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| << | < | > | >> |IndiceRINGRAZIAMENTI PREFAZIONE 7 PREMESSA 9 INTRODUZIONE 15 1. LA «RAZIONALITÀ» DEL MERCATO 23 Razionalità, efficienza e desiderabilità sociale 23 La razionalità allocativa del mercato 26 Il teorico del sovrano e i «successi» del capitalismo 32 Sovranità limitata e assoluta 37 La razionalità distributiva del mercato 38 2. MERCATO E DEMOCRAZIA 41 Il mercato come meccanismo di decisione collettiva 41 Giudizi di valore e neutralità scientifica 43 La razionalizzazione ex post dell'economista 44 La dicotomia libertà-coercizione 47 La dicotomia mercato-democrazia 50 3. IL MERCATO E I SUOI MITI 53 Il mito del mercato giusto (il mercato come meccanismo incentivante) 53 Il mito del mercato libero (il mercato senza rapporti di potere) 55 Il mito del mercato di pari opportunità (il mercato senza classi) 61 Il mito del mercato produttore di ricchezza (il mercato come meccanismo di disciplina) 64 Il mito del mercato che scopre e gestisce l'informazione (il mercato come sistema di segnali) 69 4. MERCATI TEORICI E MERCATI REALI 81 Il modello di equilibrio economico generale e i teoremi del benessere 82 Le ipotesi metodologiche 87 Esistenza e Pareto efficienza dell'equilibrio concorrenziale 96 Unicità e stabilità dell'equilibno concorrenziale 99 I fallimenti del mercato 103 Le risposte della teoria neoclassica ai fallimenti del mercato 110 L'inefficienza dei mercati reali 117 5. I PROLUNGAMENTI DELLA TEORIA NEOCLASSICA 119 Le teorie neoistituzionalista e neokeynesiana 120 La teoria radicale e i rapporti di potere e di sfruttamento 125 6. I VALORI DEL MERCATO 133 L'universalizzazione dei valori del mercato 133 Valori morali e interessi economici 140 La vittoria culturale della nuova destra 145 Apparenza ed essenza nei rapporti di mercato 149 7. CHE FARE? 155 Lotta di classe e bene comune 155 Bisogni insoddisfatti e sovrapproduzione 162 Razionalità sociale e pianificazione 165 Prezzi di mercato e prezzi amministrati 169 Valori d'uso e valori di scambio 172 Valori borghesi e valori comunisti 173 Demercificazione, democrazia e comunismo 175 8. CONCLUSIONI 179 Note 183 BIBLIOGRAFIA 189 GLOSSARIO 195 |
| << | < | > | >> |Pagina 9In questo libro si intrecciano questioni economiche, politiche, ideologiche e morali. Esso è, comunque, prima di tutto, un libro di economia o, più precisamente, di economia critica. A differenza dell'impostazione oggi dominante nella teoria economica, il libro non ha alcuna pretesa di universalità, né aspira a fornire una visione unanimemente condivisibile dei rapporti economici e sociali esistenti. Al contrario, esso si basa sul presupposto che i rapporti economici capitalistici siano per loro natura conflittuali e che non abbia perciò senso rivendicare la superiorità di una particolare visione del mondo, né ricercare soluzioni teoriche che possano considerarsi unanimemente soddisfacenti. Questa posizione teorica si scontra apertamente con l'autoproclamazione di neutralità scientifica operata dalla teoria economica dominante. Quest'ultima respinge infatti nettamente l'introduzione di giudizi di valore, considerandoli incompatibili con la scientificità stessa dell'economia. Per questo motivo gli economisti non amano parlare dei giudizi di valore e del ruolo dell'ideologia nella teoria economica. Il problema è che evitare di discutere esplicitamente i valori su cui si fonda l'economia politica non è sufficiente ad allontanare i giudizi di valore dalla teoria economica e serve solo a far passare come neutrali prescrizioni scientifiche dal contenuto necessariamente ideologico. La pretesa oggettività che caratterizza l'economia borghese è perciò rifiutata e combattuta esplicitamente sul piano teorico. Questo, ovviamente, non significa che le critiche che avanzerò sono valide soltanto se si sposa una particolare posizione etica o politica. La critica si sviluppa, infatti, attraverso un processo di demistificazione delle posizioni teoriche dell'economia borghese mirante ad esplicitare gli interessi economici che essa riflette e le convenienze politiche che si nascondono dietro le sue prescrizioni normative. Questo lavoro non richiede l'adozione di alcuna sfera morale o impostazione ideologica particolare. Si tratta semplicemente di esplicitare i valori guida dell'azione economica e politica che, per ragioni di convenienza o incompetenza, sono tenuti impliciti dai soggetti interessati e dai cosiddetti «esperti» nei loro discorsi economici e politici. Avendo rifiutato la presunta oggettività della teoria economica, nelle parti di questo libro dal contenuto maggiormente propositivo, anche se mi limiterò a considerare le proposte dirette a superare le critiche sviluppate, non farò però alcuno sforzo per nascondere i miei giudizi di valore e le mie convinzioni politiche, né esiterò a discutere in modo esplicito i diversi sistemi di valori morali e le diverse posizioni politiche che si confrontano e si scontrano oggi nelle aule parlamentari, nelle sedi internazionali e, soprattutto, nelle piazze (ma, ahimé, sempre meno nei dibattiti scientifici). Come sosteneva l'economista svedese Gunnar Myrdal, l'oggettività nella ricerca sociale non può mai essere assoluta e universale poiché riflette necessariamente, se non altro nella definizione del problema da analizzare e nella scelta degli strumenti di analisi (ma a volte anche nelle conclusioni teoriche), le convinzioni e i valori del teorico, i quali, in un mondo fatto di interessi contrastanti, non possono in alcun modo considerarsi al di sopra delle parti [Myrdal 1973]. Di fronte a questa situazione, tutto ciò che si può fare sul piano della correttezza metodologica è affrontare il discorso dei valori in modo esplicito, dichiarando le proprie motivazioni e precisando le implicazioni teoriche che derivano dalle diverse premesse ideologiche. È ovvio che, nel dibattito sulla costruzione di un sistema sociale ed economico che risponda meglio ai principi morali ritenuti più opportuni, non c'è ragione di aspettarsi un consenso unanime di tipo morale o politico. Al contrario, è del tutto auspicabile che le diverse concezioni e le diverse preoccupazioni e aspirazioni degli attori politici si confrontino in modo aperto. Da questo punto di vista, non mi aspetto certo che le riflessioni morali e politiche che qua e là introdurrò siano immuni da critiche provenienti da impostazioni diverse. Questo però non tocca il processo di demistificazione generale che vuole essere il vero contributo scientifico di questo libro: la critica del sistema economico e sociale esistente e delle sue rappresentazioni mistificate non dipende, infatti, minimamente dall'adozione di una particolare sfera morale. Questo pone la demistificazione al sicuro dalle critiche cui vanno incontro i tentativi puramente ideologici di moralizzazione della società, la cui efficacia rimane subordinata all'adesione in partenza ad una particolare ideologia. In qualche modo, quindi, dal punto di vista politico, il presente lavoro si pone un obiettivo solo minimale, consistente nel portare alla luce i valori che guidano l'intervento economico e quello politico, come premessa indispensabile per un ripensamento più generale della logica capitalistica di interazione sociale. Nell'affrontare esplicitamente il discorso dei valori, l'ostacolo forse più grande è costituito dalla superficialità con cui le questioni ideologiche e di filosofia morale sono trattate nel dibattito politico ed economico. Da questo punto di vista, il pensiero neoliberista, con i suoi richiami a valori incontestabili quali appunto la libertà, costituisce oggi la forma più avanzata di mistificazione del discorso ideologico e morale. Sul piano filosofico, la dottrina liberale non implica affatto la difesa di un mondo in cui tutto è permesso, in cui tutti i diritti sono posti sullo stesso piano. Al contrario, la difesa di alcuni diritti ritenuti fondamentali richiede necessariamente l'imposizione di vincoli, di restrizioni alla libertà di condotta di ciascuno. Ci sono valori che possono essere messi in discussione e altri che invece, secondo il liberalismo (ma anche secondo altre impostazioni ideologiche), devono essere considerati di ordine superiore e devono perciò essere trattati come inviolabili e inalienabili. In questo senso, il richiamo alla libertà come valore fondamentale, senza specificazioni e senza contestualizzazioni, non significa niente. La libertà di uccidere non può essere posta sullo stesso piano della libertà di restare in vita. La libertà di uno stato di occupare militarmente i territori di altri popoli non è come la libertà di un popolo di difendere il proprio territorio. La libertà di comprare e di vendere prodotti sul mercato non è come la libertà di professare le proprie convinzioni politiche o religiose nella società. Esiste una gerarchia nei valori e nei diritti sulla quale è logico che ci sia dissenso e scontro politico ma che sarebbe assurdo rinnegare. Il confronto tra sistemi morali diversi passa per la discussione delle diverse priorità nei valori e nei diritti, ma non si può ragionare come se le diverse forme di libertà avessero tutte pari dignità morale. Primo, perché in un mondo di interazioni complesse, la libertà dell'uno è il vincolo dell'altro. Secondo, perché la garanzia di certe libertà si ottiene soltanto ponendo norme, regole e vincoli che necessariamente restringono altri tipi di libertà. Ma il vero paradosso è che nella sfera economica è proprio la libertà nei rapporti di mercato che porta a calpestare tutti i diritti, anche quelli che, ad una riflessione in termini di valori, si vorrebbero inviolabili e inalienabili. Con la trasformazione di ogni rapporto sociale in un rapporto di mercato, i diritti, anche quelli considerati moralmente inalienabili, ricevono un prezzo, al quale possono essere appunto alienati. La salute, secondo molti, non ha prezzo. Eppure quando si crea un mercato per le cure ospedaliere o per le medicine, si fissa un prezzo per la salute e chi non può permettersi di pagarlo è di fatto privato del suo diritto alla salute. La libertà (di alcuni) di fare profitti aumenta e quella (di altri) di crescere sani o di morire dignitosamente diminuisce. La trasformazione della filosofia liberale in dottrina economica improntata al mercato (o, per dirla diversamente, il passaggio dal liberalismo al liberismo) incorpora perciò una contraddizione profonda sulla quale credo che valga la pena di tornare a ragionare. Innalzando la libertà economica a valore assoluto, il liberismo finisce semplicemente per calpestare tutte le altre sfere delle libertà individuali. | << | < | > | >> |Pagina 21Il libro è strutturato in otto capitoli. Nel primo capitolo, critico la visione borghese che vede il mercato come massima espressione di razionalità ed efficienza, esplicitando i significati particolari che questi termini assumono nel discorso scientifico e mostrando il loro contenuto fortemente ideologico. Questa visione accomuna tutte le teorie di matrice liberista. L'attenzione si concentra tuttavia sulla teoria economica dominante, la teoria neoclassica.Nel secondo capitolo, discuto i rapporti tra democrazia e mercato, sostenendo che essi sono in realtà contraddittori. In particolare, evidenzio il carattere antidemocratico dell'interazione di mercato e critico il metodo dell'economia borghese per i suoi surrettizi contenuti ideologici e per la sua visione idealizzata (e falsa) del mercato. Nel terzo capitolo, considero alcuni dei principali miti del mercato (il mito del mercato giusto, il mito del mercato libero, il mito del mercato di pari opportunità, il mito del mercato produttore di ricchezza e il mito del mercato che scopre e gestisce l'informazione) criticandoli sia su un piano di coerenza interna, sia su un piano di realismo. Questi miti non sono in realtà una peculiarità della teoria economica. Al contrario, essi sono ampiamente radicati nella società e sono parte integrante della cultura oggi dominante. In campo accademico è soprattutto la scuola austriaca a tentare di fornirne un supporto scientifico. Il quarto capitolo approfondisce i rapporti tra mercati teorici e mercati reali e il salto logico che si compie quando si costruiisce una teoria normativa dei mercati a partire da modelli fondati su ipotesi irrealistiche. L'analisi si concentra sulla teoria neoclassica e, in particolare, sul modello di equilibrio economico generale, il quale costituisce il contributo organico più importante sviluppato da questa scuola di pensiero nel tentativo di spiegare e valutare il funzionamento di un sistema economico interamente basato sul mercato. Data l'importanza della scuola neoclassica a livello accademico, nel quinto capitolo mi soffermo su alcuni dei contributi scientifici più importanti che tentano di sviluppare la concezione neoclassica oltre i confini del modello altamente astratto di equilibrio economico generale. In particolare, analizzo gli sforzi delle scuole neoistituzionalista, neokeynesiana e di una parte della scuola radicale di reinterpretare in chiave neoclassica le «vecchie» teorie istituzionalista, keynesiana e marxista, oggi relegate nell'eterodossia accademica. Il mio tentativo è quello di dimostrare come tali appendici della teoria neoclassica non solo stravolgano le concezioni delle vecchie scuole eterodosse (decisamente critiche nei confronti del mercato), ma non siano nemmeno in grado di offrire un solido supporto scientifico alle supposte virtù del mercato. Nonostante i problemi fin qui evidenziati, nel sesto capitolo sostengo che l'economia borghese, con le sue diverse correnti interne e scuole di pensiero, mette a segno un importante successo nell'imporre i valori del mercato a livello culturale, facendoli apparire come oggettivi e neutrali. A partire da questa serie di considerazioni critiche, nel settimo capitolo affronto il problema del «che fare» per contrastare questa tendenza al dominio totalizzante del mercato nei rapporti sociali, proponendo una controffensiva basata sulla demercificazione progressiva dei rapporti sociali. Nell' ottavo capitolo, riordino le diverse critiche e tiro alcune conclusioni. | << | < | > | >> |Pagina 81La critica del mercato che ho sviluppato finora riguarda innanzi tutto quegli schemi che si trincerano dietro la costruzione di mercati ideali. Questi schemi, proprio attraverso l'idealizzazione del mercato, credono infatti di poter fornire una rappresentazione che dia ragione delle virtù del mercato. Tuttavia, oltre a fallire tale obiettivo, un simile approccio si espone ad un altro tipo di critica che riguarda i rapporti tra teoria e realtà. Tutti i supposti benefici del mercato fanno riferimento solo a mercati idealizzati che non sono mai esistiti nella realtà; ma quando affidiamo un certo spazio allocativo al mercato dobbiamo necessariamente chiamare in campo i mercati reali. Perciò, se si vuole difendere una società fondata sul mercato (o anche semplicemente una società che affidi un certo spazio al mercato), si dovrebbe innanzi tutto spiegare perché i mercati reali sono desiderabili e non solo perché sono desiderabili i mercati ideali. E invece la (presunta) desiderabilità del mercato riguarda sempre modelli teorici che poco hanno a che fare con i sistemi di mercato reali. Non si tratta semplicemente di un problema di realismo, ma di un autogol teorico dell'economia borghese. Basterebbe infatti riflettere sulla distanza incolmabile tra le ipotesi del modello teorico e le caratteristiche del mondo reale per rendersi conto che, proprio nella misura in cui il mercato teorico possa considerarsi razionale, efficiente o desiderabile, i mercati reali sono necessariamente irrazionali, inefficienti e indesiderabili. | << | < | > | >> |Pagina 95Con l'introduzione di queste ipotesi bizzarre si comincia a delineare una singolare divisione dei compiti tra economista teorico, economista metodologico e apologeta politico. Il teorico introduce le ipotesi a lui più comode, con la sola condizione che, a partire da esse, la tesi risulti dimostrata in modo rigoroso. Questo modo generale di fare teoria è difeso dall'economista metodologico, il quale sostiene che è solo nella fase applicativa che si pone il problema del realismo delle ipotesi, ma che, in senso astratto, la validità di una teoria dipende solo dalla sua coerenza interna. Il politico, forte del suo diritto all'incompetenza tecnica, prende il risultato del teorico (la tesi) e ne trae le debite conclusioni applicative.Di fronte a questa situazione, si va prima di tutto dal teorico a chiedere spiegazioni sulle ipotesi introdotte. Ma la sua risposta non ammette repliche: «io sono solo un teorico e non è mio compito verificare empiricamente la validità delle ipotesi». Allora si attacca l'economista metodologico, responsabile dello scudo protettivo creato al teorico. Ma l'esperto di metodologia fa correttamente notare che una teoria che si basa su ipotesi irrealistiche non è da rigettare poiché anche i risultati in negativo possono essere estremamente utili. Il problema è semmai nell'eventuale uso scorretto che si fa della teoria. A questo punto, sembrerebbe di aver individuato l'anello debole della catena e si va dal politico chiedendogli come mai la tesi (che il mercato funziona) sia da lui enunciata in modo così chiaro mentre nei suoi discorsi non si trovi traccia delle ipotesi necessarie alla dimostrazione. E il politico allora ti rimanda dal teorico: «mica vorrai che sia un politico a discutere le ipotesi introdotte da eminenti scienziati?!». | << | < | > | >> |Pagina 117L'INEFFICIENZA DEI MERCATI REALILe considerazioni sul realismo delle ipotesi di fondo e di contorno necessarie alla Pareto efficienza del modello concorrenziale permettono di apprezzare i limiti di quelle impostazioni che interpretano questo modello come fondamento scientifico della desiderabilità del mercato (teorico). Infatti, a questo punto dovrebbe essere chiaro che il modello di equilibrio economico generale non dimostra solo l'efficienza dei mercati teorici, ma anche l'inefficienza dei mercati reali, vista l'impossibilità in pratica di trovare mercati reali 1) popolati da agenti con particolari preferenze che rispettano gli assiomi della teoria neoclassica e con dotazioni tali da permettere la vita in autarchia (la così detta ipotesi di «sopravvivenza del consumatore»), 2) in cui, per qualche ragione accidentale, non si verificano i problemi di molteplicità e instabilità dell'equilibrio (che la stessa teoria neoclassica non è capace di escludere neanche a livello teorico) e 3) in cui non si presentano fenomeni di rendimenti di scala crescenti, esternalità e beni almeno in parte pubblici (i così detti «fallimenti del mercato»). Ripetere le ipotesi del modello ogni volta che ci si riferisce alle sue tesi non è una perdita di tempo, bensì l'unica garanzia di un uso corretto del metodo logico-deduttivo. La ricerca principe della storia dell'economia borghese consistente nel tentativo di dimostrare la desiderabilità del mercato, culminata nel paradigma di ricerca dell'equilibrio economico generale, non ha dato esattamente luogo a risultati pro-market e questo non tanto perché nelle condizioni astratte in cui il mercato è efficiente, lo è anche la pianificazione centrale (mentre non è valido il contrario, in presenza di rendimenti di scala crescenti, beni pubblici ed esternalità), bensì per via dell'impossibilità concreta di realizzare le condizioni necessarie all'efficienza dei mercati: basterebbe ricordare tutte le ipotesi teoriche che si devono introdurre per garantire l'efficienza del mercato per rendersi conto dei limiti dei mercati reali. E, invece, tutto ciò che rimane nella cultura mistificata delle società di mercato (e, ahimé, nella cultura scientifica degli economisti, i quali, almeno, dovrebbero conoscere le ipotesi dei loro modelli!) è il messaggio che «il mercato funziona», senza specificazioni e senza riferimenti alle ipotesi introdotte. Gli economisti sanno che il loro metodo è astratto e rivendicano forte (su basi metodologicamente discutibili) il loro diritto di introdurre le ipotesi più astruse purché gli sviluppi matematici siano rigorosi. Essi sanno di calarsi in un mondo che non è il nostro quando costruiscono i loro modelli. Eppure, una volta raggiunto un certo risultato, tutto l'apparato analitico, fatto di ipotesi introdotte a diversi livelli di astrazione, smette di fare da contrappeso alla tesi raggiunta e diventa invece la garanzia di scientificità della tesi stessa. E, se una proposizione è scientifica, è anche vera. Così il fatto di aver riempito intere pagine e libri di formule e parole volte a precisare il particolare contesto in cui certe affermazioni hanno validità, invece di ridimensionare la portata del risultato raggiunto, viene presentato come elemento di forza dell'intera argomentazione, dimenticando che tutte quelle parole e quelle formule servivano solo ad allontanare sempre di più il modello dalla realtà. D'altra parte però questo è il prezzo da pagare per arrivare alla tesi della razionalità e dell'efficienza del mercato (pur accettando i significati mistificati di tali termini). | << | < | > | >> |Pagina 175DEMERCIFICAZIONE, DEMOCRAZIA E COMUNISMONel mercato vale la regola «un dollaro, un voto», nella sfera politica delle decisioni collettive vale la regola «una testa, un voto» (nonostante tutte le imperfezioni e i difetti del meccanismo rappresentativo). Il primo principio non è democratico, il secondo sì. E allora tutto quello che si deve fare è ridurre progressivamente il campo in cui è il meccanismo impersonale del mercato a regolare i nostri rapporti ed estendere il campo in cui sono le nostre volontà coscienti a comporsi su basi paritetiche nel formare una scelta collettiva. E la cosa è fattibilissima (anche se disgraziatamente controcorrente): basta sottrarre spazio al mercato, demercificare i beni, le cose, le persone rendendole semplicemente beni, cose, persone, invece che merci e, così facendo, permettere alla società di esprimere le proprie valutazioni sugli usi alternativi delle risorse senza alcun rispetto per la logica dei valori di scambio imposta dal mercato. Fintanto che ci sarà il mercato, ci sarà una violazione della democrazia e, quanto più grande sarà lo spazio del mercato, tanto più grave sarà tale violazione. La realizzazione dei principi democratici, in un contesto in cui si riconoscano i limiti del mercato, passa perciò, a mio avviso, attraverso quattro condizioni interdipendenti: 1. La definizione di procedure democratiche di confronto politico che permettano di stabilire le priorità sociali e gli obiettivi economici da perseguire. (Nel sistema attuale le priorità sociali sono determinate dalle forze autonome e socialmente irrazionali del mercato). Questo vuol dire estendere i meccanismi di decisione collettiva basati sul principio democratico «una testa, un voto» ai diversi campi dell'interazione economica, impedendo nei fatti l'affermazione del principio oligarchico «un dollaro, un voto» vigente nel mercato. A livello istituzionale, la realizzazione di un sistema di democrazia economica reale richiede cambiamenti radicali che permettano di affermare veramente il dominio della politica sull'economia tanto nell'economia reale, quanto nella finanza. Tutte le decisioni economiche (prima quelle strategiche, poi via via tutte le altre) dovrebbero dunque passare sotto il controllo di istituzioni democratiche (e non di istituzioni prive di legittimazione popolare e fintamente super partes, come le banche centrali e gli altri organismi finanziari nazionali e internazionali). 2. L'ampliamento dello spazio economico regolato tramite lo strumento cosciente della pianificazione, a partire da una funzione obiettivo democraticamente determinata, come strumento per fornire ai cittadini i beni e i servizi ritenuti socialmente necessari, secondo le priorità espresse dalla società. 3. La progressiva sostituzione del principio borghese da ognuno secondo i suoi bisogni, ad ognuno secondo le sue capacità (di spesa) vigente nel mercato, col principio comunista da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni vigente in uno stato che razionalizza la produzione in funzione dei bisogni del suo popolo (e non in funzione delle esigenze di accumulazlOne del capitale). Dal lato della spesa pubblica, questo significa garantire l'offerta dei beni e servizi essenziali a un prezzo politico dipendente dal livello di priorità dei bisogni che tali beni e servizi devono soddisfare. Dal lato delle entrate fiscali, si tratta invece di aumentare decisamente la pressione fiscale (condizione necessaria per finanziare l'espansione dei servizi pubblici) attraverso un sistema fortemente progressivo e che penalizzi i redditi da capitale. 4. La progressiva demercificazione dei diversi ambiti della nostra vita: la salute, l'istruzione, la cultura, lo sport, i trasporti e, ovviamente, il lavoro (la forza lavoro in termini marxiani), il quale costituisce il vero punto di svolta verso una società socialista. Dal punto di vista materiale, questo significa indirizzare la produzione dei beni e servizi legati a questi obiettivi sociali verso la soddisfazione diretta e gratuita dei bisogni della popolazione, contrastando al tempo stesso la produzione di beni e servizi finalizzata alla vendita sul mercato. Dal punto di vista delle persone, significa invece estendere i diritti e le tutele di tutti i soggetti deboli nell'interazione di mercato, a cominciare dai lavoratori.
Tutto questo significa confinare il mercato in ambiti sempre più stretti e
infine abolirlo.
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