorso; invece, essa questo le viene permesso è preparata ad ascoltare solo suoni, cui rinviare da parte sua le parole. Per caso il giovinetto, allontanatosi dalla schiera dei fedeli compagni aveva gridato «chi mai è qui?» a cui Eco aveva risposto «è qui». Egli si stupisce e volgendo gli occhi verso ogni dove grida a gran voce «vieni»: quella gli rivolge lo stesso invito. Guarda di nuovo e poiché non vede venir nessuno «perché disse mi fuggi?» e risentì altrettante parole di quante ne aveva dette. Insiste e, ingannato dal riflesso della voce alternantesi con la sua, «incontriamoci qui» disse, ed Eco, che a nessuna voce mai avrebbe risposto più volentieri, ripeté «incontriamoci»: asseconda allora le proprie parole e uscita dalla selva si avvia a gettare le braccia a quel collo desiderato. Quello fugge e nella fuga «tieni lontane le mani, non abbracciarmi! grida Che possa morire prima di concedermi a te». Quella non rispose se non «concedermi a te». Così respinta si nasconde nelle selve e copre il viso pieno di rossore con fogliame e da allora vive nelle spelonche solitarie; ma l'amore le rimane fisso nel cuore e cresce per il dolore del rifiuto: gli affanni e le veglie le fanno smagrire il miserevole corpo, la magrezza fa raggrinzire la pelle e ogni sua linfa vitale si disperde nell'aria; sopravvivono solo la voce e le ossa: ma, mentre la voce rimane, dicono che le ossa si siano pietrificate. Per ciò si nasconde nelle selve e non si vede sui monti, ma viene ascoltata da tutti: soltanto il suono sopravvive di lei. | << | < | > | >> |Pagina 715«Ma quell'antica età, cui abbiamo dato il nome di Aurea, fu felice con i frutti degli alberi e con le erbe, che la terra produce, né gli uomini si macchiarono la bocca con il sangue. Allora gli uccelli volavano sicuri nell'aria e le lepri girovagavano senza paura in mezzo ai campi, né i pesci finivano appesi all'amo per la loro credulità; tutto era senza insidie, niente faceva temere la frode, vi era pace assoluta. Ma, un promotore malvagio, chiunque sia stato, dopo che provò invidia per i pranzi degli dèi e per primo riempì l'avido stomaco con pietanze di carne, aprì la strada all'empietà; ma si può supporre che all'inizio il ferro si sia scaldato e coperto di sangue per la strage delle fiere (e ciò sarebbe stato bastevole) e possiamo anche ammettere che non è una colpa mandare a morte gli animali che desiderano la nostra. Ma se si era costretti a ucciderli, non c'era bisogno di imbandirne le carni.«Da quel momento la scellerataggine si spinse ben oltre e si pensa che come prima vittima meritevole di morte fu il maiale, perché con il suo largo grugno avrebbe dissotterrato la semenza e avrebbe distrutto la speranza di un raccolto annuale. Poi si dice che il capro, per aver brucato le foglie della vite, venisse sacrificato sull'altare di Bacco per punizione: ad entrambi gli animali arrecò danno la propria colpa; ma voi, pecorelle, che colpa commetteste, voi, stirpe pacifica e nata per aiutare gli uomini, che portate un nettare nelle poppe rigonfie e con la vostra lana ci procurate morbide vesti e che ci siete utili più da vive che dopo morte? Che colpa hanno i buoi, stirpe che non conosce frode e inganno, innocua, ingenua, nata per sopportare le fatiche? In sostanza, è un ingrato e non degno del dono delle messi colui che può macellare il suo compagno di lavoro nei campi, subito dopo avergli tolto il peso del curvo aratro, colui che con una scure ferisce quel collo logorato dalla fatica, per mezzo del quale ha rivoltato la terra indurita e ha ottenuto tanta messe. «E non basta che si commetta una simile empietà: imputano il delitto agli dèi stessi, credendo che la suprema divinità goda del sangue del laborioso giovenco. La vittima senza macchia è eccezionale per bellezza (ché è una disgrazia essere bello), adornata con bende e oro, viene collocata davanti all'altare, ascolta le preghiere senza capirle e vede che tra le corna della sua fronte vengono sistemate quelle messi che ha fatto crescere e colpita dai coltelli, che forse ha già intravisto nell'acqua limpida, li arrossa del suo sangue. Subito si mettono a ispezionare le viscere strappate dal petto ancora vivo e cercano di capire da quelle la volontà degli dèi. E voi, stirpe mortale, osate cibarvene? Tanta è la brama di cibi vietati negli uomini? Ma non fatelo, vi prego, e prestate ascolto ai miei moniti: ogni volta poi che vi metterete in bocca pezzi di buoi macellati sappiate e rendetevi conto di mangiare i vostri coltivatori. «E poiché è un dio che mi fa parlare, lo asseconderò religiosamente e aprirò la Delfi che è in me e lo stesso universo e svelerò gli oracoli dell'augusta mente. Canterò cose grandi e mai indagate dagli ingegni dei predecessori e che a lungo costituirono un mistero: mi è gradito librarmi in alto tra gli astri, mi piace, lasciando alle spalle la terra e le sue sedi inerti, essere trasportato da una nube e poggiarmi sulle forti spalle di Atlante e guardare da lontano gli uomini che vagano qua e là, senza essere guidati dalla ragione; e a loro, ansiosi e atterriti dalla morte, rivolgerò queste esortazioni e spiegherò anche la successione degli eventi fatali. «O stirpe umana sbigottita dalla paura della gelida morte! perché temete lo Stige, le tenebre e altri nomi insignificanti, argomenti buoni per i poeti, nonché i pericoli di un mondo immaginario? Non crediate che i vostri corpi, sia che li distrugga il rogo con il suo fuoco o li decomponga il corso del tempo, possano soffrire alcun male: le anime non muoiono e sempre vanno in altri corpi lasciato il precedente e vi abitano dopo esservi state accolte. Io stesso (me lo ricordo), al tempo della guerra di Troia, ero Euforbo, figlio di Pantoo, il cui petto un giorno fu trafitto dalla pesante lancia del minore degli Atridi. Poco tempo fa ho riconosciuto nel tempio di Giunone in Argo, città di Abante, lo scudo che portava al braccio sinistro. «Tutto si trasforma, nulla muore: vaga lo spirito e da lì viene qui, da qui là e si infonde in qualsiasi corpo e passa dai corpi delle bestie a quelli umani e da noi alle bestie e mai perisce: come la cera malleabile può essere modellata con nuove figure, senza restare com'era prima né conservare le stesse forme, e tuttavia è sempre la stessa sostanza, così, secondo la mia dottrina, l'anima è sempre la stessa, ma trasmigra in corpi diversi. Di conseguenza, perché l'affetto per la parentela non sia sopraffatto dalla brama del ventre, evitate parlo come un vate di scacciar via, con empia strage, le anime a voi legate e fate che il sangue non si nutra con il sangue. «E ora che navigo sul vasto mare dopo aver spiegato ai venti tutte le vele, vi dico che niente esiste in tutto il mondo che rimanga stabile. Tutto scorre e la forma di ogni fenomeno è fluttuante. Anche il tempo stesso scorre con moto incessante, non diversamente da un fiume. Infatti, non è possibile che si arresti la corrente del fiume né lo può l'attimo fuggente, ma, come un'onda è spinta da un'altra e questa stessa, mentre avanza, è incalzata di dietro, ma incalza quella che la precede, così il tempo ugualmente fugge e insegue e si rinnova sempre; infatti, quel che è stato prima vien superato e quel che ancora non esisteva diviene e ogni istante si ricrea. «Tu vedi come la notte, finito il suo corso, tenda verso la luce e come questo astro splendente subentri alla notte oscura; né il cielo ha lo stesso colore, quando l'intero creato, stanco, si abbandona al riposo e quando Lucifero si avanza luminoso sul suo cavallo bianco, e di nuovo il colore è diverso, quando la figlia di Pallante, che precede il giorno, tinge di rosa il mondo per consegnarlo a Febo. E anche il disco di questo dio rosseggia di mattina quando si alza dal profondo della terra e rosseggia allorché si nasconde nel profondo della terra; ma è candido nel punto più alto del suo cammino, perché lì la qualità dell'aria è migliore e sfugge con la lontananza alle contaminazioni della terra. Né può essere sempre uguale la forma di Diana notturna e nella fase crescente sarà più piccola di quella che verrà domani, più grande quando riduce la superficie del suo disco. «E che? Non vedi come l'anno procede in quattro fasi una dopo l'altra, a imitazione di quelle dell'età umana? Infatti, a primavera è tenero e lattante e molto simile all'età della puerizia: allora l'erba nata da poco e senza vigore si gonfia e così delicata alimenta la speranza dei coltivatori. Allora tutto è in fiore e il fertile campo è ridente per i colori dei fiori, ma nelle fronde non c'è ancora un po' di forza. Dopo la primavera l'anno, divenuto più robusto, trapassa nell'estate e diventa un giovane vigoroso: infatti, non c'è stagione più gagliarda né più fruttuosa né più ardente. Lo continua l'autunno maturo e mite per aver deposto i bollori della gioventù, a metà tra il giovane e il vecchio, anche con qualche capello bianco sulle tempie. Poi l'ispido inverno, la stagione senile, si avanza con passo vacillante o privato dei suoi capelli o tutti bianchi, se ne ha ancora. «Anche i corpi di noi stessi si tramutano continuamente, senza mai una tregua, e domani non saremo quel che fummo o che siamo oggi. Passò quel tempo in cui noi, semplice seme e speranza primordiale del genere umano, abitammo nel grembo materno. Ma la natura adoperò le sue mani sapienti e non volle che i corpi racchiusi nel seno teso della madre soffocassero e li fece uscire da quella sede all'aria libera. Il piccolo infante appena venuto alla luce giace disteso senza forze; poi a quattro zampe e alla maniera dei quadrupedi trascina le sue membra e a poco a poco, tremolante e non ancora saldo sulle gambe, si raddrizza, aiutando i muscoli con qualche sostegno; in seguito, diviene robusto e veloce e attraversa la stagione della giovinezza e, trascorsi anche gli anni dell'età di mezzo, scivola giù per il cammino inclinato della vecchiaia che si appressa alla fine. Questa abbatte e distrugge le forze dell'età precedente: allora piange Milone invecchiatosi, allorché vede i suoi muscoli flosci e privi di forza, quei muscoli che erano stati simili a quelli di Ercole per possanza e robustezza. Piange anche la Tindaride, quando ha scorto nello specchio le rughe della vecchiaia, e si domanda tra sé come mai sia stata rapita due volte. O tempo divoratore dell'esistente e tu, vecchiaia invidiosa, distruggete tutto e a poco a poco consumate tutto con una morte lenta logorandolo con il dente dell'età. «Anche quelli che noi chiamiamo elementi non sono stabili: vi insegnerò (prestate attenzione) a quali vicende vanno incontro. Il mondo eterno contiene quattro elementi creatori. Due di essi sono pesanti e dal loro peso stesso sono spinti in basso, alludo alla terra e all'acqua; gli altri due sono privi di peso e mancando una forza di gravità tendono verso l'alto: sono l'aria e il fuoco, che è più puro dell'aria. Quantunque questi quattro elementi differiscano per dimensione, tuttavia da essi nasce ogni cosa e in essi ritorna, sicché la terra si decompone e si dirada nella fluida acqua, questo liquido poi evaporando sale in alto nell'aria, ma l'aria, a sua volta, perso ogni peso e divenuta sottilissima, guizza verso il fuoco superno. Poi rifanno il percorso a ritroso, ma ripetono la stessa successione: infatti, il fuoco ispessitosi si muta nell'aria, anch'essa fattasi densa, questa nell'acqua che, coagulandosi, rapprende la terra.
«A nessuna cosa rimane la forma specifica e la natura che tutto rinnova crea
figure diverse dalle precedenti e niente perisce nel vasto universo, credetemi,
ma cambia e rinnovella il suo aspetto: nascita si chiama il cominciare ad essere
qualcosa di diverso da quel che era stato prima e morte il cessare di essere
quella stessa cosa. Pur essendo gli elementi trasferiti forse alcuni qua, altri
là, tuttavia l'insieme, alla fine, perdura immutato. Sarei propenso a credere
che niente dura a lungo con lo stesso aspetto: così voi, età, siete passate
dall'oro al ferro; così il destino dei luoghi si ribaltò tante volte. Io ho
visto diventare mare quel che un tempo era stata terra massiccia, ho visto terre
nate dal mare, tanto che lontano dal mare si trovano conchiglie marine e sulla
sommità di un monte si rinviene una antica àncora; quel che era un campo
pianeggiante è diventato una valle per il fluire delle acque e
una montagna è stata ridotta in pianura dall'impeto delle
acque, e una terra, da paludosa che era, ora è arida per le sue
sabbie asciutte e le zone, che avevano patito la sete, ora sono
allagate da paludi. Qui la natura ha fatto sgorgare nuove fonti, ma là le ha
seccate e ora sprizzano molti fiumi a causa di antichi terremoti, ora ostruiti
cessano di scorrere.
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