Copertina
Autore Amos Oz
Titolo Conoscere una donna
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2000 [1992], UE 1624 , pag. 256, dim. 125x195x15 mm , Isbn 978-88-07-81624-6
OriginaleTo know a woman [1989]
TraduttoreAlessandro Guetta
LettoreRenato di Stefano, 2000
Classe narrativa israeliana
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 5 [ inizio libro ]

Yoel sollevò l'oggetto dallo scaffale, e lo osservò da vicino. Gli dolevano gli occhi. L'agente immobiliare pensò che non avesse sentito la domanda, e quindi la ripeté: "Vogliamo dare un'occhiata sul retro?". Anche se aveva già deciso, Yoel non si affrettò a rispondere. Era abituato a prendere tempo prima di dare una risposta, anche se si trattava di domande semplici del tipo "come stai?" oppure "cosa hanno detto al telegiornale?'. Come se le parole fossero oggetti personali dai quali non era bene separarsi.

L'agente aspettò. E intanto la stanza rimase silenziosa. Una stanza arredata in modo lussuoso: un tappeto blu scuro largo e spesso, poltrone, un divano, un tavolino basso in mogano di stile inglese, un televisore di marca estera, un grande filodendro messo nell'angolo giusto, un caminetto di mattoni rossi con dentro sei piccoli ceppi di legno accatastati, per bellezza e non per fare il fuoco. Accanto all'apertura del passavivande tra la stanza e la cucina, c'erano una tavola da pranzo nera e sei sedie nere dallo schienale alto. Erano stati tolti solo i quadri: sull'intonaco si distinguevano dei rettangoli chiari. La cucina, dietro la porta aperta, era scandinava, ed era piena di elettrodomestici moderni. Anche le quattro camere da letto che aveva visto prima gli andavano bene.

Yoel ispezionò con gli occhi e con le dita la cosa che aveva preso dallo scaffale. Era un soprammobile, una piccola statua fatta da un dilettante: una belva, un felino intagliato in legno d'olivo scuro e ricoperto da diversi strati di vernice. Aveva le mascelle spalancate e i denti scoperti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 40

Non gli era mai successo di immergersi in luoghi misteriosi, di seguire qualcuno in dedali di viuzze, di lottare con uomini forzuti o di installare dei microfoni segreti. Queste cose erano altri a farle. Lui doveva occuparsi di sviluppare dei contatti, di organizzare e di fissare degli incontri, di far dimenticare le paure e di dissolvere i sospetti nell'interlocutore mantenendosi lui stesso sospettoso, di creare un'atmosfera serena e allegra, come fosse un consigliere matrimoniale ottimista, e intanto penetrare come una lama affilata e con un occhio freddo e tagliente sotto la pelle dell'estraneo: davanti a lui c'era un impostore? Un impostore dilettante? Oppure un truffatore esperto e sottile? O forse soltanto un piccolo folle? Un tedesco roso da un senso di colpa storico? Un idealista che voleva cambiare il mondo? Uno squilibrato malato di ambizione? Una donna in difficoltà che aveva scelto un gesto disperato? Un ebreo della diaspora troppo entusiasta? Un intellettuale francese annoiato alla ricerca di sensazioni? Un'esca inviatagli da un avversario nascosto che osservava e rideva nel buio? Un arabo assetato di vendetta contro un nemico personale, e che per questo veniva da noi? O un inventore frustrato la cui grandezza non era riconosciuta? Queste, e altre simili, erano le categorie primarie, grossolane. Al di là di esse lo attendeva il lavoro di selezione veramente delicato.

Yoel si ostinava sempre, senza eccezioni, a decifrare il suo interlocutore prima di fare il più piccolo passo. Per lui era importante soprattutto sapere chi gli stava davanti, e perché. Qual era la debolezza che lo sconosciuto cercava di dissimulare? A quale genere di ricompensa o di risarcimento aspirava? Quale impressione cercavano di fargli, quell'uomo o quella donna? E perché proprio quell'impressione e non un'altra? Di cosa si vergognava quella persona, e di cosa, precisamente, andava fiera? Con il passare degli anni si era convinto del fatto che la vergogna e l'orgoglio fossero quasi sempre più forti di altri sentimenti più celebrati di cui parlavano tanto i romanzi. Le persone vogliono conquistare o affascinare per colmare un vuoto in se stesse. A questo vuoto così diffuso Yoel aveva dato un nome, dentro di sé: lo aveva chiamato amore, ma non lo aveva mai detto a nessuno salvo, una volta, a Ivria. Che aveva risposto senza sorpresa: "Ma è un cliché conosciuto". Yoel si era detto subito d'accordo. E forse per questo aveva rinunciato all'idea del libro. La saggezza che aveva accumulato durante gli anni di lavoro gli sembrava arida: gli uomini vogliono così. Vogliono quello che non hanno e che non potranno avere. E quello che possiedono, lo disprezzano.

E io, si sorprese a chiedersi una volta durante un viaggio notturno in un vagone semivuoto da Francofoite a Monaco, io che cosa voglio? Che cosa mi fa correre da un albergo all'altro, attraversando questi campi bui? È il dovere, si rispose in ebraico e quasi a voce alta. Ma perché io? E se all'improvviso cadessi e morissi in questo vagone vuoto, ne saprei un po' di più oppure, al contrario, tutto si spegnerebbe? È un fatto che mi trovo qui da più di quarant'anni e non ho neppure incominciato a capire come funziona. E se c'è qualcosa che funziona. Forse sì. Alle volte si scorgono qua e là dei segni di ordine. Il problema è che io non riesco ad afferrarli, e a quanto pare non ci riuscirò più. Come stanotte nell'albergo di Francoforte, quando dai petali geometrici stampati apparentemente senza un ordine preciso sulla carta da parati davanti al letto sembrava emergere qua e là una forma o una figura, ma erano bastati un leggero movimento della testa, un batter d'occhi, la distrazione di un attimo, perché quell'accenno di ordine sparisse, e c'era voluto un grande sforzo per scoprire di nuovo sulla carta delle isole di ordine, ma non identiche alle figure che erano apparse la prima volta. Forse c'è qualcosa, ma tu non sei stato destinato a decifrarla, o forse tutto è illusione. Ma non saprai nemmeno questo perché ti bruciano gli occhi e se fai il massimo sforzo per guardare dal finestrino del vagone tutt'al più potrai indovinare che stiamo attraversando un qualche bosco, ma quello che riuscirai a vedere è quasi soltanto il riflesso di una faccia conosciuta che sembra pallida e stanca, e anche piuttosto stupida. Bisogna chiudere gli occhi e rubare qualche minuto di sonno, e quello che sarà, sarà.

Tutti i suoi interlocutori gli mentivano. Eccetto il caso di Bangkok. Yoel era affascinato dalla qualità della menzogna: in che modo ciascuno costruisce le proprie menzogne? Con la forza e il volo dell'immaginazione? Senza attenzione, distrattamente? Secondo una logica e un metodo calcolati oppure, al contrario, in un modo casuale e volutamente non preordinato? I modi di costruire la menzogna erano per lui delle aperture incustodite attraverso le quali poter osservare, alle volte, all'interno del mentitore.

In ufficio aveva il soprannome di "macchina ambulante della verità". I colleghi lo chiamavano Laser. Ogni tanto provavano apposta a mentirgli su argomenti secondari, come la busta paga o la nuova centralinista. E ogni volta si sorprendevano a osservare il suo meccanismo interno in azione, che lo faceva tacere quando sentiva una bugia, poi abbassare la testa sul petto, come per un lutto, e infine osservare con tristezza: "Ma Rami, non è vero". Oppure: "Lascia perdere, Cockney, è peccato". Loro volevano scherzare, ma lui non era mai riuscito a vedere nella menzogna nessun lato spiritoso. Neppure nelle burle innocenti. Né nelle ragazzate abituali che organizzavano in ufficio per il primo aprile. Le menzogne gli apparivano come dei virus di una malattia incurabile che bisognava manipolare con grande attenzione e serietà anche tra le pareti di un laboratorio protetto. Da toccarsi con i guanti.

Lui stesso mentiva quando non aveva scelta. Ma solo quando vedeva nella menzogna l'unica e l'estrema via d'uscita, oppure la salvezza da un pericolo. In casi del genere sceglieva sempre la menzogna più semplice, senza nessun ornamento, a due passi, per così dire, dai fatti.

Una volta era andato a Budapest a sistemare un affare, viaggiando con un passaporto canadese. All'aeroporto, una donna in uniforme addetta al controllo dei passaporti gli aveva chiesto lo scopo del suo viaggio, e lui aveva risposto in francese, con un sorriso malandrino: "Spionaggio, madame". Lei era scoppiata a ridere e gli aveva apposto il timbro di ingresso sul visto.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 90

Le sei e un quarto del mattino. Una luce grigio-azzurra e un'alba lampeggiante tra le nuvole a oriente. Un leggero vento mattutino porta l'odore lontano di erbacce bruciate. E ci sono due peri e due meli le cui foglie hanno cominciato a ingiallire per la fatica di fine estate. Yoel è in piedi dietro la casa, in canottiera e in pantaloncini corti da sport, scalzo, in mano ha il giornale ancora piegato dentro la fascetta. Anche stavolta non è riuscito a bloccare l'uomo che distribuisce i giornali. Il collo piegato all'indietro, il viso rivolto al cielo: vede stormi d'uccelli migratori in formazione di freccia che vanno verso sud. Sono cicogne? Gru? Passano ora sui tetti rossi delle villette, sopra giardini orti e prati, sono infine riassorbiti nelle piumose nuvole che brillano a sud-est. Dopo i frutteti e i campi verranno pendii rocciosi e villaggi di pietra, wadi e crepacci, ed è già il silenzio desertico e oscuro dei monti dell'Oriente avvolti in un cupo vapore, e al di là è ancora il deserto, le piatte sabbie mobili e poi gli ultimi monti. In effetti, la sua intenzione era di andare nel ripostiglio per dare da mangiare alla gatta e ai cuccioli, trovare una chiave inglese per riparare o sostituire il rubinetto che gocciola accanto alla tettoia dell'auto. Ma aspettò un attimo che l'uomo dei giornali arrivasse in fondo alla stradina e tornasse indietro, per poterlo prendere. Ma come fanno a trovare la strada? E come sanno che è tempo di partire? Supponiamo che in un punto sperso in una foresta africana sempreverde ci sia una specie di centro, una specie di torre di controllo invisibile, da cui esce giorno e notte un segnale sottile e continuo, troppo alto perché l'orecchio umano possa coglierlo, troppo acuto per i sensori più sofisticati. Il suono si proietta come un raggio trasparente dall'equatore al nord estremo, e gli uccelli lo seguono in massa per raggiungere la luce e il caldo. Yoel, come avesse avuto una piccola illuminazione, solo nel giardino i cui rami cominciavano a indorarsi al contatto con l'alba, credette per un attimo di capire, o non di capire, di sentire, tra i due ultimi anelli della sua colonna vertebrale, il suono direzionale africano degli uccelli. Se avesse avuto le ali, sarebbe partito. L'impressione che un dito caldo, femminile, lo toccasse o lo sfiorasse un po' sopra al coccige, gli procurava quasi del godimento. In quell'istante, per il tempo di uno o due respiri, gli sembrò che l'altemativa tra il vivere e il morire non avesse nessun significato. Lo avvolse un grande silenzio e lo riempì, come se la sua pelle non separasse più il silenzio interno dal silenzio universale, e diventassero un silenzio solo. Aveva lavorato per ventitré anni, aveva perfezionato al massimo grado l'arte della conversazione supefficiale con gli estranei, sulla quotazione delle valute per esempio, o sui vantaggi che offre la Swiss-air, o sul confronto tra la donna francese e la donna italiana, e nel frattempo studiava il proprio interlocutore. Indicava a se stesso da dove sarebbe penetrato nella cassaforte in cui erano custoditi i loro segreti. Come se cominciasse a riempire un cruciverba dalle definizioni più semplici, che gli avrebbero fornito qua e là dei punti di appiglio per quelle più difficili. Adesso in lui, alle sei e mezzo del mattino, nel giardino di casa sua, vedovo e quasi completamente libero da impegni, si ridestò il dubbio che niente gli fosse chiaro. Che le cose evidenti, ordinarie, semplici, il freddo del mattino, l'odore di erbacce bruciate, un uccellino tra i rami del melo che stanno ingiallendo al contatto dell'autunno, i brividi delle sue spalle nude, l'odore della terra annaffiata e il sapore della luce, la malattia dell'erba, la debolezza degli occhi, il piacere dietro la schiena che era già passato, la vergogna in soffitta, i gattini con la madre nel ripostiglio, la chitarra che di notte suonava come un violoncello, un nuovo mucchio di pietre levigate, accatastate oltre la siepe sul terrazzo dei Vermont fratello e sorella, il vaporizzatone giallo che aveva preso in prestito e che era ormai tempo di restituire a Krantz, la biancheria stesa di sua madre e di sua figlia che si piegava al vento mattutino sulla corda in fondo al giardino, il cielo che si era già vuotato di stormi d'uccelli migratori, tutto era misterioso.

E tutto ciò che sei riuscito a decifrare, dura un attimo solo. Come se penetrassi tra la vegetazione folta dei Tropici che si richiude dopo il tuo passaggio e non rimane traccia. Il tempo di definire qualcosa con le parole, e se n'è già andata, è strisciata via verso i confusi silenzi e le ombre. Yoel si ricordò di quello che gli aveva detto una volta sul pianerottolo il vicino Itamar Vitkin, che la parola shebeshiflenu nel salmo 136 poteva essere tranquillamente polacca, e che la parola namogu nel secondo libro di Giosuè aveva un suono tipicamente russo. Yoel confrontò mentalmente la voce del vicino quando pronunciava la parola namogu con accento russo e shebeshiflenu in un polacco immaginario. Aveva cercato di divertire? Forse aveva voluto dire qualcosa, qualcosa che esisteva solo nello spazio tra le due parole di cui si era servito? E che io non ho colto perché non ero attento? Yoel stette un po' a meditare sulla parola ebraica muvaq, indubitabile, che si sorprese a ripetersi a bassa voce, più volte.

E intanto si era lasciato scappare ancora una volta l'uomo dei giornali, che evidentemente aveva girato all'estremità della stradina e tornando indietro era passato davanti a casa. Con sorpresa di Yoel e contrariamente a quanto aveva immaginato, il ragazzo, o l'uomo, non andava in bicicletta ma su un motofurgone scassato dal cui finestrino gettava i giornali sui viottoli dei giardini. Forse non aveva affatto visto il biglietto che Yoel aveva messo sulla cassetta delle lettere, e ormai era troppo tardi per corrergli dietro. Si risvegliò in lui una leggera irritazione, in conseguenza della riflessione che tutto è misterioso. E poi, misterioso non è la parola giusta. Non misterioso come un libro chiuso ma come un libro aperto nel quale si potevano leggere liberamente cose chiare e ordinarie, evidenti: mattino, giardino, uccello, giornale, ma dove era anche possibile leggere in altri modi; unire tra loro, per esempio, ogni settima parola, ma letta al contrario. Oppure ogni quarta parola di una frase su due. Oppure usare altre regole di sostituzione. Oppure segnare con un cerchietto ogni lettera che segue una "G". Le possibilità erano infinite, e forse ognuna di esse sta a indicare una soluzione diversa. Un senso alternativo. Non necessariamente un senso profondo, o affascinante, o oscuro, bensì del tutto diverso. Senza rassomiglianza con il senso scoperto. E forse senza alcuna rassomiglianza? Yoel si risenti anche per la leggera irritazione che gli avevano provocato queste riflessioni, perché voleva sempre avere un'immagine di sé come di una persona tranquilla e controllata. Come potrai conoscere la combinazione giusta? La chiave dell'ordine intimo? E ancora: come fai a dire che c'è una combinazione universale e non piuttosto personale come quella di una carta di credito o unica come un'estrazione della lotteria? E come puoi dire che la combinazione non cambia, per esempio, ogni sette anni? Ogni mattino? Ogni morte di qualcuno? E soprattutto quando gli occhi sono stanchi e lacrimano quasi per il troppo sforzo, soprattutto quando il cielo è rimasto vuoto: le cicogne sono andate. A meno che non fossero gru.

E cosa c'è di grave se non nesci a decifrare. In fondo hai avuto una grazia particolare: ti è stata data la possibilità di sentire come in un batter d'occhi, negli attimi che precedono l'alba, che esiste una combinazione. Attraverso uno sfioramento della tua colonna vertebrale. E adesso sai due cose che non sapevi quando ti sforzavi di leggere l'abbozzo delle forme sfuggenti, sulla carta da parati nella camera d'albergo di Francoforte: che esiste un ordine, e che non riuscirai a decifrarlo. E che cosa cambierebbe se non ci fosse una sola combinazione, ma tante? Se ognuno avesse la sua? Tu, che avevi stupito tutto l'ufficio quando eri riuscito a capire che cosa aveva spinto il milionario colombiano cieco, magnate del caffè, a cercare spontaneamente i servizi segreti ebraici e a offrire una lista aggiornata di indirizzi dei nazisti in clandestinità, da Acapulco a Valparaíso, come puoi avere delle difficoltà a distinguere tra una chitarra e un violoncello? Tra un cortocircuito e un'interruzione di corrente? Tra la malattia e la nostalgia? Tra un ghepardo e un crocifisso bizantino? Tra Bangkok e Manila? Ma dove diavolo ho messo questa dannata chiave inglese? Andiamo prima a cambiare il rubinetto e poi apriremo gli annaffiatoi automatici. Tra un po' sarà l'ora del caffè. Ecco. Dai. Avanti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 132

Ogni tanto in quelle notti d'autunno gli accadeva che il freddo odore di mare che filtrava attraverso le finestre chiuse, il tambureggiare della pioggia sul tetto del ripostiglio nel giardino dietro casa, il bisbigliare del vento nel buio, gli suscitassero all'improvviso una gioia forte e tranquilla che non credeva di essere più capace di provare. E si vergognava quasi di questa strana gioia, gli sembrava quasi brutto che il fatto di essere vivo fosse un successo, mentre la morte di Ivria indicava il suo fallimento. Sapeva bene che le azioni che le persone compiono, tutte le azioni di tutte le persone, che fossero motivate dall'ambizione o dal desiderio, che si trattasse di azioni dovute all'inganno o alla ricerca di attenzione, all'avidità, alla defezione dalle responsabilità, le azioni colpevoli e quelle destinate a fallire, la competizione, l'adulazione e la generosità, le azioni destinate a impressionare, a destare attenzione, a incidersi nel ricordo della famiglia o del gruppo o della nazione o dell'umanità, le piccole e le grandi, quelle meditate e quelle istintive e malvagie, quasi tutte conducono quasi sempre a un punto al quale non pensavi affatto. Questa deviazione generale e perenne, che distorce i comportamenti delle persone, Yoel cercava di definirla dentro di sé come "lo scherzo planetario" o come "lo humour nero dell'universo". Ma non gli piacque: gli sembrò una definizione troppo letteraria. Le parole universo, vita, mondo, erano troppo grandi per lui, e un po' ridicole. Perciò si accontentò di accogliere nei suoi pensieri quello che gli aveva raccontato Arik Krantz sul comandante di reggimento senza un orecchio, si chiamava Jimmy, ne hai sicuramente sentito parlare, diceva sempre che tra due punti passa una sola linea retta, e quella linea è sempre piena di asini.

E quando gli veniva in mente il comandante senza un orecchio pensava sempre più spesso all'ordine ricevuto da Neta di presentarsi all'ufficio di reclutamento di li a qualche settimana. In estate avrebbe terminato i suoi studi e i suoi esami. Che cosa sarebbe risultato alle visite di leva? Sperava che Neta fosse accettata? Oppure lo temeva? Che cosa gli avrebbe chiesto di fare Ivria al momento della chiamata? Di tanto in tanto si immaginava il kibbutznik robusto con le grosse braccia e il petto villoso, e si diceva in inglese e quasi ad alta voce: "Take it easy, my dear".

Avigail diceva: "Se volete sapere quello che ne penso, secondo me questa ragazza è più sana di tutti noi".

Lisa diceva: 'Tutti i medici, se sono sani, non possono sapere nulla dalla propria esperienza. Una persona che vive delle malattie degli altri, cosa diventerebbe se d'un tratto diventassero tutti sani?".

Neta diceva: "Non ho intenzione di chiedere il rinvio".

E Arik Krantz: "Ascoltami bene, Yoel. Basta che tu mi dia il via, e io ti sistemo tutto in un batter d'occhio".

Mentre là fuori, tra una pioggia e l'altra, apparivano ogni tanto alla finestra degli uccellini bagnati e intirizziti che stavano immobili sull'estremità di un ramo bagnato, come se fossero una specie di straordinario frutto invernale nato, malgrado il letargo e la caduta delle foglie, sugli alberi grigi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 177

Rimase davanti al volante quasi fino alle due del mattino, con le porte dell'auto chiuse dall'interno, i finestrini tirati su, le luci spente, le ruote anteriori che quasi si affacciavano verso lo strapiombo. I suoi occhi abituati all'oscurità erano affascinati dal respiro della superficie del mare che si increspava e si distendeva senza posa, come il respiro di un gigante, largo ma inquieto. Come se il gigante fremesse in un sonno attraversato da incubi. In alcuni momenti sentiva un suono che gli ricordava uno sbuffare adirato. Altre volte un affanno febbrile. E il rumore della risacca continuava a salire nel buio, le onde mordevano la riva e se ne tornavano nelle profondità con il loro bottino. Qui e là brillavano vapori di schiuma sul manto scuro. In alto, tra le stelle, passava ogni tanto un fascio latteo e pallido, forse il tremolio del fanale lontano della guardia costiera. Con il passare delle ore Yoel distingueva a fatica tra il rumore maestoso delle onde e il lieve battito del sangue nella sua testa. Com'è sottile la membrana che separa tra dentro e fuori. Nei momenti di tensione profonda era attraversato dalla sensazione di avere il mare nel cervello. Come quel giorno di diluvio ad Atene, quando dovette estrarre la pistola per far paura a quell'imbecille che aveva voluto mostrargli un coltello in un angolo del terminal. O come a Copenaghen, quando era finalmente riuscito a fotografare con un piccolo apparecchio nascosto in un pacchetto di sigarette un famoso terrorista irlandese, accanto al banco di una farmacia. E quella notte nella sua camera alla pensione Viking sentì nel sonno degli spari vicini e si stese sotto il letto, e anche se ormai era tornato il silenzio aveva preferito non uscire finché non era apparsa la prima luce tra le fessure della persiana, e solo allora era uscito sul balcone e lo aveva esaminato centimetro per centimetro, e alla fine aveva scoperto due piccoli fori nell'intonaco, forse di proiettili, su cui avrebbe dovuto fare un'analisi e cercare una risposta, ma poiché quello che aveva da fare a Copenaghen era concluso aveva rinunciato alla risposta, aveva preparato in fretta la valigia, e se ne era andato rapidamente dall'albergo e dalla città. Prima di uscire, per un impulso che ancora adesso non gli era chiaro, aveva richiuso con cura i due fori nel muro all'esterno della sua camera con il dentifricio, senza sapere se si trattasse di fori di proiettile o se avessero qualche legame con gli spari che credeva di aver sentito di notte, se poi erano stati degli spari, e se avevano un qualche legame con lui. Dopo che li aveva chiusi non si vedeva quasi più nulla. Che cosa mi ha fatto correre per ventitré anni da una piazza all'altra, di albergo in albergo, di terminal in terminal, nell'urlo di treni notturni che passano per boschi e gallerie, che tagliano i campi oscuri con i fari gialli del locomotore? Perché ho corso? E perché ho chiuso quei piccoli fori nel muro e non ne ho mai fatto cenno, neppure con una parola? Una volta, entrando in bagno alle cinque del mattino, mentre mi stavo rasando, mi aveva chiesto: dove corri, Yoel? Perché le avevo risposto in quattro parole: è il lavoro, Ivria, e avevo aggiunto subito dopo che ancora una volta mancava l'acqua calda? E lei, nei suoi abiti bianchi ma ancora scalza, con i suoi capelli chiari raccolti che le cadevano sulla spalla destra, aveva mosso la testa, pensierosa, quattro o cinque volte dall'alto in basso, mi aveva detto poveretto ed era uscita.

Se un uomo in mezzo a un bosco vuole distinguere una volta per tutte che cosa esiste, che cosa forse è esistito e che cosa è soltanto un'allucinazione, deve soltanto rimanere fermo e ascoltare. Per esempio, che cosa fa sì che dalla chitarra di un morto vengano dei suoni gravi di violoncello, di là dal muro? Qual è il confine tra la nostalgia e la malattia lunare-astrale? Perché dentro di sé si era bloccato quando aveva sentito il Capo pronunciare la parola Bangkok? Che cosa intendeva Ivria quando diceva, più volte, sempre al buio, sempre con la sua voce tranquilla e concentrata: io ti capisco? Che cosa era successo veramente tanti anni prima accanto ai rubinetti a Metulla? E qual è il senso della sua morte tra le braccia del vicino in cortile, in un piccolo rigagnolo? Esiste o no un problema di Neta? E se c'è, chi di noi due glielo ha trasmesso? E come e quando è cominciato veramente il mio tradimento, se questa parola significa qualcosa in questo caso particolare? Tutto ciò non ha una spiegazione, a meno che non accettiamo l'ipotesi che è sempre all'opera un male preciso e profondo, un male impersonale senza causa né scopo, eccetto un freddo desiderio di morte, che continua a smontare ogni cosa con le sue dita da orologiaio, e ha già ucciso e ridotto al nulla uno di noi, e non si può sapere chi sarà la sua prossima vittima. C'è un modo per difendersi, lasciando da parte le possibilità di pietà e compassione? O forse non di difendersi, ma di mettersi in salvo? Ma anche se si verificherà il miracolo, e la belva sofferente riuscirà a liberarsi dai chiodi invisibili, rimane ancora la domanda come e dove può saltare un animale senza occhi. Sopra la linea dell'acqua volava un piccolo aereo da ricognizione, con un rumoroso motore a pistone, passava lentamente piuttosto basso, tossendo, da sud a nord, e alle estremità delle sue ali lampeggiano luci rosse e verdi. È passato, solo il silenzio del mare soffia ai finestrini dell'auto. Che si sono appannati, dall'esterno o dall'interno. Non si vede nulla. Il freddo aumenta.

| << |  <  |