Copertina
Autore Arto Paasilinna
Titolo Prigionieri del paradiso
EdizioneIperborea, Milano, 2009, n. 177 , pag. 200, cop.fle., dim. 10x20x1,5 cm , Isbn 978-88-7091-177-0
OriginaleParatiisisaaren vangit
EdizioneWerner Söderström Corporation, Helsinki, 1974
TraduttoreMarcello Ganassini
LettoreAngela Razzini, 2010
Classe narrativa finlandese
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L'aereo fluttuava nell'oscurità. Sorvolavamo il Pacifico al largo della Melanesia, avevamo appena passato il trentesimo parallelo e il Tropico del Cancro.

Stavamo attraversando la fascia calda del mondo, pensai che da quelle parti la temperatura non scende al di sotto dei diciotto gradi nemmeno nel periodo più freddo. Volavamo da più di tre ore, eravamo partiti dall'aeroporto internazionale di Tokyo.

Sono un giornalista. Il classico tipo finlandese: educazione mediocre, ambizioni limitate, una giacca lisa e un carattere grigio. Ho superato la trentina. Sono un individuo di una banalità disarmante e la cosa spesso mi irrita.

Ho scritto una gran quantità di articoli per i giornali più diversi, ma nessuno ha conservato il minimo interesse, una volta persa la stretta attualità. Un articolo di cronaca è legato al tempo come una pista da fondo: serve solo d'inverno; in primavera si dissolve e d'estate è bell'e scomparsa, non se ne ha più bisogno e nessuno se la ricorda.

Sorvolavamo l'Oceano Pacifico su un aereo a reazione britannico, un Trident. Era notte e infuriava la tempesta.

Lo steward, un tipico giovanotto inglese dal naso lungo, venne a sedersi nel posto di fianco a me e mi disse in tono conciliante: "Tempo malefico per viaggiare, si balla come dannati!"

Dovetti ammettere che aveva ragione. I passeggeri erano sballottati senza pietà. Di tanto in tanto un bagliore lontano attraversava il cielo. Lampi di calore o normali fulmini?

Ero pentito di aver prenotato il mio viaggio in Australia proprio su quel volo. Mi venne in mente che due anni prima un aereo come quello si era schiantato vicino a Parigi e le indagini avevano rivelato che la causa dell'incidente era un difetto di progettazione. Stando alle spiegazioni fornite dalla compagnia, gli stabilizzatori del Trident avevano provocato una sorta di stallo dell'apparecchio.

Una simile tara ereditaria sembrava aver colpito il nostro aereo.

Lo steward sapeva che ero un giornalista. Mi chiese se lavoravo per le Nazioni Unite. Risposi di no, neanche lui, disse. Avevano solo affittato l'aereo, spiegò. Mentre tutti gli altri passeggeri che dondolavano la testa sui loro sedili nel vano tentativo di dormire, infermieri, ostetriche, medici, forestali, erano sul libro paga dell'ONU.

Gli chiesi un succo di frutta. Si alzò per soddisfare la mia richiesta. All'ultimo momento cambiai idea e domandai se potevo avere un whisky. Spiegai che in simili condizioni era forse più confortante.

Lo steward sorrise e andò a prendermelo. Dall'altra parte del corridoio sedevano due donne che avevano tutta l'aria di essere ostetriche. Vedendomi con il whisky in mano mi lanciarono un'occhiata di disapprovazione.

Il giovanotto tornò a sedersi al mio fianco e chiacchierammo del più e del meno per una mezz'oretta. La tempesta sembrava raddoppiare d'intensità e quando gli chiesi un altro bicchiere ebbe difficoltà a portarmelo. Lui non beveva. Dalla fila prima di me si sentiva arrivare un leggero stridio. Sbirciai nella fessura tra i due sedili e vidi una ragazza bionda che si stava limando le unghie. Mi rivolse uno sguardo amichevole, ma non scambiammo parola.

Lo steward si aggrappava allo schienale davanti. L'aereo ballava a più non posso e io facevo una fatica tremenda a non rovesciare il bicchiere.

Lo steward si girò verso di me e disse a bassa voce, per non farsi sentire dagli altri passeggeri, che non aveva la più pallida idea di dove ci trovassimo. Quando chiesi stupefatto come fosse possibile, rispose a voce ancora più bassa che secondo lui neanche il comandante aveva un'idea più precisa sull'argomento.

Non avrebbe dovuto dirmelo, aggiunse, ma tanto ormai non faceva molta differenza: il nostro aereo si era perso. Suggerii che forse era il caso di avvertire gli altri passeggeri. Mi chiese se ne ero proprio convinto, perché l'aveva pensato anche lui. Si alzò e si allontanò con passo vacillante verso la cabina di pilotaggio.

Poco dopo dagli altoparlanti la voce del comandante annunciò che stavamo volando a una quota di diecimila metri in direzione sud-est. Quanto alla posizione dell'aereo, che avrebbe dovuto essere nota con precisione, di fatto non lo era. Altitudine e direzione erano le uniche informazioni disponibili.

Il comandante si presentò come Taylor e proseguì l'annuncio sciorinando una serie di raffinate spiegazioni, secondo le quali non ci eravamo proprio persi, ma era semplicemente difficile determinare la nostra posizione esatta per via delle particolari condizioni atmosferiche, e che non c'era motivo di preoccuparsi.

Pregò i passeggeri di allacciare le cinture e chiese ai fumatori di spegnere le sigarette. Le hostess portarono dei cuscini da mettere sulle ginocchia e spiegarono il funzionamento delle maschere a ossigeno. Fu indicata la collocazione delle uscite di sicurezza e dei giubbotti di salvataggio. Tastai sotto il sedile alla ricerca del mio e pensai a quanto sarebbe stato sgradevole doverlo davvero indossare.

Ricordai allo steward che avevamo già visto quelle dimostrazioni qualche ora prima, al decollo a Tokyo.

"Questo non vuol dire necessariamente che siamo in pericolo", mi fece notare lui con scarsissima convinzione. Dal tono della voce capii che la situazione cominciava a essere realmente allarmante.

Mi domandai se avrei mai messo piede in Australia: erano due anni che progettavo quel viaggio.

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A questo punto il lettore sarà forse desideroso di sapere chi erano i membri del nostro gruppo e cosa facessero prima del naufragio.

Come mi aveva informato lo steward prima dell'ammaraggio, l'aereo era stato affittato dall'ONU per trasportare merci e passeggeri. La FAO e l'OMS avevano ingaggiato degli scandinavi — i forestali e il personale medico già menzionati — per delle missioni di sostegno allo sviluppo. I tagliaboschi avevano il compito di contribuire alla nascita di un'industria del legno nelle regioni interne dell'India; dovevano formare una classe di insegnanti in grado di fornire un supporto didattico alle attività di disboscamento. La durata dell'incarico era di un anno.

Anche il personale medico era diretto in India e nel vicino Bangladesh. Il progetto prevedeva che le infermiere svedesi si disperdessero ai quattro angoli del subcontinente per garantire ovunque attività di istruzione e prevenzione, mentre le ostetriche finlandesi andassero in Bangladesh a insegnare i metodi di controllo delle nascite. Per questo nella stiva dell'aereo c'era qualche milione di spirali intrauterine in rame prodotte dalla Outokumpu e altrettante pillole anticoncezionali, riservate alle donne che avessero accettato di prenderle e fossero in grado di contare fino a trenta. I medici – Vanninen e i due norvegesi – erano affiancati alla missione, con il compito di coadiuvare l'attività delle infermiere. Uno dei norvegesi era destinato al Bangladesh con Vanninen, mentre l'altro si sarebbe stabilito dalle parti di Calcutta. Per il personale medico la durata dell'incarico era di due anni. L'incidente aereo era dunque un'autentica sciagura, visto che si sarebbe tradotto in migliaia, se non milioni di gravidanze indesiderate. Per non parlare dell'industria indiana del legno: le conseguenze sulla competitività del Paese sul mercato internazionale erano incalcolabili.

L'aereo avrebbe dovuto fare scalo in Australia, caricare altro materiale e dirigersi a Nuova Delhi sorvolando l'Oceano Indiano. Io dovevo fermarmi nel paese dei canguri per realizzare un servizio sui più grandi bevitori di birra del mondo, nonché sul resto della società civile.

L'equipaggio britannico era al servizio della compagnia aerea e, secondo Taylor, almeno per quel che lo riguardava, la sciagura non apportò che cambiamenti relativi rispetto ai suoi progetti: aveva infatti programmato di prendersi un mese di vacanza, non appena rientrato a Londra, da trascorrere con la famiglia in qualche piacevole località esotica. Ammetteva che la famiglia era rimasta esclusa dal pacchetto, quanto – cosa ben peggiore – pasti regolari, un normale comfort, drink alcolici, per non parlare dei buoni sigari che aveva l'abitudine di fumare solo in vacanza, perché fumare il sigaro tagliava il fiato e poteva non essere opportuno per un rinomato comandante di Trident.

Nel pomeriggio, dopo quel pasto turbolento, l'ostetrica venne da me con l'aria profondamente inquieta. Quando mi informai cosa la turbasse, mi spiegò che le infermiere svedesi volevano celebrare i funerali con rito luterano. Due persone avevano perso la vita nel naufragio e i loro corpi erano stati seppelliti nella sabbia il giorno dopo la sciagura. Le svedesi sostenevano che i defunti dovessero ricevere degne esequie; le salme erano state deposte nella fossa scavata in tutta fretta senza nessun rispetto dei sacri crismi.

Chiamai Vanninen e gli sottoposi il problema, precisando che riesumare i cadaveri e organizzare un funerale mi sembrava di non facile attuazione e anche un po' grottesco. La cerimonia non avrebbe fornito un bello spettacolo.

Vanninen andò a parlamentare con le svedesi, che avevano nel frattempo eletto come portavoce la signora Sigurd, una donna sulla cinquantina che parlava svedese stretto con voce stridula. Era la stessa che aveva proposto di proibire l'uso del finlandese come lingua di servizio, compreso tra i finlandesi.

Vanninen tentò di spiegare che i corpi erano probabilmente già in stato di decomposizione e che la riesumazione rischiava di essere leggermente macabra. Le svedesi erano del parere opposto, sostenendo che un cadavere non si decompone in pochi giorni e che sarebbe stato molto peggio lasciare i morti in quello stato, piuttosto che seppellirli degnamente, anche se un tantino deteriorati. Vanninen dichiarò che normalmente quel genere di decisione spettava ai familiari o al parroco e che, al momento, non era possibile consultare né gli uni né l'altro. Le donne risposero che, visto che le circostanze impedivano di avvisare la famiglia, era loro dovere farne le veci.

Fu allora che intervenne il finlandese Lakkonen che aveva lavorato molti anni nel Nord della Svezia come taglialegna e trasportatore di tronchi:

"Senti un po', cara la mia signora. La cosa importante adesso è trovare cosa mettere sotto i denti e come andarcene da questa dannatissima isola. E non gingillarci coi morti. Se vi diverte tanto ritirare fuori la donna finita in pasto ai pescecani, fatelo pure, ma non toccate Mikkola."

La signora Sigurd si inalberò. Disse che Lakkonen mancava di rispetto ai defunti e che la maggiore forza fisica non gli dava il diritto di negare al compianto Mikkola la benedizione luterana della salma.

Lakkonen s'infuriò a sua volta e rispose che al momento della partenza dal Giappone, Mikkola era ancora un comunista convinto, non apparteneva a nessuna confessione, come del resto lui stesso, e il suo corpo stava bene li dove lui e i ragazzi l'avevano sistemato, punto e basta.

"Megera isterica", conduse, "bisognerebbe buttarti a mare così magari ti si spengono i bollenti spiriti."

Riuscimmo a trattenere Lakkonen, promettendogli che il cadavere del ragliaboschi finlandese non si sarebbe mosso dal suo posto.

Rimase la questione del corpo dell'infermiera svedese. Più decisa che mai, la signora Sigurd pretendeva che la sua collega venisse seppellita un'altra volta.

"Ammettiamolo pure", concedetti, "ma dove lo troviamo un pastore per la cerimonia? Non è contro le norme ecclesiastiche celebrare una funzione funebre senza l'autorità pastorale conferita dall'ordinazione?"

La signora Sigurd respinse ogni argomento di diritto canonico, dichiarando freddamente che lei e le sue colleghe erano certo in grado di cantare un paio di salmi in svedese e che, date le circostanze, poteva benissimo bastare.

Vanninen e l'ostetrica bruna avevano tutta l'aria di non poterne più di quella discussione assurda e per mettere fine alla questione proposero un compromesso:

"Facciamo così: voi svedesi vi occupate della riesumazione della vostra compatriota, ma dovrete riseppellirla questa notte stessa. Il luogo della nuova sepoltura dovrà essere a sufficiente distanza nella giungla e la fossa dovrà essere abbastanza profonda, visto che abbiamo motivo di temere che un cadavere in quello stato possa diffondere qualche malattia pericolosa. Inoltre non vi sarà consentita la costruzione di nessun tipo di bara e neanche l'uso improprio del giubbotto come sudario."

Pur trovando molto da ridire, la signora Sigurd finì per accettare la proposta e si mise subito a organizzare una squadra per lo scavo della tomba.

L'unica cosa che mancava era il badile.

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Dopo l'abbattimento della tartaruga, la situazione alimentare del campo era decisamente migliorata e così restò per lungo tempo. Taylor pescava, gli altri raccoglievano radici, avevamo frutta a volontà, come anche gamberi e altri crostacei. Qualche volta la squadra guidata dai forestali finlandesi riusciva a catturare un cinghiale. Finimmo senza più preoccupazione i pasti dell'aereo prima che andassero a male. Solo il sale continuava a mancarci.

C'erano giorni nei quali avevamo addirittura più cibo di quanto ne potessimo consumare, ma con il caldo i resti diventavano rapidamente immangiabili.

Tentammo di scavare sulla spiaggia una specie di cantina, ma continuava a riempirsi d'acqua, e conservare le provviste era impossibile. La sabbia era calda, come tutto il resto della crosta terrestre da quelle parti.

Un giorno lo steward dichiarò che in gioventù era stato negli scout e che la sua esperienza poteva forse tornare utile.

"Cosa c'entrano gli scout?" chiese Lämsä scettico.

Lo steward spiegò che se avessimo cucito insieme la stoffa dei giubbotti di salvataggio in modo da ottenere un telo unico delle dimensioni di un lenzuolo, lui poteva costruire un frigorifero da campo.

Sembrava una cosa assurda, ma l'idea del frigorifero era affascinante e chiedemmo allo steward di darci maggiori dettagli.

"Il sistema è molto semplice e si basa su un principio della fisica. Il tessuto arancione dei salvagente assorbe fortemente la luce solare. Inoltre è permeabile all'aria, ma non lascia passare l'acqua. Basta stendere il tessuto in un luogo umido dove batte il sole. Ogni tanto si spruzza un po' d'acqua. Quando il tessuto si scalda l'acqua evapora, creando sotto il telo una depressione, in modo che l'acqua che si è condensata all'interno tende a sfuggire attraverso il tessuto. Si crea così una reazione per cui più il sole splende, più l'aria all'interno si raffredda. Quando il sistema entra in circolo, l'energia termica consumata per l'evaporazione si dissipa, la temperatura sotto il telo comincia a scendere e, senza infiltrazioni di aria calda dall'esterno, può facilmente raggiungere lo zero."

Olsen chiese se il principio fosse quello delle borracce di cuoio con le quali gli arabi mantengono fresca l'acqua sotto il sole cocente del deserto.

"Il principio è identico", spiegò lo steward entusiasta, "ma nel nostro caso l'effetto refrigerante sarebbe più efficace, perché il tessuto sintetico ha una porosità maggiore di quella del cuoio."

Niente aguzza l'ingegno quanto il bisogno di un frigorifero. Ci mettemmo all'opera. Le donne raccolsero una matassa di filo dai loro vestiti. Con le spirali ricavammo degli aghi, grazie ai quali, seguendo le indicazioni dello steward, cucimmo un grosso telo con le fodere dei giubbotti. Mentre li strappavano, le donne recuperarono accuratamente le fibre di kapok che costituivano l'imbottitura. Le avrebbero in seguito usate per fabbricare assorbenti. Però!

Una volta terminato il telo, aprimmo una piccola radura nella giungla. Lo steward ci costruì dentro un cerchio di pietre di un metro e mezzo di diametro e sessanta centimetri di altezza.

All'interno furono collocati il pesce fresco e la carne. Il tutto fu coperto con il telo arancione ben teso. A questo punto bisognava solo spruzzarci sopra un po' d'acqua. L'operazione era affascinante: lo steward celebrava la funzione con la solennità di un prete che asperge l'acqua santa sulla testa dei peccatori.

Il sole splendeva, il sacerdote sorrideva.

Due ore dopo ci invitò ad ammirare il risultato.

Alzarono un angolo del telo, qualcuno infilò sotto la mano e constatò che il sistema funzionava. L'aria all'interno era fresca!

Tutti volevano toccare con mano. Provammo una gioia irrefrenabile e ci congratulammo con l'inventore, grazie al quale non eravamo più costretti a mangiare roba andata a male.

"Ecco chi ridurrà la frequenza dei clisteri", dichiarò Tarzan-Korhonen alla signora Sigurd.

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Finora ho parlato della nostra vita in mezzo all'oceano senza dir nulla di quella natura che, mese dopo mese, io e i miei compagni sentivamo sempre più vicina.

Credo di aver descritto con sufficienti dettagli quanto il clima tropicale potesse essere inclemente. Devo però specificare che alle volte poteva anche essere meraviglioso: quando ci si è fatta l'abitudine non sembra poi tanto ostile. Non perché la natura abbia riportato una vittoria, ma perché l'uomo ha vinto la sua natura, nel nostro caso la natura collettiva di cinquanta soggetti.

Potevamo dire di esserci abbastanza riusciti. Non ci lamentavamo più delle difficoltà quotidiane della vita ai tropici, perché ci eravamo ormai perfettamente adeguati: affrontare un pericoloso serpente era diventato per noi una bazzecola, sapevamo come non farlo arrabbiare; i gamberi velenosi che popolavano i fiumi non ci facevano più paura, bastava camminarci in mezzo senza posare il piede sulla loro nuca laboriosa; gli insetti che volavano portando in giro malattie di ogni genere erano diventati i nostri compagni di sventura, il nostro sistema immunitario si era abituato alle loro punture; quando facevamo il bagno in mare non avevamo paura degli squali, predatori marini tra i più pericolosi: conoscevamo i loro bisogni vitali, per quanto diversi dai nostri. Normalmente ci evitavano, qualche volta volevano giocare e solo di rado mostravano aggressività; in definitiva tra uomini e animali eravamo tutti sulla stessa barca, in balia di quella natura sorprendente e generosa.

Una sera, dopo una giornata di duro lavoro, io e Maj-Len eravamo seduti sul nostro balcone a contemplare il mare: le onde inarrestabili dell'oceano che venivano a infrangersi una dopo l'altra con fragore sulla nostra spiaggia di sabbia, il tramonto del sole e l'oscurità che a poco a poco invadeva il paesaggio offrivano uno spettacolo che è difficile da dipingere con la macchina da scrivere. I flutti color basalto, ora grigio scuro, ora più chiari, stagliati contro un cielo blu intenso e poi gli scorci smisurati, l'orizzonte: quando lo fissavi a lungo, sembrava più nitido di tutto ciò che stava intorno... e in ogni momento, nello spazio di un minuto, quel paesaggio in perpetuo mutamento passava da un colore all'altro, mentre il sole abbandonava quell'angolo del mondo e continuava la sua discesa verso l'India per poi raggiungere dopo qualche ora la costa orientale dell'Africa.

Nelle sere come quelle io e Maj-Len parlavamo poco e bevevamo ancora meno.

Era così quasi tutti i giorni. Notai che in quei momenti di tranquillità prima del crepuscolo la nostra scimmietta smetteva di giocare e ci raggiungeva sul balcone, faceva qualche acrobazia sul parapetto, poi si sedeva in silenzio sulla mia spalla o in braccio, e si metteva anche lei a contemplare il mare esattamente come noi. Ogni tanto la piccola creatura scrutava la mia faccia, che doveva sembrarle molto interessante alla luce del crepuscolo, e poi riprendeva quel suo atteggiamento quasi umano, a meno che non fossimo noi che in quelle sere di silenzio ci comportavamo secondo il suo istinto: siamo figli della stessa terra, pensavo, e mi pareva quasi che la scimmia annuisse.

Caro lettore, puoi essere certo che ero l'uomo più felice del mondo. Adesso che tutto è passato, anche quella gioia è ormai lontana e credo che non ritroverò mai più una tale serenità.

Penso a quel mare ostile e a quella scimmietta che avevo così crudelmente strappato alla madre e provo una nostalgia infinita.

Non voglio annoiare il lettore avido di avventure, anche perché mi sento incapace di restituire un'immagine sufficientemente fedele di quello di cui ho parlato; mi limito a dire che quell'esperienza provocò in me una profonda trasformazione.

Istintivamente e contro ogni mia razionalità cominciavo a considerare la possibilità di rimanere per sempre su quella costa maledetta eppure così stupenda.

In quei momenti Maj-Len mi stringeva la mano e sospirava in silenzio. Ero certo che nel suo animo affioravano gli stessi pensieri e sentimenti che provavo anch'io, e forse anche la scimmia pensava che eravamo capitati per caso su quella terra e che mai più ce ne saremmo andati.

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