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| << | < | > | >> |Pagina 11Il più formidabile nemico dei finlandesi è la malinconia, l'introversione, una sconfinata apatia. Un senso di gravezza aleggia su questo popolo sfortunato, tenendolo da migliaia di anni sotto il suo giogo, tingendone lo spirito di cupa seriosità. Il peso dell'afflizione è tale da indurre parecchi finlandesi a vedere nella morte l'unico sollievo. La malinconia è un avversario più spietato dell'Unione Sovietica. Ma i finlandesi sono al tempo stesso un popolo combattivo. Non cedono mai. Si ribellano a ogni occasione contro il tiranno. San Giovanni, la festa della luce e della spensieratezza nel solstizio d'estate, rappresenta per i finlandesi l'occasione di una lotta titanica in cui tentare, unendo le forze, di sconfiggere la malinconia che li rode. Il paese intero si mobilita fin dalla vigilia: non solo gli uomini arruolabili, ma anche donne, bambini e vecchi accorrono al fronte. Per respingere le tenebre, immensi falò pagani vengono accesi sulle rive delle migliaia di laghi del paese. E in cima ai pennoni si issano vessilli di guerra bianco-azzurri. Cinque milioni di guerrieri, prima della tenzone, si rimpinzano di grasse salsicce e costolette di maiale ai ferri. Tracannano senza scrupoli per farsi coraggio e, al suono della fisarmonica, le truppe marciano all'assalto della depressione, arrivando a sopraffarla nel corso della notte dopo una lotta senza quartiere.
Nel trambusto dei corpo a corpo i due sessi finiscono per incontrarsi, le
donne per restare incinte. Intrepidi che sfrecciano sulle acque su gommoni da
sbarco vanno ad annegare nei laghi e nel mare. Si contano a
decine di migliaia i caduti tra i cespugli e in mezzo alle
ortiche, per non dire degli atti di valore e di eroico sacrificio. Gioia e
benessere trionfano, la malinconia è respinta, e la nazione, sbaragliato il cupo
oppressore, può godersi almeno una notte all'anno di libertà.
Spuntò l'alba di san Giovanni sulla riva del lago dell'Ebbro, nella provincia dell'Häme. Un lieve sentore di fumo si librava ancora, residuo dei combattimenti notturni: il giomo prima, per la vigilia, su tutte le rive erano stati accesi i falò. Una rondine sfrecciava col becco aperto a pelo d'acqua a caccia di insetti. L'aria era calma e limpida, la gente dormiva. Solo gli uccelli avevano ancora la forza di cantare. Un uomo se ne stava seduto solo sui gradini davanti al suo villino, una bottiglia di birra piena in mano. Era il direttore Onni Rellonen, età intorno ai cinquanta, sul viso l'aria più lugubre di tutto il circondario. Lui non era annoverabile tra i vincitori del combattimento notturno: era ferito gravemente, ma non c'era ospedale da campo in grado di apprestare i primi soccorsi al suo cuore infranto. Rellonen era un tipo magro, di media statura, le orecchie piuttosto grandi e un lungo naso arrossato in punta. Portava una camicia a maniche corte e pantaloni di velluto. Guardandolo, si poteva intuire che una volta doveva aver celato in sé una forza esplosiva. Una volta. Era stanco, abbattuto, segnato dalla vita. Le rughe sul volto e i capelli diradati sul cranio erano patetiche testimonianze del cedimento di fronte alla crudezza e alla brevità dell'esistenza.
Per decenni il direttore Onni Rellonen aveva sofferto d'acidità di stomaco,
e nelle pieghe del suo intestino si era manifestato un principio di catarro. Le
articolazioni erano in buono stato, come pure la muscolatura, se si eccettua un
leggero rilassamento. Il cuore di Onni Rellonen, invece, era rivestito di grasso
e aveva un battito pesante: ormai per il suo organismo non costituiva più la
spinta vitale, ma piuttosto un peso, una zavorra. C'era di che temere che si
fermasse, paralizzando il corpo e privando il suo proprietario delle linfe
vitali, fino a consegnarlo alla morte. Triste compenso
d'un organo interno spossato a un uomo che sul suo
cuore aveva fatto affidamento fin dal suo concepimento. Lasciate che il cuore
faccia una pausa, fosse anche solo il tempo di cento battiti, tanto per
riprendere fiato, e tutto è finito. I miliardi di battiti precedenti non
conterebbero più nulla. Così è la morte. Sono migliaia i
finlandesi che ogni anno ne fanno esperienza, e nessuno torna a riferire che
effetto fa, alla fine.
A primavera Onni Rellonen si era messo a ripitturare i muri esterni scrostati del suo villino, ma il lavoro era rimasto a metà. Il barattolo di vernice era li accanto al basamento, e il pennello s'era indurito sul coperchio. Rellonen era un uomo d'affari, cui qualche volta era pure capitato di sentirsi chiamare direttore. Aveva alle spalle diversi anni di frenetica attività, di successi iniziali travolgenti, di scalate nel mondo della piccola industria, di un certo numero di subalterni, di contabilità, denaro, attività commerciali. Aveva anche fatto l'imprenditore, e negli anni Sessanta perfino il fabbricante di lamiere. Ma una congiuntura sfavorevole e una concorrenza feroce avevano portato la sua società «Grondaie e Lamiere S.p.A.» al fallimento. Che non era stato l'ultimo. Era poi anche stato indagato per frode. L'ultima impresa in cui il direttore Rellonen s'era buttato era stata una lavanderia automatica, ma neppure quella aveva avuto successo: non c'era famiglia in Finlandia che non disponesse di una lavatrice, e chi non ce l'aveva erano quelli che dei panni non lavati non facevano un dramma. I grandi alberghi e le compagnie dei traghetti non si curavano di fornirgli lavoro, che invece veniva assorbito dalle grosse ditte, passandogli sistematicamente sotto il naso. Gli accordi per questi ordini venivano combinati in incontri riservati. Era stato a primavera il fallimento più recente, dopo di che Onni Rellonen aveva sofferto di una profonda depressione. Aveva figli già grandi, e un matrimonio a rotoli. Se mai si lasciava andare a fare progetti per l'avvenire ed esponeva i propositi alla moglie, nemmeno da lei riceveva più alcun sostegno. "Mah!" era il commento con cui la donna lo raggelava: né ripulsa né incoraggiamento, niente di niente. Tutto appariva privo di speranza, la vita in generale, ma soprattutto gli affari. Fin dall'inverno il direttore Onni Rellonen aveva covato propositi di suicidio: e non era la prima volta. La sua voglia di vivere s'era già esaurita da tempo, e la depressione aveva a sua volta convertito la sua sana aggressività in pensieri autodistruttivi. Quanto a lui, avrebbe già messo fine ai suoi giorni la primavera precedente, all'epoca del fallimento della lavanderia, ma in qualche modo gliene era mancata la forza. Adesso era san Giovanni. La moglie era rimasta in città, dicendo che non voleva rovinarsi la festa in campagna con un marito deprimente. Una sera della vigilia in solitudine, senza falò, senza compagnia, senza futuro. Niente di meglio per far felice un povero cristo. Onni Rellonen posò la bottiglia di birra sullo scalino e rientrò in casa. Rovistò nei cassetti del comò in camera da letto, tirò fuori la pistola, la caricò e la fece scivolare nella tasca dei pantaloni. "Si vedrà", pensò con amarezza, ma determinato. Dopo tanto tempo aveva l'impressione di decidersi a fare qualcosa, di metterci un po' di slancio. Era ora di dire basta a quel vivacchiare privo di senso. Un bel punto finale a tutta l'esistenza, un punto esclamativo col botto! Il direttore Onni Rellonen si inoltrò per la ridente campagna dell'Häme. Accompagnato dal canto degli uccelli seguì il lungo sentiero di ghiaia, sorpassò la casetta del vicino, poi in mezzo ai campi coltivati, oltre un capannone per la trebbia, una stalla e una fattoria. Dietro un boschetto si estendeva un prato, e a Rellonen venne in mente che sul limitare del boschetto si trovava un vecchio fienile decrepito. Era lì che poteva tirarsi un colpo, un posto tranquillo e un ambiente adatto per mettere fine ai suoi giorni. Sarebbe stato forse giusto lasciare una lettera d'addio sul tavolo di casa. Per scrivere cosa? Addio, cari figlioli, cercate di cavarvela, papà ha preso la sua decisione...? Moglie, non volermene? Rellonen s'immaginò la reazione della donna alla lettura di un addio del genere. Probabilmente avrebbe commentato: "Mah!" | << | < | > | >> |Pagina 55Il colonnello Kemppainen prenotò la sala riunioni al Ristorante dei Cantori. Il maître gli comunicò che nell'interrato potevano starci circa duecento persone, una parte nella sala grande e le restanti quaranta in una saletta a parte. Kemppainen riservò il ristorante per il sabato, a partire dalle dodici. Concordò allo stesso tempo il pranzo da offrire, e il maître propose un menu da settantotto marchi a testa. Se si desiderava aggiungere anche un aperitivo, per esempio dello spumante, c'era da mettere in conto un supplemento di sedici marchi.
Il colonnello accettò il menu consigliato:
Il direttore Rellonen, di fronte a quell'elenco, si mostrò scioccato. Il colonnello era forse ammattito? Se davvero arrivavano al ristorante duecento aspiranti suicidi e tutti si rimpinzavano secondo l'ordine fatto dal colonnello, il costo sarebbe stato esorbitante. Rellonen picchiettò sulla calcolatrice tascabile: diciottomilaottocento marchi! Per quel che lo riguardava non poteva permettersi di scialare. E poi, che senso aveva dar da mangiare a duecento persone che intendevano comunque suicidarsi? Per molti quel ben di dio sarebbe stato di sicuro uno spreco. Una tazza di caffè e delle paste sarebbero stati più che sufficienti per gente votata alla morte. Aveva paura che da tanta prodigalità loro tre ci avrebbero guadagnato soltanto un fallimento, e nient'altro. "Mi sembra che tu, Onni, abbia un timore dei fallimenti quasi paranoico", commentò il colonnello. "Credo che non dovremmo preoccuparci del conto del ristorante. Figurati se la gente non ha i soldi per pagarsi un pranzo! E se non ce li hanno tutti, vuol dire che metterò io la differenza." Rellonen bofonchiò che, per quanto ne sapeva, gli stipendi degli ufficiali non erano così elevati da potersi permettere di sfamare i pazzi di tutto il paese. Il colonnello replicò che non viveva esclusivamente del suo stipendio, poiché aveva del suo, o meglio, la defunta moglie era di famiglia benestante, una ricca ereditiera e, dalla sua morte, lui era se non altro una persona agiata. La vicepreside Puusaari portò avanti il discorso: "Potrei pregare una mia compagna di studi, la psicologa Arja Reuhunen, di tenere una conferenza. Si occupa di pazienti affetti da mongolismo al policlinico di Tampere e ha ampie conoscenze sull'argomento. Potrebbe parlare della prevenzione del suicidio." A suo dire, la psicologa Reuhunen era un'oratrice molto nota, e aveva scritto vari articoli sulla materia, e per di più una volta, se ben ricordava, all'inizio degli studi, aveva tentato lei stessa il suicidio. Quando tutti i preparativi furono ultimati, venne redatto un breve invito al seminario di «suicidologia» che si sarebbe tenuto di sabato, a metà luglio, a partire dalle dodici, nella sala del Ristorante dei Cantori a Helsinki. Gli organizzatori auspicavano una partecipazione numerosa e auguravano buona estate. Poi, riflettendo meglio sul testo, tolsero gli auguri di buona estate. Al loro posto scrissero: "Guardatevi dal compiere gesti inconsulti. A presto." Rellonen avanzò la proposta di inserire come postilla un motto scherzoso: "Ci rivediamo dal Grande Rottamatore", ma restò lettera morta. Batterono il testo in bella copia. Poi andarono tutti e tre all'Istituto di formazione per adulti di Hämeenlinna per fare le fotocopie. Il lavoro più lungo fu scrivere i nomi e gli indirizzi dei destinatari sulle buste. Ci volle un'intera giornata. Per incollare i francobolli e infilare le lettere nelle buste si avvalsero dell'aiuto degli studenti del corso di arti figurative dell'Istituto. Il mattino seguente spedirono le lettere da Hämeenlinna. A questo punto non restava più che aspettare l'imminente riunione degli aspiranti suicidi. La compagnia si sciolse: il direttore Rellonen partì per Helsinki, il colonnello Kemppainen tornò a casa sua a Jyväskylä e la vicepreside Puusaari a Toijala. Il sabato della settimana successiva il colonnello Kemppainen passò a prendere in macchina la vicepreside a Toijala. Durante il tragitto per Helsinki la signora fece visita ai due cimiteri, quelli di Janakkala e di Tuusula, dando di entrambi un giudizio positivo. Il direttore Rellonen era già ad aspettarli al ristorante. Mancava un quarto alle dodici. Il trio andò a ispezionare il salone, constatando che il personale del ristorante aveva messo tutto in ordine, compresi i fiori e le tovaglie bianche sui tavoli. Il maître mostro il menu, che corrispondeva all'ordinazione. Provarono i microfoni. Tutto era a posto. "Hanno telefonato dei giornalisti", disse il maître. Il colonnello replicò con un grugnito che l'incontro non era pubblico. Diede quindi al portiere l'ordine di non far entrare nessun giornalista o fotografo e, nel caso che qualcuno tentasse di farlo, di chiamare lui all'ingresso per sistemare la cosa. L'atmosfera era tesa. Sarebbero venuti o no gli aspiranti suicidi a una riunione di quella gravità? O era stata mania di grandezza degli organizzatori mettere in moto una macchina così possente? Che conseguenze ne sarebbero scaturite? Il colonnello era in alta uniforme. La signora Puusaari indossava un vestito rosso di seta grezza. Il direttore aveva rispolverato un vecchio gessato sopravvissuto alle bufere di ben quattro fallimenti. Formavano un trio dall'aria solenne, grave. Come la questione in ballo: una questione di vita o di morte. La tensione durò fino a mezzogiorno. Poi l'ingresso del ristorante si riempì di gente, donne e uomini. Una folla. I volti erano seri, si parlava a bassa voce. Rellonen contò gli arrivi: cinquanta, settanta, cento... poi non riuscì più a star dietro ai numeri. La moltitudine si spostò dall'ingresso verso la sala, dove il colonnello Kemppainen e la vicepreside Puusaari accoglievano tutti stringendo la mano. Il maitre, con l'aiuto dei camerieri, fece accomodare gli ospiti ai tavoli: in un quarto d'ora il salone era pieno. Le porte a soffietto della saletta privata vennero aperte, ricavando così altro spazio per quaranta invitati. Quando anche quei tavoli si riempirono, sulla soglia erano rimaste, impalate, una ventina di persone. Anche loro, poveracci, in attesa di suicidarsi. In un brusio sommesso gli ospiti si accomodarono ai loro posti. I tavoli erano già apparecchiati e su ognuno c'era il menu. Gli invitati scorrevano la lista, tutti con un'spressione di attesa. Alle dodici e un quarto il colonnello chiese all'addetto di chiudere le porte, dato che non c'era più posto per nessuno. La riunione poteva cominciare. Kemppainen parlò al microfono. Sì presentò introducendo i suoi amici, il direttore Rellonen e la vicepreside Puusaari. Dalla folla si levò un mormorio di approvazione. Quindi fece una breve presentazione del curriculum degli organizzatori e del programma del seminario, che si proponeva una discussione a cuore aperto sulla vita e sulla morte. L'ordine del giorno dell'incontro prevedeva una conferenza di psicologia sulla prevenzione del suicidio. Dopo la lezione sarebbe stato offerto il pranzo preparato dalla cucina del ristorante. Per coloro che, eventualmente, non fossero in grado di sostenere il prezzo decisamente elevato del pranzo, avrebbe provveduto il colonnello. Una colletta per coprire le spese della serata si sarebbe fatta più avanti. Dopo il pranzo ci sarebbe stato un dibattito aperto, dove chiunque lo desiderasse poteva prendere brevemente la parola sull'argomento del giorno, íl suicidio. A conclusione, si sarebbe deciso dell'opportunità di fare altri seminari, di istituire un comitato a difesa degli interessi degli aspiranti suicidi, oppure se considerare sufficiente quell'incontro. "Per quanto l'argomento di cui ci occupiamo sia di necessità estremamente serio e, in un certo senso, particolarmente deprimente, mi auguro comunque che non ci rovini questa bella giornata d'estate. Non abbiamo forse anche noi, malgrado le nostre vite a rotoli, il diritto di godere almeno una volta della nostra esistenza e della reciproca compagnia? Spero che qui vi troverete bene, e che questa sia l'occasione per indirizzare la nostra sorte verso una prospettiva nuova, più aperta alla speranza", concluse il colonnello. Le sue belle parole ebbero l'approvazione incondizionata del pubblico e furono lungamente applaudite. | << | < | > | >> |Pagina 105Ancora assonnato, Urho Jääskeläinen entrò nella stalla. Erano appena le sei, ma in una fattoria il lavoro non può attendere. Si doveva dar da mangiare alle mucche, mungerle, raccogliere lo sterco nel letamaio, infine portare le bestie al pascolo. Urho Jääskeläinen era un uomo sui trent'anni, nativo del Savo, profondamente legato alla sua terra. Abitava in uno sperduto villaggio, Röntteikkösalmi, dove aveva ereditato dai genitori una fattoria piuttosto redditizia: venti ettari erano a coltura, per la maggior parte fieno e altri tipi di foraggio, ma con appezzamenti significativi coltivati a barbabietola da zucchero. Aveva dodici mucche. Avrebbe potuto averne di più, la stalla era nuova e di foraggio ne produceva oltre il necessario, ma le quote del latte erano implacabili. Bisognava accontentarsi di quel numero. E forza lavoro non se ne trovava. Sui giornali non passava giorno senza che si parlasse di disoccupazione, ma se si voleva assoldare un bracciante, le cartelle dei senza lavoro sparivano dagli schedari. Era già tanto se si riusciva a trovare un sostituto per una settimana, d'estate, per fare un salto in fretta e furia a Tenerife; ma anche questo modesto conforto non era consentito tutti gli anni. Urho lavò le mammelle delle mucche e vi applicò le ventose della mungitrice. Il latte cominciò a scorrere nella cisterna. In verità questo lavoro l'avrebbe dovuto fare la moglie Kati, ma da lei non ci si poteva aspettare nessun aiuto nei lavori della fattoria. A Röntteikkösalmi le ragazze da marito se n'erano andate tutte via subito dopo la scuola, e Urho non aveva potuto sposare una ragazza di campagna. Aveva corso il rischio di restare uno scapolone, finché la sorte non gli arrise, se così si può dire, qualche anno prima, alla fiera agricola di Pieksämäki. Con l'aiuto del computer aveva trovato una ragazza di città disposta a maritarsi, Kati, del quartiere operaio di Kallio a Helsinki. Lei voleva trasferirsi in campagna, aveva la passione dell'equitazione e delle coltivazioni biologiche. Come esperienza pratica aveva lavorato in un bar di via Penger. Ma ai lavori di campagna non si era mai abituata. Mungere le faceva ribrezzo, aveva paura delle mucche. Impossibile tenere maiali, il puzzo le era intollerabile. Da maggio all'autunno inoltrato le colava il naso, essendo allergica un po' a tutto, al pelo delle vacche, alla colza dei prati. E aveva talmente paura della pneumoconiosi che non partecipava alla fienagione. Gli stivali di gomma le impedivano la traspirazione dei piedi, e anche questo era un ostacolo. Al contrario, a sfornare un figlio Kati c'era riuscita senza nessuna fatica, nulla da dire, una marmocchia che frignava piena di croste da latte. Già al tempo del bar Kati s'era dimostrata un'ottima cuoca: a Urho serviva quasi tutti i giorni salsicce con purè di patate o polpette con contorno di patate fritte. Ogni tanto, la domenica, gli faceva la sorpresa di portargli in tavola una bella fettina di manzo. Urho Jääskeläinen quella mattina non era del suo umore migliore. Kati, come al solito, era rimasta a poltrire. Diceva sempre che neanche al bar la costringevano ad alzarsi la mattina presto per lavorare; e poi li, se faceva anche una sola ora di straordinario, c'era la paga extra. Urho l'avrebbe mai pagata perche si alzasse in piena notte a preparagli la colazione? Figuriamoci. Il consulente agrario del distretto aveva suggerito a Urho Jääskeläinen di procurarsi un computer, ma Urho non si era lasciato entusiasmare dall'idea. Diceva di aver perso ogni fiducia nell'informatica dopo la fiera agricola di Pieksämäki, qualche anno prima. Terminati i lavori della stalla, Urho condusse fuori il bestiame e lo guidò per un viottolo che portava ai pascoli attraverso i campi. Kati continuava a dormire, le tende della finestra della sua camera erano chiuse. Amareggiato, l'agricoltore spingeva la sua dozzina di capi lungo la strada fangosa. L'erba umida di rugiada mattutina emanava il suo intenso profumo, ma non bastava a tiralo su. Dentro di sé provava un furioso senso di rigetto nei confronti della vita. Qualche volta aveva pensato al suicidio. O anche di sparare prima alla moglie e alla figlia e poi ficcarsi una pallottola nel cranio. Si poteva fare, bastava prendersi una ciucca integrale per una settimana intera. Urho Jääskeläinen era così immerso nei suoi cupi pensieri che quasi andò a sbattere con tutta la sua mandria contro la tenda militare piazzata in mezzo al campo. Restò basito: che cosa significava? Erano iniziate le esercitazioni militari a Juva? Con quale diritto l'esercito aveva calpestato i suoi campi e si era accampato in mezzo al foraggio nuovo nel momento più delicato della crescita? Aperto bruscamente íl telo che chiudeva l'entrata della tenda, lanciò una sveglia terrificante. Urho, che aveva fatto il militare a Vekasjärvi arrivando al grado di caporale, aveva una voce imperiosa e stentorea. Ma immaginate la faccia del caporale quando vide emergere dalla tenda, al posto di reclute assonnate, un ufficiale stizzito e ancora in preda ai postumi della sbornia. Urho si spaventò: vide spuntare un colonnello in carne e ossa, con tanto di uniforme e bandoliera e sul bavero le tre rosette dorate. Urho Jääskeläinen si mise istintivamente sull'attenti, e fece rapporto: "Agli ordini signor colonnello! Caporale Jääskeläinen, effettivi uno più dodici..." Si interruppe imbarazzato. Che diamine, era un civile, lui, era il proprietario di quel terreno e padrone di tutta la fattoria, per quale motivo doveva prostrarsi davanti a un portapatacche sconosciuto nel bel mezzo del suo campo? Con la faccia paonazza Urho Jääskeläinen retrocesse, facendosi scudo delle sue mucche. Maledizione! aveva fatto rapporto anche per loro. Il colonnello Kemppainen gli tese la mano, e gli chiese in quale villaggio lui e la sua truppa avessero bivaccato. Urho rispose che si trovavano al momento nel villaggio di Röntteikkösalmi, e nella proprietà Jääskeläinen. Che razza di militari stravaganti, neanche sapevano dov'erano! Nel frattempo anche il resto della truppa s'era svegliato e si radunò intorno al colonnello e al fattore. Tutti civili! notò Urho. Donne e uomini insieme, una compagnia davvero bizzarra. Fece il calcolo che dalla tenda erano spuntate perlomeno venti persone. Quelli di città hanno davvero del bel tempo da perdere, a viaggiare in piena estate e mettere a soqquadro i campi della gente perbene. Il colonnello domandò se c'era molta strada per il centro abitato più vicino. Heinola, magari, o Lahti. Urho Jääskeläinen precisò che si trovavano nel comune di Juva. Heinola era lontana, Lahti ancora di più. La città più vicina era Mikkeli e quasi altrettanto vicine erano Savonlinna e Varkaus. Anche per Pieksämmäki non c'era molta strada. "Ah, è così... strano... credevo che fossimo ancora a ovest di Mikkeli. Abbiamo fatto un bel giro. Be', qua o là, fa lo stesso! Così ci siamo accampati sulla sua proprietà?" "Esattamente", rispose l'uomo col suo forte accento del Savo. "Senza permesso, e per di più proprio col fieno che butta!" "La risarciremo senz'altro delle perdite del raccolto", promise garbatamente il colonnello. Urho Jääskeläinen bofonchiò che non era con i soldi che il colonnello poteva raddrizzare il fieno calpestato. Mica era così semplice. Perché non si mettevano piuttosto a dare una mano? Era di questo che la fattoria aveva bisogno! "I soldi me ne sbatto! Ma se magari potete diradare le barbabietole... visto il casino di gente che siete venuti a pestarmi il campo." Gli aspiranti suicidi si dichiararono più che disposti a dare una mano, se ne aveva bisogno. Il lavoro nei campi poteva rappresentare una terapia efficace, ma prima bisognava fare colazione e andarsi a rinfrescare. C'era un lago vicino dove bagnarsi? | << | < | > | >> |Pagina 143Calò la sera. Il temporale se n'era rimasto in Finlandia. Korpela oltrepassò Kautokeino puntando verso il Mar Glaciale Artico. In Norvegia c'era il sole e nonostante fosse quasi mezzanotte, era ancora alto sull'orizzonte. Sorjonen spiegò che dipendeva dal fatto che il sole in Lapponia non poteva arrivare a toccare la terra perché i lapponi non hanno una terra propria. Certo, in inverno il sole spariva dietro l'orizzonte, ma era perché la terra era sotto una coltre di neve e di ghiaccio. Korpela chiese ai passeggeri se avessero tanta fretta di morire da costringerlo a guidare ininterrottamente fino alla meta. Era stanco, aveva guidato da Kuusamo per centinaia di chilometri. Propose di passare quell'ultima notte bianca dormendo sull'altopiano disabitato. Nessuno degli aspiranti suicidi si oppose alla proposta del conducente. Per morire c'è sempre tempo. Il pullman si fermò vicino a una serie di laghetti. Erano su una spianata alta sul mare e spazzata dai venti. Il bosco era rado, con ampie distese di mora artica. Uula preparò un fuoco, su cui misero a bollire il caffè. Piantarono la tenda sulla riva deserta di un laghetto. Una trota saltò con un tonfo, sullo specchio d'acqua calma dei cerchi s'andarono lentamente allargando. Nel riverbero fiammeggiante del sole di mezzanotte, la conversazione scivolò sulla patria che avevano lasciato. Per la Finlandia non provavano una grande nostalgia; aveva maltrattato i suoi figli. La società finlandese, sostenevano, era fredda e dura come il ferro, e i finlandesi crudeli e invidiosi gli uni degli altri. Nell'ingordigia dilagante, tutti cercavano di accumulare disperatamente denaro. I finlandesi erano cupi e malvagi. Se ridevano, era perché gioivano dei guai altrui. Il paese era pieno di imbroglioni, bari, impostori. I ricchi opprimevano i poveri, si facevano pagare affitti esorbitanti estorcendo interessi salatissimi. La massa dei diseredati si dedicava a forme rumorose di vandalismo, e non si prendeva cura dei propri figli: erano la piaga del paese, imbrattavano case, oggetti, treni e auto. Rompevano le finestre, vomitavano e facevano i loro bisogni negli ascensori. Dal canto loro i burocrati ce la mettevano tutta per inventarsi nuovi moduli con lo scopo di umiliare la popolazione e far correre il cittadino da uno sportello all'altro. I commercianti e i grossisti spennavano la clientela spillando dalle tasche fino all'ultimo centesimo. Le società immobiliari costruivano gli appartamenti più cari del mondo. Se ci si ammalava, medici sgarbati trattavano i pazienti come ronzini da portare al macello. Se non riuscivi a reggere tutto questo e ti crollavano i nervi, degli infermieri brutali del reparto di psichiatria ti infilavano la camicia di forza iniettandoti nelle vene della roba che ti spegneva in testa anche l'ultimo barlume. Nell'amato paese natio, l'industria e i proprietari terrieri distruggevano senza pietà le foreste nazionali, e quel che restava ci pensavano gli xilofagi a ridurlo in legnetti rinsecchiti. Dal cielo cadeva pioggia acida che avvelenava e rendeva sterile il suolo. Gli agricoltori spargevano tali quantità di fertilizzanti che fiumi, laghi e litorali erano infestati di alghe velenose. Le ciminiere e gli scoli delle fabbriche scaricavano sostanze che inquinavano l'aria e l'acqua. I pesci morivano e gli uccellini uscivano pateticamente dal guscio prima del tempo. Sulle strade imperversavano idioti fanatici della velocità che riempivano di sventurati i cimiteri e i reparti di rianimazione degli ospedali. Nelle industrie e negli uffici i lavoratori erano costretti a lavorare in concorrenza con le macchine, e se qualcuno si stancava, veniva messo da parte. I dirigenti pretendevano efficienza senza tregua, e trattavano i dipendenti in modo avvilente e umiliante. Le donne erano soggette a molestie, c'era sempre qualche gentiluomo che riteneva suo diritto pizzicare qualche didietro già tormentato di suo dalla cellulite. Agli uomini era riservato il fardello di una continua coercizione al successo di cui non si liberavano neanche nei pochi giorni di vacanza. Colleghi biliosi si spiavano a vicenda e beccavano i più deboli fino all'esasperazione, e anche oltre. Se si beveva, fegato e pancreas andavano in malora. Se si mangiava bene, il tasso di colesterolo saliva alle stelle. Se si fumava, nei polmoni attecchiva qualche tumore fatale. Ma qualunque cosa facesse, il finlandese arrivava sempre a scaricare la colpa su qualcun altro. C'era chi si dava al jogging fino allo stremo, e crollava sulla pista sfinito dallo sforzo. Chi non andava a correre diventava obeso, soffriva di artrosi e di mal di schiena e moriva all'improvviso di arresto cardiaco. Dall'andamento della conversazione i candidati suicidi cominciarono a farsi l'idea di essere in una condizione tutto sommato migliore di quei connazionali condannati a condurre una grigia esistenza in quella patria miserabile. Constatazione che li rese – per la prima volta da tempo – finalmente felici. Ma in tutti i gruppi c'è sempre un guastafeste: il cameriere extra Seppo Sorjonen, senza chiedere se interessava a qualcuno, si mise a sciorinare i suoi ricordi della Finlandia. Il guaio era che si trattava di ricordi unicamente positivi. Prese ad esempio la sauna finlandese. Secondo Sorjonen la sua mera esistenza faceva sì che nessun finlandese avesse il diritto di suicidarsi, quali che fossero le circostanze, e comunque non prima di essersene goduta una. Sorjonen prese a evocare con voce bassa e suadente le saune di fumo della Carelia settentrionale, dove purtroppo non aveva avuto la fortuna di nascere, ma dove aveva trascorso alcuni dei momenti più piacevoli della sua esistenza. La sauna era una normalissima costruzione in tronchi d'albero di piccole dimensioni. Ci andava con sua madre e suo padre, e a scaldarla collaborava tutta la famiglia: il papà spaccava la legna dei giovani ontani abbattuti l'estate prima, la mamma ramazzava le panche, preparava schiacciatine careliane e a Seppo era concesso di portare l'acqua per le abluzioni. Il papà mandava giù un goccio d'acquavite, la mamma aveva da rimbrottare come al solito. Da dietro il letamaio, le gazze osservavano, con il capino piegato, il fumo denso dell'ontano che dalle fessure aperte nelle pareti fuorusciva e si diffondeva nell'aria. Sorjonen ne ricordava ancora il profumo. Sulle panche della sauna dalle pareti annerite, il bambino si sedeva in silenzio sul gradino più alto tra la mamma e il papà, il capo chino per difendersi dalle vampate, in silenzio. Confortato dal caldo vapore, gli era consentito di gettare le mestolate d'acqua sulla stufa. Bravo, figliolo, diceva il papà; Seppo, amore, non esagerare, ammoniva la mamma. Gli occhi del papà indugiavano sulle grosse poppe pendule della mamma, così Seppo era arrivato a capire di essere figlio di quei due adulti. La mamma gli dava le frasche di betulla chiedendogli se poteva frustarle la schiena appena un po', non troppo forte. "Ehi, ragazzo, non mi fissare in quel modo!" La mamma era originaria di Uuras, un porto nel golfo di Viipuri, il papà un nomade venuto dell'Ostrobotnia. Dopo i primi vapori Seppo filava zompettando fino in riva al lago e ci si immergeva, pur non sapendo ancora nuotare. Il papà gli insegnava a fare il cagnolino, la mamma sciacquava la sua biancheria rosa dietro il pontile. Poi rientrava all'improvviso nella sauna dove il papà si batteva vigorosamente con le frasche. Il calore ormai regnava sovrano, ma Seppo resisteva in cima alla panca, benché la mamma gli avesse preparato sul pavimento il catino dell'acqua per sciacquarsi. "Non dimenticare di lavarti il pisellino", gli diceva la mamma andandosene. Con il papà rimaneva ancora a lungo a crogiolarsi nei vapori, come due grandi, e solo dopo si avviavano sul prato verso il casolare che odorava di schiacciatine appena sfornate. La mamma aveva riempito un bicchierone di latte per Seppo, lasciando ancora vuoto quello del papà. La fragranza del lino degli asciugamani avvolgeva padre e figlio, il quale spariva dentro al suo, mentre la mamma estraeva dall'asciugamano di papà una bottiglia di acquavite, la stessa da cui l'uomo aveva già attinto nella legnaia. Ne versava un bicchiere e portava via il resto con un sorriso appena accennato, che Seppo capiva. Poi il bambino usciva di nuovo con il suo bicchiere di latte e la sua schiacciatina, che sbocconcellava ancora calda seduto sui gradini. Guardava il lago, calmo quanto questo remoto e selvaggio laghetto norvegese decenni dopo. Il sole, a quell'epoca, tramontava, mentre qui stava già salendo in cielo. Sull'onda emotiva di quei caldi ricordi, il cameriere extra Sorjonen arrivò a confessare che in vita sua aveva scritto anche dei versi. Ne recitò alcuni, e neanche quelli rattristavano più di tanto.
«Guastatriboli» fu il soprannome che si guadagnò.
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