Copertina
Autore Maurizio Pallante
Titolo Ricchezza ecologica
Edizionemanifestolibri, Roma, 2009, Esplorazioni , pag. 176, cop.fle., dim. 14,5x21x1,2 cm , Isbn 978-88-7285-552-2
LettoreLuca Vita, 2009
Classe ecologia , energia , economia
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Indice


PREMESSA ALLA NUOVA EDIZIONE                      7

PER UNA RICONVERSIONE ECOLOGICA DELL'ECONOMIA    11

Il mercato                                       13
    Economia e politica                          19
    Il vecchio e il nuovo                        26
    Breve appendice sulla new economy            32

Il lavoro                                        37
    Crescita economica e disoccupazione          43
    Modesta proposta per incrementare prodotto
    interno lordo e occupazione                  50

BATISTIN, UN INTERMEZZO                          57

PER UNA RICONVERSIONE ECONOMICA DELL'ECOLOGIA    71
    Economia e ecologia                          73
    Agricoltura                                  85
    Architettura                                 95
    Dialogo sui massimi problemi energetici     109
    Uso razionale dell'energia e fonti
        rinnovabili: un confronto               135
    Immondizia ordine privativo a publicis
        monopoliis tractata                     139
    L'ecologismo degli stenterelli              147

I MONASTERI DEL TERZO MILLENNIO                 157

 

 

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Pagina 7

Premessa
alla nuova edizione



In un sistema economico fondato sulla crescita della produzione di merci la legislazione di tutela ambientale viene considerata un costo in più che riduce i profitti, la produttività e la competitività. O, tutt'al più, un lusso che si possono permettere i paesi ricchi. Una sorta di riparazione dei danni che le attività produttive apportano inevitabilmente agli ecosistemi da cui traggono le risorse da trasformare in merci, e in cui scaricano i rifiuti generati dai processi di trasformazione delle risorse in merci e i rifiuti in cui si trasformano le merci quando chi le possiede ritiene che non forniscano più l'utilità per cui le ha acquistate. Secondo questa concezione dunque, ci si può arricchire solo danneggiando gli ambienti e solo chi si è arricchito danneggiando gli ambienti può destinare una quota della ricchezza ottenuta per riparare i danni che ha fatto per ottenerla. La crescita del pil, ben lungi dall'essere la causa dei problemi ambientali, sarebbe dunque la premessa della loro soluzione.

Al partito della crescita economica come presupposto della tutela ambientale si contrappone il partito della tutela ambientale come presupposto della crescita economica. Secondo questa teoria, a cui è stata data la definizione di sviluppo sostenibile, solo se si investe nella tutela ambientale si può continuare a crescere economicamente. Una variante, a cui questa teoria si presta, è rappresentata dall'applicazione della sua etichetta a prodotti realizzati nell'ottica opposta della crescita come premessa della tutela ambientale, purché siano accompagnati da una valutazione attestante che sono stati realizzati con tecnologie meno brutali di quelle utilizzate precedentemente per fare le stesse cose. In questo modo opere devastanti, oggettivamente inutili o utilizzabili per futili motivi da pochissime persone al mondo una volta ogni morte di papa, come, per esempio, una pista da bob o un trampolino di salto, se sono accompagnate dalla valutazione di impatto ambientale renderebbero migliore l'ambiente in cui vengono realizzate. Applicazioni di questo genere costituiscono una sintesi ideale delle due teorie contrapposte, consentendo a entrambe di rivendicarne la paternità.

Le riflessioni svolte in questo libro partono invece dal presupposto che le attività produttive non comportano necessariamente danni ambientali, ma sono in grado di migliorare il mondo e renderlo più ospitale purché si smetta di considerarlo un serbatoio di risorse da trasformare in rifiuti attraverso un passaggio sempre più breve nello stato di merci. Purché si smetta di ritenere che lo scopo del lavoro sia la crescita del prodotto interno lordo. Finché lo scopo del lavoro continuerà ad essere la crescita della produzione di merci, continuerà a crescere il consumo di risorse, si utilizzeranno tecnologie inquinanti purché produttive, aumenteranno i rifiuti liquidi, solidi e gassosi immessi negli ecosistemi. Anche se i livelli di impatto ambientale già raggiunti, e destinati a crescere con l'estensione del modello economico basato sulla crescita del pil a paesi in cui vive la metà del genere umano, faranno prevalere i sostenitori dello sviluppo sostenibile, la riduzione percentuale dei danni per unità di prodotto o di servizio fornito sarà costantemente riassorbita dalla crescita della produzione, fino a quando il pianeta non sarà più in grado di fornire le risorse necessarie alla crescita e di metabolizzare i suoi scarti. Se, invece, il lavoro tornerà ad essere ciò che è sempre stato prima di venir posto al servizio della crescita, le innovazioni tecnologiche potranno essere indirizzate a ridurre il consumo di energia e di materie prime per unità di prodotto, ad accrescere la durata degli oggetti, a recuperare e riutilizzare al termine della loro vita utile i materiali di cui sono composti, a ridurre la fatica umana e la durata del tempo di lavoro, a regolarizzare e potenziare i cicli biochimici e non a stravolgerli. Per usare un unico indicatore che tutti li riassume: a ridurre l'impronta ecologica delle attività umane. Invece di continuare a coprire strati sempre più vasti di territorio agricolo e naturale con agglomerati urbani composti da edifici energivori, le innovazioni tecnologiche possono essere indirizzate a ristrutturare gli edifici esistenti per ridurne gli sprechi energetici. Invece di continuare a sprecare enormi quantità di acqua e di energia per produrre con protesi chimiche enormi quantità di cereali destinati ad alimentare gli animali d'allevamento di cui si ciba una percentuale ridotta della popolazione mondiale mentre cresce il numero di coloro che soffrono la fame e la denutrizione, le conoscenze scientifiche possono essere utilizzate per ridurre l'impatto ambientale delle attività agricole e nutrire adeguatamente tutti gli esseri umani. La riconversione ecologica dell'economia è possibile ed è resa sempre più urgente dalla gravità della crisi ambientale. Ma una scelta di questo genere non si fonda esclusivamente su motivazioni etiche, come ritengono sia molti di coloro che l'auspicano, sia coloro che l'avversano per i costi che comporterebbe. Pur avendo una forte connotazione etica, si fonda anche su solide ragioni economiche, che la recessione mondiale in corso rafforza e rende sempre più evidenti. Vedere tanti stregoni in sala di rianimazione attorno al capezzale dell'industria automobilistica non fa venire in mente la frase del profeta Isaia: Iddio acceca quelli che vuol perdere? Come si può pensare che si possa superare la crisi economica rilanciando la produzione dell'auto, quando non c'è più nemmeno il posto fisico in cui metterle? Quando tutte le mattine le strade che portano alle grandi città e le strade che le attraversano sono intasate da fiumane di autoveicoli che procedono a passo d'uomo? Come si può pensare di continuare ad alimentarle quando le riserve di petrolio stanno raggiungendo il picco della curva di Hubbert? Come si possono organizzare summit mondiali sul contenimento delle emissioni di CO2 e sostenere al contempo la produzione automobilistica con denaro pubblico? Non sarebbe più interessante economicamente convertire una parte dell'industria automobilistica alla produzione di micro-cogeneratori? Un prodotto che utilizza la stessa tecnologia e gli stessi impianti, che però dimezza i consumi di fonti fossili e le emissioni di CO2 a parità di servizi energetici, oltre ad avere un mercato tutto da costruire.

Una riconversione ecologica dell'economia non è possibile senza una riconversione economica dell'ecologia. Si può ipotizzare il riorientamento del sistema economico su produzioni che riducono l'impronta ecologica solo se le produzioni che la riducono sono più interessanti dal punto di vista economico delle produzioni non finalizzate a ridurla, solo se hanno costi di produzione inferiori, se riducono i costi di gestione, manutenzione e riparazione, se riducono i costi sociali per il ripristino dei danni ambientali, se hanno una potenzialità di futuro maggiore. Ma questo passaggio presuppone un processo di liberazione culturale dal paradigma della crescita. E questo processo di liberazione richiede innanzitutto una revisione storica di quanto è accaduto, la definizione di un punto di vista in grado di dimostrare la portata distruttiva di processi che sono stati connotati con l'aureola del progresso: il boom economico, il passaggio da un'economia agricola di sussistenza all'industrializzazione delle produzioni alimentari, i trasferimenti di massa dalle campagne alle città, il mito dell'innovazione e il confinamento della sapienza tradizionale nei musei del folklore. Ma richiede anche la capacità di immaginare un futuro diverso, di costruire alternative economiche locali più sane, conviviali e vivibili, capaci di dimostrare nei fatti, e non solo con uno slogan, che un altro mondo è possibile. Il bisogno di spezzare le inferiate delle gabbie mentali in cui l'economia della crescita ha costretto l'umanità è sempre più sentito. Giorno dopo giorno, sotto l'incalzare della crisi economica, della riduzione dell'occupazione e del potere d'acquisto, cresce il numero delle persone che sentono l'urgenza e la necessità di farlo. Se nella parola crisi accanto al significato di problema coesiste quello di opportunità, la recessione in corso può dare la spinta necessaria ad aprire la prospettiva di un futuro diverso, dell'unico futuro possibile che può essere disegnato da una riconversione ecologica dell'economia e una riconversione economica dell'ecologia.

gennaio 2009

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CRESCITA ECONOMICA E DISOCCUPAZIONE

Più volte nella storia dell'umanità è successo che un'idea priva di fondamento, a forza di essere ripetuta da tutti come se fosse vera, con autorevolezza dagli esperti, con capacità di persuasione dai gestori dei mezzi di comunicazione di massa e con pedissequo spirito di imitazione dalle masse degli individui non appartenenti alle due precedenti categorie, abbia orientato le scelte degli uomini conquistando così, di fatto, quel fondamento di cui era intrinsecamente priva. Nel XIII secolo l'invenzione delle stimmate di San Francesco, fatta da biografi creativi e diffusa dall'iconografia sacra, divenne uno dei più potenti fattori di consolidamento del potere del papa come unico e indiscutibile rappresentante di Cristo in terra. Nel XIX secolo la convinzione generalizzata tra le popolazioni europee che gli indiani d'America e gli altri popoli indigeni appartenessero a razze non solo inferiori perché meno civili, ma anche geneticamente criminali, fece considerare meritorio il loro sterminio. Nel XX un'analoga idea di superiorità razziale spinse altre masse a muovere guerra al mondo nella convinzione di compiere un'opera di civilizzazione. Non stupisce quindi che oggi questo meccanismo si riproponga in relazione all'idea, altrettanto autorevolmente sostenuta, massmediologicamente diffusa e ossessivamente ripetuta che la crescita della produzione determini una crescita dell'occupazione e che senza l'una non possa esserci l'altra. All'apparenza, questo stringente rapporto causale sembrerebbe talmente ovvio da non richiedere né verifica, né dimostrazione. Per produrre di più occorre lavorare di più, direbbe, anzi dice chiunque, come un tempo, osservando il percorso del sole nel cielo da oriente a occidente, chiunque avrebbe detto, anzi diceva, che il sole si muoveva intorno alla terra e non la terra intorno al sole. In realtà, anche in questo caso, come in quello, l'apparenza inganna, come sorprendentemente evidenzia la semplice osservazione di quanto è avvenuto negli anni passati, in cui la crescita della produzione non ha mai comportato una crescita dell'occupazione e spesso, nelle fasi in cui la crescita della produzione è stata più intensa, si sono verificati decrementi occupazionali.

Le statistiche in proposito non lasciano dubbi, ma per evitare di prenderne atto vengono ignorate. Per una proficua lettura dei dati occupazionali occorre conoscere bene il significato delle classificazioni che vengono utilizzate. Innanzitutto la popolazione è suddivisa in due categorie: le forze di lavoro e le non forze di lavoro. La prima comprende sia gli occupati, sia coloro che non sono occupati ma cercano lavoro. La percentuale dei disoccupati è pertanto un sottoinsieme di questa categoria. La seconda comprende coloro che non lavorano e non cercano lavoro, o perché non sono ancora in età di farlo (la popolazione da 0 a 15 anni), o perché non sono più in età di farlo (gli ultrasessantacinquenni), o perché non intendono farlo (coloro che vivono di rendita, gli studenti ultraquindicenni e le casalinghe). Ma la popolazione cambia, sia in valori assoluti, sia nella composizione per fasce d'età, pertanto l'andamento del numero degli occupati va messo in relazione sia all'andamento del prodotto interno lordo a prezzi costanti, cioè al valore monetario dei beni prodotti e dei servizi forniti nel corso degli anni, depurato dall'inflazione, sia in relazione alle variazioni della popolazione totale. Una crescita degli occupati in valori assoluti potrebbe infatti nascondere una loro diminuzione percentuale nel caso in cui, nello stesso periodo, la popolazione avesse avuto un tasso d'incremento maggiore. Ebbene dal 1960 al 1998 in Italia il prodotto interno lordo a prezzi costanti si è più che triplicato, passando da 423.828 a 1.416.055 miliardi (valori a prezzi 1990), il numero degli occupati è rimasto costantemente intorno ai 20 milioni (erano 20.330.000 nel 1960 e 20.435.000 nel 1998), la popolazione è cresciuta da 48.967.000 a 57.040.000 abitanti, con un incremento del 16,5 per cento. Smentendo la convinzione generalizzata, autorevolmente sostenuta dagli esperti e propagandata a ogni piè sospinto dai mass media, i dati dimostrano che un aumento così rilevante della produzione non solo non ha fatto crescere l'occupazione in valori assoluti, ma che la percentuale degli occupati rispetto alla popolazione totale è scesa dal 41,5 al 35,8 per cento.

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All'inizio del XX secolo, le prime centrali termoelettriche avevano un rendimento del 3 per cento. Da 100 unità di energia chimica sotto forma di combustibili fossili si ricavavano 3 unità di energia elettrica. Oggi le centrali termoelettriche a cicli combinati hanno rendimenti che raggiungono il 55 per cento. Le fuel cell, senza processi di combustione, senza emettere quindi né inquinanti né anidride carbonica, raggiungono rendimenti del 66 per cento. Il rendimento della cogenerazione di energia elettrica e termica è del 96 per cento. Le pompe di calore aggiungono al rendimento della fonte energetica che le fa funzionare l'apporto dell'energia termica che pompano dall'aria, dall'acqua di falda o da fluidi tecnologici di scarto, raggiungendo un'efficienza complessiva che in relazione alla sola fonte energetica, supera il 100 per cento. Le tecnologie che accrescono l'efficienza energetica consentono quindi di ridurre drasticamente i consumi alla fonte a parità di servizi finali. Allungano la durata delle fonti e riducono i costi e senza deprimere il benessere. Molte sono economicamente mature, molte possono diventarlo in tempi brevi, i loro benefici sono cumulabili con le riduzione dei consumi di energia alla fonte che si possono ottenere accrescendo l'efficienza degli utilizzatori finali: edifici, mezzi di trasporto, macchinari, lampade, elettrodomestici. Basti pensare che un'accurata coibentazione degli edifici può arrivare a rendere superfluo l'impianto di riscaldamento, garantendo il comfort termico in zone climatiche con inverni in cui la temperatura scende regolarmente a -20 °C. O che le lampade ad alta efficienza consumano 1/6 delle lampade a incandescenza. Contestualmente la riduzione dei consumi di fonti energetiche fossili comporta una proporzionale riduzione delle emissioni di anidride carbonica, da cui dipende al 50 per cento l'effetto serra, di ossidi di azoto e di anidride solforosa, che causano le piogge acide e altre forme di inquinamento atmosferico. Lo sviluppo delle tecnologie che accrescono l'efficienza energetica darebbe un grande contributo non solo alla crescita della produzione e alla riduzione dei costi di produzione in tutti i settori produttivi, accontentando gli economisti, ma anche alla riduzione dell'inquinamento, accontentando gli ecologisti. Invece, allo stato attuale delle cose, gli ecologisti si battono per una riduzione dei consumi finali di energia richiedendo una maggiore austerità e accapigliandosi con gli economisti che li vogliono far aumentare (la palma d'onore in questo campo spetta, naturalmente, ai venditori di energia che raggiungono i migliori risultati dove operano in condizioni di monopolio più o meno formalizzato).

Nei settori agroindustriali che estraggono e elaborano un prodotto specifico da essenze coltivate in forma intensiva in apposite piantagioni (per esempio: la palma o il cocco per ricavare gli acidi grassi che hanno sostituito i tensioattivi di origine petrolchimica nei detersivi, la canna da zucchero, l'orzo per la birra ecc.) la percentuale della biomassa che si utilizza è inferiore al 10 per cento. Ciò che si spreca va a ingigantire il problema dei rifiuti. Utilizzando come materia prima per altre lavorazioni il materiale attualmente scartato, si riducono i rifiuti e si ottengono rendimenti economici ben superiori a quelli che si hanno utilizzando la sola sostanza per cui oggi vengono coltivate queste essenze. Se ciò venisse fatto su larga scala, sull'esempio delle realizzazioni di Gunter Pauli nell'àmbito del suo «progetto Zeri» (Zero Emission Research Initiative), si aprirebbero nuove prospettive per l'industria e crescerebbero la produzione e l'occupazione secondo gli auspici degli economisti, mentre in misura proporzionale si ridurrebbero il consumo delle risorse e l'impatto ambientale a parità di produzione, secondo gli auspici degli ecologisti.

Quando le industrie chimiche, in seguito ad alcuni gravi disastri ambientali (Seveso, Bophal, la contaminazione del Reno eccetera) hanno fatto terra bruciata intorno a sé e in nessun luogo del mondo le popolazioni erano più disposte ad accettare la localizzazione dei loro impianti, per riconquistare l'accettazione sociale che avevano perso hanno sottoscritto un protocollo denominato Responsible care, in cui si sono impegnate volontariamente a ridurre l'impatto ambientale dei loro processi produttivi al di sotto dei limiti massimi consentiti dalla legislazione ambientale più severa tra quelle vigenti nei paesi in cui erano localizzati i loro stabilimenti. Per raggiungere gli obbiettivi che si erano prefisse, hanno seguito tre strade. Innanzitutto hanno adottato tecnologie più pulite e applicato sistemi di depurazione delle emissioni inquinanti. Ciò ha comportato maggiori spese di investimento. L'ecologia è stato un costo in più che non potevano fare a meno di pagare se volevano continuare a produrre. In secondo luogo hanno adottato processi produttivi che hanno accresciuto l'efficienza nell'uso dei materiali riducendo gli sprechi e le emissioni. In terzo luogo hanno recuperato e riciclato gli scarti di alcuni processi produttivi usandoli come materie prime per altri processi produttivi. Gli investimenti in queste tecnologie sono stati ripagati da una riduzione dei costi di produzione. Così facendo, la riduzione dell'impatto ambientale è diventata una convenienza economica. Maggiore è diventata l'efficienza nell'uso dei materiali, minore è stato il loro consumo a parità di produzione e minori sono stati gli sprechi, l'inquinamento e i costi di produzione.

Se accrescendo l'efficienza dei processi di utilizzazione delle risorse si produce di più con meno e si riducono i costi di produzione, con i risparmi che si ottengono si può pagare l'ammortamento delle tecnologie che consentono di utilizzare con più efficienza le risorse. Per innescare questo circolo virtuoso occorrono forme di finanziamento che consentano di trasformare in quote d'ammortamento degli investimenti i risparmi sui costi di gestione. Gli strumenti finanziari per farlo esistono, ma sono richiesti e utilizzati molto raramente. Se le imprese che posseggono il know how per eseguire le ristrutturazioni energetiche necessarie a ridurre i consumi di energia alla fonte a parità di servizi finali le realizzassero sostenendone i costi d'investimento, sarebbe sufficiente che i loro clienti continuassero a pagare per un numero di anni concordato contrattualmente le stesse spese energetiche che pagavano prima della ristrutturazione. In questo modo le imprese recupererebbero i costi d'investimento sostenuti e ricaverebbero i loro utili incassando il risparmio economico conseguente al risparmio energetico. Con questa formula contrattuale i clienti, non dovendo sostenere nessun costo aggiuntivo rispetto alle spese correnti, sarebbero incentivati a razionalizzare i loro impianti, mentre le imprese sarebbero incentivate a ottenere la maggiore efficienza possibile perché i loro utili sarebbero proporzionali ai risparmi energetici che riescono ad ottenere. Un contributo decisivo per lo sviluppo di questi strumenti finanziari potrebbe essere dato da un governo che incentri la sua politica industriale sulla crescita dell'efficienza nell'uso delle risorse e a tal fine utilizzi gli strumenti fiscali per penalizzarne il consumo, investendo il gettito di questa imposta per abbassare í tassi d'interesse sugli investimenti nelle tecnologie che consentono di utilizzarle meglio.

Le possibilità di conciliare le ragioni dell'economia e le ragioni dell'ecologia utilizzando meglio le risorse sono enormi e si articolano in due fasi. In primo luogo occorre accrescere al massimo la produttività dei materiali riducendo al minimo gli scarti di ogni processo produttivo. La condizione necessaria e sufficiente per raggiungere questo fine è la concorrenza, che può essere potenziata da un adeguato sistema di incentivi e disincentivi. Questa strada presenta comunque limiti invalicabili e in un solo processo produttivo non si potrà mai ottenere una utilizzazione totale delle risorse. Per ottenere questo risultato occorre riorganizzare la produzione industriale in sistemi di imprese strutturati sul modello degli ecosistemi. In ogni ecosistema vivono un certo numero di specie e di individui di ogni specie che nel loro insieme utilizzano le risorse della nicchia ecologica di cui sono parte senza sprecare nulla, riutilizzando a cascata gli uni gli scarti degli altri fino al riciclo totale delle sostanze di cui sono fatti i loro corpi quando muoiono. Così se la produzione industriale venisse riorganizzata in sistemi di imprese che partono dalla estrazione o dalla produzione di una o più risorse per poi utilizzarle a cascata in una serie di processi produttivi in cui gli scarti dei precedenti diventano le materie prime dei successivi, si potrebbe ottenere una produttività totale dei materiali senza rifiuti né emissioni inquinanti. Che queste possibilità non siano utopiche o di là da venire è testimoniato dalle già citate realizzazioni di Gunter Pauli.

Un grande impegno nella produzione, nello sviluppo e nella ricerca di tecnologie che accrescono l'efficienza nell'uso delle risorse in modo da ridurre progressivamente gli scarti fino tendenzialmente a eliminarli è dunque la strada maestra da percorrere per ridurre l'impatto ambientale causato dall'eccessivo consumo di materie prime e dalle varie forme di inquinamento, come giustamente desiderano gli ecologisti, ma è anche la strada maestra per un rilancio non asfittico dell'economia e della produzione, come desiderano gli economisti. La gravità della crisi ambientale e i preoccupanti livelli raggiunti dalla disoccupazione impongono che la politica economica dei paesi industriali avanzati sia indirizzata a favorire il raggiungimento di questo obbiettivo in cui le ragioni dell'economia e le ragioni dell'ecologia vanno di pari passo, contrariamente a quanto in comune disaccordo sostengono economisti ed ecologisti. Non che le loro divergenze siano fittizie. A livello etico e filosofico esistono e sono profonde, anche se qualche contaminazione reciproca sarebbe utile agli uni e agli altri, ma attengono più ai valori e ai fini dell'economia che alle scelte di politica economica nel breve e nel medio periodo. In relazione alle scelte di politica economica, nella situazione attuale solo il risanamento ambientale può dare nuovo slancio all'economia e soltanto una nuova fase di sviluppo economico finalizzata al risanamento ambientale può consentire la realizzazione di significativi miglioramenti ecologici. Non succederà, ma ciò non toglie che per pura ipotesi teorica possa essere formulata una proposta politica finalizzata a favorire un programma di questo genere: si conferisca la responsabilità del Ministero dell'Ambiente a un economista e la responsabilità del Ministero dell'Industria a un ecologista (con la cautela di non sceglierlo tra coloro che agiscono in termini ideologici ma tra coloro che hanno una competenza scientifica).

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