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| << | < | > | >> |Pagina 7"Ci chiamavano le pazze, e qualcuno pensava che fosse un'offesa. Certo, ci mettevano dentro tutti i giovedì, e noi ritornavamo. Ci dicevano, eccole lì, le pazze. Le arrestiamo e loro ritornano. Ma noi sapevamo di essere pazze d'amore, pazze dal desiderio di ritrovare i nostri figli... E poi, perché no? un po' di pazzia è importante per lottare. Abbiamo rovesciato il significato dell'insulto di quegli assassini. Non ci offendeva più che ci chiamassero pazze. Per fare quello che abbiamo fatto, quello che continuiamo a fare, dobbiamo essere un po' pazze. La follia è importante. A volte sono proprio i pazzi, insieme ai bambini, quelli che dicono la verità." Sono le parole di Hebe de Bonafini, presidente delle Madri argentine di Plaza de Mayo un gruppo di donne, semplici casalinghe abituate ad assistere all'attività dei figli senza porsi troppe domande, cresciute nel rispetto delle autorità costituite che, dopo il golpe militare del 24 marzo 1976, ebbero il coraggio di sfidare la dittatura e conquistare la piazza, decise a ritrovare i figli scomparsi. Solo in seguito seppero che i militari avevano sequestrato e ucciso trentamila oppositori politici, ragazzi e ragazze torturati nei campi di concentramento clandestini disseminati in centinaia di luoghi insospettabili nell'intero paese, gettati in mare con i 'voli della morte'. All'inizio si erano rivolte ai giudici, ai commissari, ai parroci, agli avvocati, agli esponenti politici, per scoprire di essere circondate da un muro di complicità, paura e indifferenza. Furono le porte che si videro chiuse in faccia, o aperte con subdola condiscendenza per carpire ulteriori informazioni, a dar loro la misura del potere che le soverchiava e a spingerle in quella Plaza de Mayo che avrebbe dato loro il nome, a dar vita, di fronte al palazzo presidenziale, alla storica marcia che continuano da ventotto anni, ogni giovedì. Mentre, secondo il pervasivo indottrinamento golpista per cui la nazione si trovava davanti al compito di liberarsi dei 'sovversivi', le vittime venivano trasformate in colpevoli agli occhi della stessa società, le Madri di Plaza de Mayo erano segnate a dito come madri di terroristi. Proprio l'impossibilità del racconto, della manifestazione del dolore e della rabbia, il voltar loro le spalle dei vicini e spesso degli stessi parenti, le unì in un collettivo che, man mano che il mondo si squadernava facendosi incomprensibile e ostile, diventò la loro ragione di vita. Forti solo del fazzoletto bianco che si annodavano sotto il mento, delle fotografie dei figli appese sul petto, seppero inventare varchi con il proprio stesso corpo per far sapere al mondo quello che accadeva sotto una dittatura che voleva invece mostrarsi, ben diversamente da quella degli stadi cileni di Pinochet, capace di una transizione alla democrazia. Le Madri che non si lasciarono intimidire neppure quando il regime sequestrò e uccise le tre donne che avevano dato vita al gruppo continuarono a chiedere giustizia anche dopo la caduta del regime, mentre i governi costituzionali, pur di chiudere sbrigativamente i conti con la 'guerra sporca' e i suoi responsabili, promulgavano leggi assolutorie e indulti, e offrivano risarcimenti economici sempre più cospicui alle famiglie per indurle a dichiarare morti i desaparecidos. Rifiutando una pacificazione che eludeva le responsabilità dei genocidi e affermando che la vita non si paga con il denaro ma con la giustizia, rinunciarono al lutto. Madri non più dei singoli figli, ma simbolicamente di tutti i trentamila scomparsi, fecero della maternità una forza capace di tenerli in vita per sempre, mettendo in scacco gli assassini e i torturatori ancora comodamente annidati nelle nicchie del potere. Dopo aver vissuto un'esperienza abissale che le ha tenute per quasi trent'anni in presenza della morte senza accettarla, le Madri di Plaza de Mayo hanno fatto del dar vita un potere irrevocabile. Ma chi erano, le Madri, prima che la storia si abbattesse su di loro, trasformandole radicalmente? Benché la prima parte delle loro esistenze l'infanzia, il matrimonio, la nascita dei figli si fosse svolta tra gli anni Venti e gli anni Sessanta in un paese dove ogni tentativo di democrazia aveva avuto vita difficile, represso da continui colpi di stato, per loro il succedersi di governi militari, il peronismo, le dittature dell'intero continente latinoamericano erano stati poco più che echi remoti. "Quando i miei figli andavano a scuola" racconta Hebe "misero in scena l' Antigone. Assistevo a tutte le repliche, perché mi piaceva tanto vederli recitare; sapevo a memoria quel testo, ma mai mi resi conto di ciò che voleva dire. Adesso sì. Adesso so chi è Antigone." Il corpo che il tiranno non voleva seppellito nella cerchia delle mura sarebbe diventato quello di tutti i trentamila desaparecidos. Ora che il mondo ha imparato a conoscerle e che il nuovo presidente argentino Kirchner, nel suo primo discorso davanti alle Nazioni unite, si è dichiarato "figlio delle Madri di Plaza de Mayo", continuano a trovarsi nella loro Casa nel centro di Buenos Aires, dove tutti i giorni tengono riunioni, cucinano, parlano dei nipoti e degli acciacchi, ricevono personaggi pubblici dal presidente venezuelano Chávez a Bono degli U2, che ha dedicato loro la canzone Mothers of Disappeared; da Danielle Mitterand a José Saramago, che le ha candidate per il premio Nobel per la pace ma soprattutto accolgono giovani che vengono da tutte le parti del mondo ad ascoltare dalla loro viva voce il racconto di una traiettoria inaudita. Da lì guardano come nuovi figli i ragazzi e le ragazze che frequentano i corsi tenuti gratuitamente da docenti argentini e latinoamericani nell'Università popolare delle Madri di Plaza de Mayo, aperta cinque anni fa e voluta come un lascito di vita e di libertà. "Se noi donne ormai vecchie, tutte tra i settanta e i novant'anni" dice Beba Petrini "possiamo venire qui ogni giorno, magari qualcuna un po' malferma, col bastone e se dobbiamo andare a una marcia, ci andiamo, se dobbiamo uscire di notte a fare un discorso, lo facciamo allora tutto si può fare. Quella che adesso si occupa della rassegna stampa è una madre di novantadue anni. Stiamo mettendo molte cose su internet perché, è chiaro, dobbiamo stare al passo con i tempi, però tutto questo è inamovibile, resta, e dimostra che quando uno fa quello che vuole e quello in cui crede, e quando sogna, nonostante possa avere molti anni e avere sofferto molto, be', allora... sii felice, puoi, cammina e fai. Questo siamo noi Madri." Le cinque madri che parlano in questo libro, Hebe de Bonafini, Beba Petrini, Cota Feigelmόller, Juanita Pargament e Marcela Antonia De Ledo, hanno origini e storie diverse: la famiglia di Hebe veniva dalla Spagna, in fuga dal franchismo; quella di Cota dall'Italia; quella di Beba dai Paesi Baschi; la famiglia di Juanita era ebrea estone e suo marito era un ebreo scappato dalla Germania di Hitler. Marcela invece discende da una famiglia dei pochi indios nativi sopravvissuti alla colonizzazione europea. Ho raccolto le loro testimonianze nel corso di incontri che si sono succeduti durante cinque anni nei loro ripetuti viaggi in Italia e in un mio recente viaggio in Argentina e le ho organizzate secondo una successione cronologica, scandendole con brevi indicazioni sul contesto in cui si sono svolti i fatti, basate sui riscontri che ho potuto trovare nel complesso e in parte contraddittorio materiale non ancora sistematizzato dagli storici. Le pazze è il risultato di un incontro, che in quanto tale non pretende di essere esaustivo; è piuttosto il racconto di quello che ho visto e che ho imparato ad amare, che mi pare contenga un'indicazione significativa di un diverso modo di concepire e praticare la politica, fondata su un agire comune che pone al centro dell'azione la responsabilità etica dell'altro. Non un racconto sulle vittime, ma un racconto sulla resistenza; la resistenza della vita sulla morte, del dar vita materno sul dar morte dei regimi. | << | < | > | >> |Pagina 61Trentamila desaparecidos "In nome della sicurezza nazionale, migliaia e migliaia di esseri umani, di solito giovani e persino adolescenti, andarono a integrare una categoria tetra e fantasmatica: quella dei desaparecidos" si legge nel Prologo di Nunca Más, la relazione della Commissione nazionale sulla scomparsa di persone, istituita il 1° dicembre 1983 con decreto del presidente Raúl Alfonsín. "Parola triste privilegio argentino! che oggi si scrive in castigliano su tutta la stampa del mondo. Portati via con la forza, cessarono di avere presenza civile. Chi, esattamente, li aveva sequestrati? Perché? Dove si trovavano? Non c'era una risposta precisa a queste domande: le autorità non ne avevano sentito parlare; non si trovavano nelle carceri; la giustizia li ignorava e gli habeas corpus avevano per tutta risposta il silenzio. Attorno a loro cresceva un tetro silenzio. Mai un sequestratore arrestato, mai un luogo clandestino di detenzione individuato, mai la notizia di una condanna inferta ai colpevoli dei delitti. Così trascorsero giorni, settimane, mesi, anni di incertezza e di dolore per i padri, le madri e i figli, tutti appesi al filo di una voce, dibattuti tra speranze disperate, tra innumerevoli e inutili pratiche, suppliche rivolte a personaggi influenti, a ufficiali di un qualche settore delle Forze armate di cui avevano avuto il nome da un conoscente, a vescovi e cappellani militari, a commissari. La risposta era sempre negativa." La gente spariva nel nulla, caricata a forza sulle famigerate Ford falcon senza targa, portata in lager clandestini e torturata orribilmente. Nessuno, intorno, vedeva o sentiva nulla. Certo dell'impunità, forte dell'appoggio di Washington, Videla scherzò più volte in pubblico: "I desaparecidos? Sono tutti a Cuba o in Europa, al sicuro, a sobillare l'opinione pubblica contro il 'Processo di riorganizzazione nazionale'." Secondo la Conadep, il 62% dei desaparecidos fu sequestrato a casa propria davanti a testimoni, il 24,6% per la strada, il 7% sul luogo di lavoro, il 6% a scuola; i militari e poliziotti sequestrati furono lo 0,4%. Più del 30% era costituito da operai e il 20% da studenti. Si sa di centinaia di bambini scomparsi, rubati al momento del parto oppure sequestrati in fasce. Alcune testimonianze rese davanti alla Conadep riferiscono di torture e assassini di bambini più grandi. "Il paese" afferma la relazione Nunca Más, "è stato disseminato di corpi di persone non identificate, sepolte individualmente o collettivamente, in forma illegale e clandestina. Si trovano nei cimiteri, in aperta campagna, nei fiumi, nelle dighe e, secondo quanto abbiamo visto, anche nel mare. Questa constatazione raggiunge attualmente una dimensione inimmaginabile rispetto a un anno fa, quando alcune prove isolate alimentarono l'illusione che un simile quadro non potesse costituire l'indizio di una pratica generalizzata. Senza dubbio, ora l'evidenza ci è chiara, arrivando negli ultimi mesi alla diffusione quasi quotidiana di testimonianze, incartamenti legali e articoli giornalistici che hanno dato conto dei ritrovamenti." Intorno ai desaparecidos si era costruito un muro di silenzio. Alcuni venivano persino abbandonati dalle famiglie che, sotto la pressione di continue minacce e richieste di denaro, vivevano nel terrore di rappresaglie. Il clima di terrore instaurato dalla dittatura fece sì che gli argentini, pur vivendo un'esistenza apparentemente normale continuavano infatti ad esservi file davanti ai cinema e ai teatri, e i ristoranti erano frequentati come di consueto cominciassero a sentire che la prossima vittima poteva essere una persona qualsiasi, che ogni poliziotto, ogni giudice, poteva essere un nemico, e che dunque era meglio non compromettersi in alcun modo. Gli attivisti sindacali iniziarono a sparire dalle fabbriche. A volte, furono gli stessi datori di lavoro a fornire ai militari le liste dei lavoratori 'sospetti'. Nel corso del processo che si tenne in Italia nel 2000 per la scomparsa di otto italoargentini, Victor de Gennaro, segretario della Cgt, ebbe modo di spiegare come molti tecnocrati, pur non sporcandosi direttamente le mani, furono responsabili della violenza che insanguinò il paese. Nel 1976, alla Ford, "furono presi trentatré delegati sindacali, che vennero interrogati all'interno della fabbrica e alle cui famiglie, dopo i cinque giorni regolamentari, fu recapitata la lettera di licenziamento per assenza ingiustificata. Di quei trentatré desaparecidos, solo tre ricomparvero vivi." Fu poi la volta dell'epurazione all'interno del sistema scolastico. "Fino a ora" dichiarò il generale Acdel Vilas, "abbiamo solo sfiorato la punta dell'iceberg nella nostra guerra contro la sovversione... Adesso è necessario distruggere le fonti che alimentano, formano e indottrinano il delinquente sovversivo, e queste fonti si trovano nelle università e nelle scuole secondarie." Il governo militare argentino modificò i programmi di studio universitari ed eliminò le facoltà di sociologia e filosofia. Lo studio della psicologia e dalla psicoanalisi e in particolare di Lacan venne considerato di per sé una pratica sovversiva. Venne vietato l'uso di tecniche freudiane negli ospedali psichiatrici e imposto un rigido codice morale di censura sulle opere cinematografiche, teatrali e letterarie. La musica rock fu proibita, così come la pittura astratta, considerata 'degenerata'. Sulle università e sui licei si abbatté un'ondata di delazioni e sequestri. Solo al Colegio Nacional di Buenos Aires colpevole di aver diplomato Ernesto Che Guevara durante la dittatura militare vennero sequestrati, torturati e uccisi novantanove studenti. I due terzi dei desaparecidos aveva tra i venti e i trent'anni. | << | < | > | >> |Pagina 119Quando avete saputo dell'esistenza dei campi? Hebe Già nel '77, i campi hanno cominciato a essere una cosa che tutti sapevano ma nessuno vedeva. Dove sono? Nelle guarnigioni dell'esercito? Nei commissariati? Sembrava una menzogna. Poco per volta, noi Madri ci siamo convertite in investigatori privati e ci siamo rese conto che i campi di concentramento erano nascosti ovunque: nei commissariati, nelle case private, nei garage, negli alberghi, nelle palestre dell'esercito, nelle fabbriche delle multinazionali che prestavano i loro capannoni e i loro camion per sequestrare, torturare e massacrare i nostri figli. Però quanti fossero gli scomparsi, la precisa collocazione dei campi, i nomi dei responsabili, tutto questo lo capimmo solo dopo anni e anni di lavoro e di ricerche. Trentamila scomparsi sembra... è quasi una città. Quindicimila esecuzioni sommarie. Ottomilanovecento prigionieri politici rinchiusi nelle carceri sinistre della dittatura. Un milione e mezzo di uomini e di donne in esilio. Un paese rovinato, schiacciato, sottomesso, terrorizzato. Scoprimmo poco per volta che i campi di concentramento avevano diverse dimensioni: quelli nei commissariati erano piccoli, contenevano fino a settanta, ottanta persone; poi c'erano i campi di concentramento dell'Esercito e della Marina. La Scuola di meccanica della Marina fu il campo di concentramento più grande, dove passarono cinquemila prigionieri, torturati per giorni e giorni, tenuti in condizioni tremende. Quando arrivavano donne incinte, i sequestratori aspettavano che partorissero per prendersi i loro figli. Hanno fatto cose impossibili da pensare. Fino a quel momento, i campi di concentramento erano una cosa sconosciuta, per noi, in Argentina. Li conoscevamo, certo, come tutti, per quello che il nazismo aveva fatto agli ebrei, agli oppositori politici, agli zingari, agli omosessuali, ma non pensavamo che un giorno i nostri figli ci sarebbero finiti dentro, uccisi, torturati. Il mondo deve sapere che i militari argentini furono profondamente nazisti, e che vennero aiutati dagli Stati uniti a mettere a punto tecniche di tortura sempre più raffinate. Gli Stati uniti hanno addestrato i militari argentini a torturare e a eliminare gli oppositori. Quando noi Madri abbiamo cominciato a sapere quello che succedeva lì dentro, non volevamo crederci. Portavano dei giovani incappucciati alle feste della Polizia, della Marina, dell'Esercito, così, per divertimento, e lì li torturavano, li violentavano. Si divertivano in questo modo, tanto erano criminali, tanto erano perversi. Anche se le conosciamo, noi non raccontiamo mai le torture che hanno subito i nostri figli, perché sentiamo che così li torneremmo a violare; è una cosa troppo intima, non si può raccontare.
Ci volle tempo perché cominciassimo a farci un'idea delle reali dimensioni
dell'orrore in cui vivevamo, perché all'inizio c'era ben poca gente disposta a
parlare. Quei pochi prigionieri che uscivano vivi dai campi non volevano dire
nulla, tanto erano terrorizzati. E poi tieni conto che i militari utilizzavano
anche dei detenuti messi in libertà, per infiltrarsi tra
di noi, perciò non potevamo accettare tutto quello che dicevano, senza averne
delle prove. C'era una donna che ci aiutava, che ci accompagnava a tutte le
marce; le avevano sequestrato il marito e, per lasciarlo libero, le avevano
chiesto di infiltrarsi nelle Madri. Dopo un po', poverina, non ha più
retto e ce lo ha raccontato; ci ha detto che le chiedevano di
riferire chi tra di noi fosse la più forte, chi quella che prendeva le
decisioni, chi parlava di più della propria famiglia,
chi ne parlava di meno... Incredibile. Abbiamo passato di
tutto. Questa donna ci ha assicurato che i militari riconoscevano perfettamente
le nostre facce, che sapevano dove abitavamo, le nostre abitudini... altroché
parrucche, altroché nomi delle pasticcerie camuffati! Non è stata l'unica volta
che siamo state infiltrate, a parte Astiz; ce ne furono altre ancora.
I campi nascosti Nei trecentoquaranta campi individuati dalla Conadep, il cui numero aumenta di anno in anno, passarono circa trentamila persone, più del 90% delle quali furono assassinate. "I centri di detenzione" si legge nella relazione finale di Nunca Más, "costituirono la base materiale indispensabile per la politica di scomparsa delle persone. Di lì passarono migliaia di uomini e di donne, privati illegalmente della libertà [...]; lì si trovavano quando le autorità rispondevano negativamente alle richieste d'informazione nei ricorsi di habeas corpus; lì trascorrevano i loro giorni alla mercé di altri uomini dalla mente sconvolta per la pratica della tortura e dello sterminio. [...] Le caratteristiche fisiche di quei centri, la vita quotidiana al loro interno, rivelano che furono pensati, prima ancora che per dar morte alle vittime, per sottoporle a un minuzioso e programmato annientamento degli attributi propri di ogni essere umano. Entrare in quei centri significò sempre SMETTERE DI ESSERE; a tal fine si cercò di distruggere l'identità dei prigionieri, si modificarono i loro punti di riferimento spazio-temporali, furono maltrattati i loro corpi e le loro menti oltre ogni limite immaginabile." Pur nel rispetto della scelta delle Madri di non parlare della tortura, di non indugiare in racconti che continuino a riverberarne l'orrore, è necessario comprendere cosa accadde ai desaparecidos attraverso le parole dei prigionieri che riuscirono a sopravvivere. Tutte le testimonianze sono diverse e, più che servire da esempio, sono frammenti di un unico quadro; bisognerebbe ascoltarle tutte, e anche allora non basterebbe a capire, se non altro perché continuerebbe a mancare il racconto dei 'sommersi', di quegli uomini, di quelle donne che, portati fino al limite dell'atroce, morirono sotto le torture o vennero gettati ancora vivi nei fiumi e nell'oceano. Valgano per tutte le considerazioni scritte con implacabile lucidità da Jacobo Timerman, direttore del giornale "La Opinión", sequestrato perché ebreo le torture che subì miravano infatti a fargli confessare inesistenti piani sionisti per la conquista della Patagonia e perché a capo di un quotidiano che, per quanto moderato e inizialmente favorevole all'avvento dei militari, non si piegò al silenzio e al servaggio imposti dalla giunta. "Durante i lunghi mesi di prigionia ho spesso pensato a come riferire il dolore provocato dalla tortura. E ho sempre concluso che non è possibile riuscirci. Θ un dolore privo di punti di riferimento, di simboli rivelatori, di segnali d'indicazione. L'uomo viene spostato così rapidamente da un mondo all'altro che non ha modo di attingere a una riserva d'energia per far fronte a tanta scatenata violenza. Θ questa la prima fase della tortura: cogliere l'uomo di sorpresa, senza consentirgli nessuna istintiva difesa, neppure psicologica. All'uomo le mani vengono chiuse dai ferri, dietro la schiena; gli vengono bendati gli occhi. Nessuno dice una sola parola. L'uomo viene sommerso da una gragnola di colpi. Viene buttato a terra e qualcuno conta fino a dieci, ma non viene ucciso. L'uomo viene condotto a quella che potrebbe essere una branda di telaccia, o un tavolo; viene denudato, irrorato d'acqua, legato alle estremità della branda o del tavolo, braccia e gambe allargate. E comincia l'applicazione delle scariche elettriche. Il quantitativo di elettricità trasmesso dagli elettrodi o come si chiamano è regolato affinché faccia male soltanto, o bruci, oppure distrugga. Θ impossibile gridare, si ulula. Quando comincia il lungo ululato dell'uomo, qualcuno con morbide mani gli controlla il cuore, qualcuno ficca una mano nella sua bocca per estrarne la lingua e impedire che l'uomo soffochi. Qualcuno introduce un pezzo di gomma nella bocca dell'uomo per impedire che si morda la lingua o che si distrugga le labbra. Una pausa breve. E poi tutto comincia daccapo. Questa volta accompagnato da insulti. Una pausa. E poi le domande. Una pausa. E poi parole di speranza. Una pausa. E poi insulti. Una pausa. E poi le domande." La scomparsa, il meccanismo della scomparsa, aveva un suo ben congegnato rituale, sempre pressoché identico. Cambiavano gli uomini, cambiavano i luoghi, ma non la sequenza sequestro-prigionia-tortura. Generalmente strappati dalle loro case nel cuore della notte, i prigionieri venivano buttati sul pavimento di un'automobile, bendati e condotti in luoghi non molto distanti che, quando non erano caserme attrezzate, prevedevano comunque una sala di tortura costituita da una cucina riattata o da un'ampia cella dove potesse essere fatto arrivare un cavo elettrico. Le prime brutali percosse, l'immediata sessione di tortura, erano di rigore per 'ammorbidire' i prigionieri, fiaccarne la resistenza e impedire ogni tentativo e persino ogni fantasia di fuga. Tutto doveva dire che c'era stata una cesura irrecuperabile con il mondo di fuori, e che nel 'dentro' vigevano altre regole, regole assolute, in cui le vittime erano in totale balìa dei carnefici. Privato del suo nome e dotato di un numero di identificazione, il detenuto passava a essere un ulteriore corpo che l'apparato del campo era preposto a controllare. Le sue condizioni di prigionia, prima e dopo le sessioni di tortura, erano simili per tutti i prigionieri, in tutti i campi. Razioni di cibo appena sufficienti a mantenersi in vita, manette, cappuccio sulla testa, obbligo a restare immobili per ore, divieto di scambiare una sola parola con gli altri prigionieri, pena ulteriori violenze. | << | < | > | >> |Pagina 196Il coraggio per gli altri
Ci volle molto coraggio per continuare a far sentire la propria
voce, in quegli anni.
Beba
Certo, fu necessario avere un grande coraggio, ma il coraggio ce lo diedero
i nostri figli. Nel paese molti furono paralizzati dalla paura, altri non
mossero un dito perché erano fascisti, e altri ancora furono semplicemente
indifferenti. Fino a quando toccò a loro; quando toccò a loro, allora smisero di
essere indifferenti.
Il vostro coraggio, però, riuscì a dare coraggio anche ad altri. Hebe
Demmo coraggio anche agli altri, è vero: il coraggio di uscire
nello spazio pubblico. Ma devo dirti che il nostro non era coraggio... credo di
no; piuttosto penso che fosse decisione,
chiarezza su quello che volevamo. Il coraggio è un'altra cosa.
Per noi è essenziale agire, non solo pensare; siamo convinte di
quello che facciamo e di quello che vogliamo, ed è questo a
darci la forza. Non è stato facile, questo è sicuro. Il mondiale,
che per tanta gente era stato una festa, per noi aveva rappresentato il terrore.
Ci misero in galera più spesso, ci aizzarono
contro i cani, e noi, per difenderci, imparammo a usare un
giornale arrotolato. Cercavano di disperderci con i gas lacrimogeni, e noi
imparammo a portare con noi una bottiglietta
d'acqua e del bicarbonato. Ci sono tante cose che bisogna imparare, quando si
lotta. Θ stata la piazza a insegnarcele. Ogni
giovedì arrestavano qualcuna di noi, e così decidemmo che
avrebbero dovuto arrestarci tutte. Salivamo a forza sulle auto
della polizia, oppure seguivamo i cellulari dove avevano caricato le nostre
compagne e ci presentavamo al commissariato.
Entravamo e ognuna di noi diceva,
signor commissario, voglio essere arrestata anch'io.
Ci mostravamo ingenue, non facevamo azioni di protesta palesi, ma gli creavamo
un tale scompiglio che quelli non sapevano più che pesci pigliare e alla fine ci
rilasciavano. Ma non tutte insieme; una alla volta, e magari nel
cuore della notte, o all'alba. C'erano madri talmente coraggiose da piazzarsi
fuori dal commissariato e non andarsene fino a
quando non avevano rilasciato l'ultima. A quei tempi non avevamo un avvocato, e
di certo non avevamo il sostegno dei politici. Eravamo completamente sole. Però
una cosa sapevamo: che non volevamo farci intimidire. Loro ci arrestavano, e noi
il giovedì successivo eravamo di nuovo in piazza. Ci arrestavano,
e tornavamo, e loro dicevano,
eccole lì, le pazze.
Credevano di insultarci, ma per noi non era un insulto. Qualcuno ci chiama
così ancora adesso, "le vecchie pazze di Plaza de Mayo". Perché no? Lo dico
sempre, ci vuole un po' di pazzia per affrontare quello che abbiamo affrontato.
Noi avevamo la nostra pazzia, e i militari il loro ordine, che cercavano
disperatamente di mantenere. A disarmarli, era proprio il nostro modo di
scardinare quello che per loro era normale. Ci portavano dentro e procedevano
con i loro interrogatori, come gli avevano insegnato.
Che idea ha di suo figlio?
mi domandò una volta un poliziotto.
Molto buona,
risposi io. E quello scriveva tutto. Scrisse,
molto buona,
e poi mi fece firmare. C'è da ridere, no?
Queste cose, facevamo. Avevamo molti anni meno, avevamo
quarantacinque, cinquant'anni.
Beba
In quel periodo ci fermavamo in piazza solo per qualche minuto, il tempo di
affermare che non l'avremmo persa. Entravamo in tre o quattro, facevamo un
rapido giro e poi ci ritiravamo di corsa, ma per noi era una necessità assoluta,
costasse quel che costasse. Dovevamo trovarci ogni giovedì,
per sapere se c'erano delle novità, per parlare tra noi, ma soprattutto per
mantener fede all'impegno che avevamo preso
con i nostri figli: essere lì, in Plaza de Mayo, a dire al mondo
e alla società argentina, così indaffarata a ignorare quello che
succedeva, che non era tutto così normale, come volevano
farci credere; che c'era sempre più gente torturata, che c'erano sempre più
desaparecidos. Ci rincorrevano, ci caricavano,
ci portavano via sui cellulari, ma quando ci ritrovavamo tutte insieme con le
nostre madri arrestate, sapevamo di farli impazzire. Ci sedevamo sul pavimento
del commissariato e cominciavamo a pregare ma, anziché recitare il rosario,
dicevamo,
oh, dio mio, fa' che questi assassini ci ridiano i figli.
La forma della preghiera li spiazzava, perché non potevano impedire a una madre
di pregare. Era una cosa che li mandava in bestia. Più ci colpivano, più ci
perseguitavano, e più noi inventavamo maniere creative per affrontarli. Ma
sempre unite. E stato questo a darci la forza: agire collettivamente,
mai in modo individuale. Ci siamo rese conto fin dall'inizio
che da sole non avremmo mai raggiunto nessun risultato. Loro cercavano di
rompere il collettivo, di dividerci, e noi cercavamo il modo di unirci ancora di
più.
Cota
Ricordo che una volta presero Porota, una delle nostre madri che adesso è la
vicepresidente dell'associazione; voleva a
tutti i costi tirare giù da una camionetta una ragazza che era
appena stata arrestata della polizia. Si mise di mezzo e fece
un tale chiasso che alla fine portarono via anche lei. Allora
tutte noi Madri, accompagnate dalla gente che ci stava accanto, ci precipitammo
al commissariato e restammo piantate li finché non la liberarono. Sapessi quante
storie ci sarebbero da raccontare...
Hebe Il gruppo di Madri di La Plata, oltre che marciare il giovedì a Buenos Aires, marciava ogni mercoledì in piazza San Martin, la piazza principale della nostra città. Per l'anniversario della morte di San Martin, che in quegli anni veniva festeggiato con grande solennità, la piazza era piena di militari; a noi Madri, che volevamo dire alla gente di non pensare solo alle corone di fiori per il santo, ma anche ai nostri figli scomparsi, venne impedito di partecipare. Siccome volevamo passare e i militari ci si paravano davanti a gambe larghe sbarrandoci la strada, gli sgusciammo tra le gambe. Non ti puoi immaginare le loro facce! Non sapevano che cosa fare! Spuntavamo una dopo l'altra dall'altro lato del loro schieramento, e quelli non avevano il coraggio di colpirci. Non potevano credere che stessimo facendo una cosa del genere. E poi avevano in mano gli addobbi floreali per San Martin; mica li potevano buttare in terra. Fu una cosa incredibile! | << | < | > | >> |Pagina 270Il convitato di pietraTanto gli anni della dittatura quanto quelli della democrazia sono segnati dalla scomparsa, che non è morte e non è vita. Quando i militari avevano deciso di tenere segreta la lista dei prigionieri torturati e uccisi, si erano basati su un ragionamento apparentemente ineccepibile: se non si trovano i cadaveri, non si può provare il delitto; se non si può provare il delitto, non si può trovare l'assassino. La scomparsa era garanzia di impunità. Rendendo immateriale la morte, lasciando aperta la speranza dei familiari che la persona sequestrata potesse essere ancora viva in una tortura indefinita, che trascina nel tempo il dolore e l'incertezza la sparizione eludeva il confronto con la società. Quella nuova specie di crimine, tuttavia, non si rivelò ingegnosa come i suoi artefici avevano previsto, perché i desaparecidos non vivi, non morti continuavano a bussare alla porta. La presenza degli scomparsi straordinario ossimoro si era fatta difficile da sostenere già nel 1979, quando i militari avevano deciso di liberarsene con la legge detta de presunción de fallecimiento, basata sul concetto di "morte presunta per assenza" a novanta giorni dalla dichiarazione di scomparsa. "Questa legge" dichiarò il Tribunale permanente dei popoli nella sua sentenza, "tende a fare delle famiglie i complici involontari di una legalizzazione della scomparsa dei prigionieri. Se essi sono ancora in vita, si può immaginare che non resterebbe allora che la loro liquidazione". E aggiunge che quando la pratica delle sparizioni diventa pratica amministrativa, completata da leggi che, come quella del 1979, assimilano gli scomparsi ai defunti, "essa attribuisce all'autorità pubblica un diritto di vita o di morte, e una discrezionalità sulla persona del disperso. Θ allora possibile seguire l'istituto dei Diritti dell'uomo del Barreau di Parigi che [...] dispone che la sparizione forzata o involontaria costituisca un crimine del diritto delle genti (art. 2), vale a dire un crimine di diritto internazionale, secondo la terminologia del primo articolo della Convenzione del 9 dicembre 1948 sul genocidio." La mossa attuata dal potere militare per liberarsi dei desaparecidos, per farli morire simbolicamente, nell'immaginario collettivo il terreno sul quale ormai giocavano la loro partita non ebbe tuttavia l'effetto sperato, e i successivi governi costituzionali si trovarono a propria volta incalzati da un ingombrante esercito di fantasmi che aleggiava su qualsiasi pretesa di normalizzazione. I morti-non morti, come il convitato di pietra, tornavano a presentarsi, e il primo governo eletto decise che fosse venuto, "per il bene della convivenza civile", il momento in cui la società se ne dovesse liberare definitivamente. Affinché i desaparecidos potessero morire davvero, le madri che li avevano messi al mondo e che erano divenute il simbolo del misfatto impunito, dovevano riconoscerne il corpo, seppellirli, elaborare il lutto. Il governo Alfonsín offrì una pensione ai parenti che avessero riconosciuto la scomparsa dei figli, dei genitori o dei fratelli; poi, negli anni Novanta, il governo Menem sarebbe arrivato a proporre un indennizzo di 250.000 dollari, una cifra che poteva contribuire a raddrizzare le sorti economiche di un'intera famiglia. Cominciò così un macabro braccio di ferro, al quale le Madri di Plaza de Mayo risposero, ancora una volta, con rovesciamento: rendendo il passato un eterno presente, in cui l'amore per gli assenti e il risentimento per i colpevoli potesse perpetuarsi nella fissità di una ripetizione scelta e sentita come intimamente morale.
Qualcosa di affine all'eterno ri-sentire di cui parla Jean Améry in
Intellettuale ad Auschwitz
che, proprio esigendo che l'irreversibile venga rovesciato, si fa posizione
etica. "La società si preoccupa della propria sicurezza, non di una vita
lesa: guarda in avanti, nel migliore dei casi per evitare che
qualcosa di simile si ripeta. I miei risentimenti esistono affinché il delitto
divenga realtà morale per il criminale, affinché
egli sia posto davanti alla verità del suo misfatto." A differenza
dell'individuo che si dissolve nel consenso, sostiene
Améry, l'uomo che interpreta se stesso come moralmente unico, mette nel
risentimento la necessità di non accettare che
l'accaduto sia stato ciò che è stato, di non accettare che il tempo, come dice
il buon senso comune, guarisca le ferite. "Nei
due decenni dedicati alla riflessione su ciò che mi accadde,
credo di aver compreso che la remissione e l'oblio provocati
da una pressione sociale sono immorali [...]. Il senso naturale del tempo ha
effettivamente le sue radici nel processo fisiologico del rimarginarsi delle
ferite ed è entrato a far parte della rappresentazione sociale della realtà.
Proprio per questo motivo, esso ha un carattere non solo extramorale, ma
anti-morale. Θ diritto e privilegio dell'essere umano non dichiararsi d'accordo
con ogni avvenimento naturale, e quindi nemmeno col rimarginarsi biologico
provocato dal tempo.
Quel che è stato è stato: questa espressione è tanto vera
quanto contraria alla morale e allo spirito. La resistenza morale ha in sé la
protesta, la rivolta contro la realtà, che è ragionevole solo fintanto che è
morale. L'uomo morale esige la sospensione del tempo; nel nostro caso,
inchiodando il misfattore al suo misfatto."
"Nessuno darà un prezzo alla vita dei nostri figli" Beba
Alfonsín cominciò a mandarci dei telegrammi in cui diceva
che gli dispiaceva tanto, ma i nostri figli erano morti e si trovavano
seppelliti nel tale o nel tal altro cimitero. Ad alcune
di noi cominciarono ad arrivare delle casse con dei resti
umani, accompagnate da una lettera in cui era scritto che si
trattava dei nostri figli. Fu un dolore inimmaginabile. Ci riunimmo e ci sedemmo
a piangere, ma alla fine prendemmo la
decisione di rifiutare quella che loro chiamavano 'riesumazione di cadavere'. Ci
avevano portato via i figli vivi, e volevano restituirci dei cadaveri. Non
glielo avremmo permesso; non senza che qualcuno pagasse per quello che avevano
fatto. Se avessimo accettato l'esumazione di quei morti, che loro dicevano
'uccisi in combattimento', nessuno sarebbe più
stato responsabile del loro sequestro, delle torture, dell'assassinio. Non ci
sarebbero stati più desaparecidos, ma salme; il reato di scomparsa sarebbe
caduto in prescrizione, non ci sarebbe più stato bisogno di cercare i colpevoli.
Ancora oggi, restiamo l'unica organizzazione che continua a rifiutare una simile
vergogna: la consegna di un morto, senza
che ti venga detto come è morto, per mano di chi. Non è facile per una madre
prendere una decisione come questa. Vi furono molte giornate di riunioni e di
discussione per decidere che bisognava rifiutare le esumazioni. Era quello il
punto finale, più ancora della legge che avrebbero istituito
poco dopo: volevano che tutte noi accettassimo la morte,
senza spiegazioni.
Hebe
Il primo presidente costituzionale non fece altro che riprendere la
Ley de presunción de fallecimiento
e offrire una piccola pensione, un indennizzo economico ai parenti dei
desaparecidos che ne avessero certificato la morte. Quando
noi Madri rifiutammo l'esumazione di cadavere e la riparazione economica, si
aprì un grande dibattito nella società,
perché tutti si interrogavano se dovessimo accettare o meno.
Siccome noi rifiutavamo, cominciarono a rivolgersi alle singole madri dicendo,
suo figlio sta lì, in quel cimitero, in quella fossa comune.
Un giorno mi trovavo con un gruppo di madri di Mar del Plata, e proprio quel
mattino una di loro ricevette una cassa con dei resti umani, le dissero che era
quello che rimaneva di sua figlia. A un'altra madre di La
Plata mandarono due mani in una scatola, dicendo che erano state identificate
con il Dna. Era una cosa impossibile da
pensare, tanto era macabra e perversa. Facemmo una dichiarazione pubblica in cui
dicemmo a chiare lettere che la prossima cassa che fosse arrivata a una di noi,
l'avremmo portata direttamente ad Alfonsín, alla Casa rosada. E si
fermò tutto; di colpo non arrivarono più casse. Certo, alcune madri, quando
ricevevano una lettera che diceva che la
figlia o il figlio si trovavano nel tal cimitero, o nella tale fossa comune, e
che potevano essere riesumati perché si desse
loro sepoltura, passavano le notti intere a pensare su cosa
fosse giusto fare. Noi, come Madri, non volevamo le tombe,
ma ci era chiaro che se qualche madre singola, a titolo personale, avesse voluto
far tumulare la figlia o il figlio, sarebbe stata del tutto libera di farlo.
Deve essere difficile rinunciare a un luogo dove andare a trovare una persona cara. Si discusse molto con gli psicologi sul tema del lutto, visto che loro sono piuttosto ferrati su questo argomento; credono che debba esserci l'elaborazione, e tutto il resto; per loro deve essere così, e non in un'altra maniera, ma noi gli abbiamo mostrato che l'altra maniera esiste, perché non abbiamo elaborato nessun lutto, e non siamo malate, né depresse, né vinte; tutto il contrario. Hanno dovuto riconsiderare le loro teorie per poter parlare con noi. Perché noi abbiamo convertito il dolore in lotta. Non vogliamo cimiteri, non vogliamo quello che il sistema capitalista, occidentale e cristiano, ci dà: la tomba, i fiori, i ceri, il marmo. Abbiamo visto che molto denaro viene sprecato in questo modo, e potrebbe essere usato meglio, per dare da mangiare ai bambini che vivono in strada. L'università di La Plata ha messo all'ingresso un pezzo di marmo con i nomi dei desaparecidos, con un lumino, ed è più abbandonato del cimitero. I ragazzi che vanno lì a studiare non sanno niente dei nostri figli, nessuno gliene parla, mentre noi madri vogliamo che sappiano chi sono stati, perché sono diventati desaparecidos. I giovani passano di lì e non sanno cosa è successo. Cos'è questa lapide? Cos'è quel nome? Non sanno niente.
Per noi, gli unici morti sono i militari assassini, morti in
vita perché il popolo li ripudia; i nostri figli invece sono vivi
in ogni occupazione di terra, in ogni blocco stradale, in ogni
mobilizzazione, in ogni richiesta di giustizia, in ogni giovedì
in piazza.
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