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| << | < | > | >> |Indice3 I. Io sono il morto 7 II. Il mio nome è Nero 12 III. Io, il cane 17 IV. Di me diranno che sono un assassino 24 V. Io sono vostro zio 30 VI. Io, Orhan 34 VII. Il mio nome è Nero 38 VIII. Il mio nome è Esther 42 IX. Io, Seküre 51 X. Io sono un albero 56 XI. Il mio nome è Nero 67 XII. Mi chiamano Farfalla 74 XIII. Mi chiamano Cicogna 81 XIV. Mi chiamano Oliva 88 XV. Il mio nome è Esther 93 XVI. Io, Seküre 98 XVII. Io sono vostro zio 104 XVIII. Di me diranno che sono un assassino 110 XIX. Io, la moneta 115 XX. Il mio nome è Nero 119 XXI. Io sono vostro zio 124 XXII. Il mio nome è Nero 129 XXIII. Di me diranno che sono un assassino [...] |
| << | < | > | >> |Pagina 3Capitolo primo
Io sono il morto
Adesso io sono un morto, un cadavere in fondo a un pozzo. Ho esalato l'ultimo respiro ormai da tempo, il mio cuore si è fermato, ma, a parte quel vigliacco del mio assassino, nessuno sa cosa mi sia successo. Lui, il disgraziato schifoso, per essere sicuro di avermi ucciso ha ascoltato il mio respiro, ha tastato il mio polso, mi ha dato un calcio nel fianco, mi ha portato al pozzo e mi ha preso in braccio per poi buttarmici dentro. La testa me l'aveva già spaccata a colpi di pietra, e cadendo nel pozzo è andata in pezzi, la mia faccia, la fronte e le guance, è rimasta schiacciata, è scomparsa, le ossa si sono spezzate, la bocca si è riempita di sangue. Sono quattro giorni che manco da casa. Mia moglie e i miei figli mi staranno cercando. Mia figlia, sfinita dal pianto, probabilmente starà guardando il cancello del giardino; tutti mi staranno aspettando con lo sguardo fisso sulla porta. Ma mi staranno veramente aspettando? Non lo so. Forse si saranno abituati, che orrore! Perché stando qui sembra quasi che la vita che ti sei lasciato dietro continui come sempre. Prima di nascere avevo alle spalle un tempo illimitato. Un tempo che non sarebbe finito neanche dopo la mia morte! Da vivo non pensavo a queste cose, continuavo a vivere nella luce, nel tempo che passa tra due oscurità. Ero felice, ero veramente felice, ora lo capisco. Nel laboratorio di miniatura del Nostro Sultano io facevo le dorature migliori e non c'era doratore dotato di pari maestria. Con i lavori che facevo fuori arrivavo a guadagnare fino a novecento akçe al mese. E tutte queste cose certamente rendono la mia morte ancora piú insopportabile. Facevo solo miniature e dorature, decoravo i bordi delle pagine e coloravo l'interno delle cornici, foglie, rami, rose, fiori, uccelli, nuvole ricciute alla maniera cinese, serie di foglie sovrapposte, foreste di colori dove si nascondevano gazzelle, galere, sultani, alberi, palazzi, cavalli, cacciatori... Di tanto in tanto decoravo un piatto, il retro di uno specchio, un cucchiaio, a volte il soffitto di un palazzo in una villa sul Bosforo, una cassapanca... Negli ultimi anni, invece, ho lavorato solamente per decorare pagine di libri, perché il Nostro Sultano pagava generosamente i libri miniati. Non vi dico che quando ho incontrato la morte ho capito che nella vita il denaro non è affatto importante. È proprio quando non sei piú in vita che capisci l'importanza del denaro. Adesso, considerando il fatto miracoloso che possiate sentirmi nonostante la mia situazione, so che penserete: evita di dirci quanto guadagnavi in vita. Raccontaci quello che vedi li. Cosa c'è dopo la morte, dov'è la tua anima, come sono il Paradiso e l'Inferno, cosa vedi li? Come ti sembra la morte, provi dolore? Avete ragione. So che l'uomo quando è ancora in vita muore dalla curiosità di sapere cosa accade nell'aldilà. Mi hanno raccontato la storia di un tale che si aggirava tra i cadaveri sui cruenti campi di battaglia solo per soddisfare questa curiosità... I soldati di Tamerlano, credendolo un nemico, con un colpo di spada l'avevano squartato mentre vagava tra i guerrieri agonizzanti nella speranza di incontrare un resuscitato e conoscere cosí i misteri dell'altro mondo. E cosí, costui arrivò alla conclusione che nell'aldilà gli uomini venivano squartati. Non è affatto cosí. Anzi, posso affermare che le anime squartate in terra qui si ricompongono. E poi, al contrario di quanto affermano gli infedeli miscredenti e i bestemmiatori che credono a Satana, grazie al cielo un aldilà esiste. Il fatto che io vi parli da li ne è la prova. Sono morto, ma come vedete, non sono scomparso. Devo dire però che non ho trovato i padiglioni d'oro del Paradiso, né quelli d'argento sotto i quali scorrono i fiumi, gli alberi dalle foglie enormi e dai frutti maturi, né le belle vergini di cui si parla nel Corano. Adesso, invece, ricordo molto bene con quanta soddisfazione ho ritratto tante volte quelle meravigliose fanciulle dai grandi occhi nel Paradiso di cui parla la sura Dell'Ora che cade. Naturalmente non ho incontrato i quattro fiumi, quello di latte, e poi di vino, d'acqua dolce e di miele di cui però narra un personaggio di grande fantasia come Ibn Arabi e non certo il Corano. Non volendo convertire alla miscredenza le tante persone che giustamente vivono nella speranza fantasticando sull'aldilà, devo subito precisare che tutto questo dipende dalla mia particolare situazione. Ogni credente minimamente informato sulla vita dopo la morte sarebbe disposto ad ammettere che chi si trova in uno stato di inquietudine come il mio avrebbe qualche difficoltà a vedere i fiumi del Paradiso. Per farla breve, io che nella corporazione dei miniaturisti e tra i maestri d'arte sono conosciuto come Raffinato Effendi, sono morto ma non sono stato sepolto. Perciò la mia anima non ha potuto abbandonare del tutto il corpo. Perché la mia anima possa andare verso il Paradiso, l'Inferno, o dove è destino che vada, deve uscire dalla sporcizia del corpo. Questa particolare situazione, che può capitare anche ad altri, è per la mia anima causa di tremendo dolore. Non sento di avere la testa fracassata, non sento le fratture che spezzano metà delle mie ossa, l'orrore di putrefarmi nell'acqua gelida, ma avverto il dolore profondo della mia anima che si divincola nel tentativo di abbandonare il corpo. È come se tutto l'universo cominciasse a contrarsi restringendosi in un qualche luogo dentro di me. Posso paragonare questo senso di contrazione solo alla spaventosa liberazione che ho provato nel momento in cui sono morto. Quando il mio cranio è stato fracassato da un colpo di pietra del tutto inaspettato, ho capito subito che quel vigliacco voleva uccidermi, ma non credevo che ci sarebbe riuscito. Ero pieno di speranze, ma non me ne ero reso conto, e conducevo un'esistenza piatta, tutta casa e bottega. Ero attaccato alla vita con passione, con le unghie e con i denti, e con questi l'ho morso. Ma non voglio annoiarvi con il dolore dei colpi ricevuti in testa. Quando ho avuto l'amara certezza che sarei morto, ho provato un'incredibile sensazione di sollievo. Ho vissuto il momento del trapasso con questa sensazione: arrivare qui è stato lieve come sognare di dormire. L'ultima cosa che ho visto sono state le scarpe coperte di neve e fango di quel vigliacco del mio assassino. Ho chiuso gli occhi come se dormissi e con un dolce trapasso sono arrivato da questa parte. Non mi lamento del fatto che i denti mi siano caduti come ceci nella bocca piena di sangue, né che il mio volto sia talmente fracassato da essere irriconoscibile, né di essere rimasto schiacciato in fondo a un pozzo, mi lamento perché mi credono ancora vivo. Sapere che chi mi vuole bene pensa continuamente a me immaginando che stia perdendo tempo in stupidaggini in qualche angolo di Istanbul, oppure che sia andato dietro a una donna, aumenta il dolore della mia anima inquieta. Basta! Trovate il mio cadavere, seppellitemi e fatemi un funerale con tutte le necessarie preghiere rituali! Ma soprattutto che venga scoperto il mio assassino! Sappiate che finché non si scopre quel vigliacco, anche se sepolto nella piú bella delle tombe, io attenderò aggirandomi inquieto per la tomba e insinuerò in tutti voi la miscredenza. Trovate quel figlio di puttana del mio assassino e io vi racconterò tutto quello che vedrò nell'aldilà! Ma quando lo trovate dovete torturarlo con il torchio e spezzargli otto, dieci ossa, preferibilmente le costole, lentamente, facendogli sentire come scricchiolano, e dovete strappargli a uno a uno quei capelli unti e schifosi e farlo urlare bucandogli il cranio con gli spiedi fatti apposta per le torture. Ma chi è il mio assassino, chi è la persona nei cui confronti provo una tale rabbia? Perché mi ha ucciso in modo cosí inaspettato? Siete curiosi? Pensate che il mondo sia pieno di assassini che non valgono niente, che uno valga l'altro? Allora vi avverto fin d'ora: dietro la mia morte c'è uno scandaloso complotto contro la nostra religione, le nostre tradizioni, contro il nostro modo di vedere il mondo. Aprite gli occhi, sappiate che a uccidermi sono stati i nemici della vita in cui credete e vivete, i nemici dell'Islam, e che un giorno potrebbero uccidere anche voi. Le parole del grande predicatore Maestro Nusret di Erzurum, che una volta ho ascoltato commosso, una a una si avverano. Devo dirvi che tutto quello che ci accade può venire narrato in un libro, ma disegnarlo non si può, e non lo possono fare neanche i miniaturisti piú esperti. Proprio come il Corano - che non si intenda male, Allah non voglia! - la forza sconvolgente di un libro dipende anche dal fatto che non può mai essere narrato attraverso i disegni. Temo che non abbiate capito. Guardate, anch'io quando ero solo un apprendista temevo profondamente la realtà, temevo la voce che giungeva da lontano e cercavo di distrarmi facendomi beffe di questo genere di cose. Poi sono caduto in questo ignobile pozzo! E potrebbe capitare anche a voi, tenete gli occhi bene aperti. Devo solo sperare che, se vado in putrefazione, riescano a trovarmi grazie alla puzza. Non ho nulla da fare, se non fantasticare sulle torture che un'anima pia potrebbe infliggere a quel vigliacco del mio assassino, qualora lo trovasse. | << | < | > | >> |PaginaCapitolo terzo
Io, il cane
Come vedete, le mie zanne sono talmente lunghe e appuntite che mi stanno a malapena in bocca. So che questo mi conferisce un aspetto spaventoso ma mi piace. Una volta, vedendo quanto erano grandi le mie zanne, un macellaio ha detto: «Be', ma questo non è un cane, è un maiale». Lo morsi talmente forte a una gamba da sentire sotto i denti la durezza del femore, li dove finiva la sua carne grassa. Per un cane non c'è nulla di cosí piacevole come affondare i denti con furiosa e spontanea rabbia nella carne di uno schifoso nemico. Quando mi si presenta un'occasione del genere, quando la mia vittima mi passa accanto con quell'aria stupida da meritarsi un morso, perdo il controllo per il piacere, mi battono i denti e senza rendermene conto comincio a emettere spaventosi ringhi di gola. Sono un cane, e voi che non siete creature ragionevoli quanto me dite che un cane non parla. D'altra parte, sembra che diate credito a una storia in cui a parlare sono i morti e i protagonisti usano parole che non conoscono. I cani parlano, ma solo a chi sa ascoltarli. C'era una volta un predicatore maleducato che veniva da una città di provincia, e giunse in una delle piú grandi moschee, diciamo quella di Beyazit. Forse non bisognerebbe svelarne il nome, diciamo che si chiamava Maestro Husret, ma altre bugie non ne possiamo dire, e quest'uomo aveva la testa dura. Aveva poco sale in zucca ma molta forza nella lingua, che Dio lo benedica. Ogni venerdí infervorava la comunità da farla piangere talmente tanto che c'era chi, con gli occhi ormai prosciugati, perdeva i sensi o si sentiva male. Ma, mi raccomando non fraintendete, lui non piangeva affatto come gli altri predicatori dalla lingua tagliente, al contrario, mentre tutti piangevano lui non batteva ciglio e continuava a parlare con maggior vigore, come se stesse redarguendo l'intera comunità. Tutte le guardie imperiali, i paggi del Palazzo del sultano, i venditori di helva, la plebaglia e molti suoi colleghi predicatori gli erano profondamente devoti. Certo, lui non era mica un cane, era un essere umano rotto a ogni esperienza, ma davanti a questa folla di devoti uscí di senno, e vedendo che terrorizzare la gente gli dava lo stesso gusto che farla piangere, e oltretutto gli faceva guadagnare piú pane, cominciò a esagerare dicendo che: «L'unico motivo del prezzo pagato alla peste e alle sconfitte era il fatto che avevamo dimenticato l'Islam dei tempi del Profeta Maometto e credevamo ad altri libri e a bugie ritenendoli parte dell'Islam. Ai tempi del Profeta Maometto si usava forse far cantare il poema che narra della nascita del Profeta? Si usava forse celebrare i funerali quaranta giorni dopo il decesso e preparare helva e frittelle per l'anima del defunto? Ai tempi del Profeta Maometto si usava forse salmodiare il Santo Corano come una canzone? Si usava forse salire sui minareti e chiamare alla preghiera con tono arrogante, civettando come una femmina, e dire: "Che bella voce che ho, e poi il mio arabo è come quello di un vero arabo?" Vanno sulle tombe e supplicano, sperano in un aiuto da parte dei defunti, vanno presso i sepolcri e ne venerano le pietre come i pagani, ci attaccano pezzi di stoffa, fanno voti. Ai tempi del Profeta Maometto vi erano forse dervisci che insegnavano cose del genere? Ibn Arabi, il mentore dei dervisci, commise peccato perché giurò che il Faraone fosse morto nella fede. I dervisci, i mevlevi, gli halveti, i kalenderi, coloro che leggono il Santo Corano accompagnandosi con il suono di strumenti, coloro che danzano in compagnia dei fanciulli sostenendo di pregare, sono tutti infedeli. Perché in questi luoghi si possa tornare a pregare bisogna demolire i conventi dervisci, bisogna scavare per una profondità di sette arsin e gettare in mare la terra». Ormai con la bava alla bocca, Maestro Husret continuava: «Credenti, bere caffè è sacrilegio. Il nostro Profeta sapeva che il caffè intorpidisce la mente, buca lo stomaco, fa venire l'ernia e rende sterili, aveva capito che era un prodotto di Satana e non ne beveva. E poi ormai le sale da caffè sono luoghi dove chi è in cerca di piacere e i ricchi lussuriosi siedono vicini per compiere ogni tipo di spudoratezza; in realtà, prima dei conventi dervisci bisognerebbe chiudere quelle sale. I poveri hanno forse i soldi per bere caffè? Vanno li, tracannano caffè e poi perdono il controllo tanto da pensare che i cani possano parlare e ascoltare; cosa ci si può aspettare da un cane, bestemmia contro di me e contro la nostra religione?» Con il vostro permesso, vorrei rispondere all'ultima osservazione del signor predicatore. Tutti sapete che questi santoni-maestri-predicatori-imam non amano i cani. Credo che dipenda dal fatto che il Profeta Maometto tagliò le falde del suo abito per non svegliare un gatto che ci si era addormentato sopra. Ricordando che analogo riguardo a noi non era stato mostrato e per l'interminabile guerra tra noi e i gatti - che anche l'uomo piú stupido sa che non hanno la minima riconoscenza - si è soliti affermare che Maometto, apostolo e profeta di Allah, fosse nemico dei cani. Non ci fanno entrare nelle moschee perché vanifichiamo l'effetto purificatore delle abluzioni, e le botte che da secoli ci prendiamo nei cortili delle moschee con i grandi manici delle scope dei custodi sono il risultato di quest'interpretazione errata e maligna. Vorrei ricordarvi una delle piú belle sure del Santo Corano, la Sura della Caverna, non perché in questa bella sala ci siano miscredenti che non leggono il Santo Corano, ma per rinfrescarvi la memoria. In questa sura si narra di sette giovani che, stufi di vivere tra gli infedeli, si rifugiarono in una caverna e si misero a dormire. Dio tappò loro le orecchie e li fece dormire per trecentonove anni esatti. Quando si risvegliarono, uno di loro, mescolatosi nuovamente alla gente, comprese quanti anni fossero trascorsi perché il denaro che possedeva era ormai fuori corso, e si stupí. Mi permetto di ricordarvi che nel diciottesimo versetto di questa sura che parla del legame tra il figlio dell'uomo e Allah, dei suoi miracoli, della contingenza del tempo, della dolcezza di un sonno profondo, si racconta anche di Eshabi Kehf, il cane accucciato sulla soglia della caverna dove dormivano i sette giovani. Certo, chiunque sarebbe orgoglioso di essere nominato nel Santo Corano. Io come cane mi vanto di questa sura e spero che faccia ragionare gli abitanti di Erzurum che chiamano i nemici «cani vagabondi». Allora, da cosa dipende questa ostilità nei confronti dei cani? Perché dite che il cane è sporco? Perché, seguendo i dettami imposti dalla nostra religione a chi voglia purificarsi, quando un cane entra in casa lavate ovunque per ben tre volte? Perché toccarci vanifica le sacre abluzioni? Perché se le falde del vostro caftano sfiorano i peli umidi di un cane bisogna poi lavarlo sette volte come farebbe una donna isterica? La fandonia secondo cui la pentola leccata da un cane va gettata o rifatta stagnare possono averla inventata solo gli stagnini. O forse i gatti. Noi cani siamo diventati sporchi quando avete abbandonato i villaggi, le campagne e la vita nomade per venire in città e i cani da pastore sono rimasti in campagna. Prima dell'Islam uno dei dodici mesi era quello del cane e adesso cane vuol dire malaugurio. Amici, questa sera non voglio rattristarvi con le mie pene, amici che volete ascoltare una storia e trarne una lezione, la mia rabbia è dovuta al signor predicatore che diffama le nostre sale. E se vi dicessi che non si conosceva neanche il padre di questo Husret di Erzurum? Voi direste, sei veramente un cane, il tuo padrone è un cantastorie, e tu per proteggerlo, pussa via, diffondi malignità sul signor predicatore. Allah non voglia! Io non maligno su di lui. A me piacciono molto le nostre sale da caffè. Sapete che non mi dispiace venire disegnato su un foglio cosí a buon mercato o essere un cane, ma mi dispiace non potermi sedere come voi uomini, e bermi un caffè con voi. Noi andiamo pazzi per il caffè e per le sale da caffè... Ma cos'è... Guarda, il mio padrone mi offre il caffè dal pentolino. Che dite, un disegno può bere il caffè? Guardate, guardate, il cane beve il caffè con la lingua. Ooh, mi ha fatto bene, mi ha riscaldato, mi ha rafforzato la vista, mi ha reso piú acuto e sentite cosa mi è venuto in mente. Sapete che cosa aveva inviato in dono il Doge di Venezia alla Sultana Nurhayat, figlia del Nostro Eccellente Sultano, oltre a rotoli e rotoli di sete cinesi e vasi di ceramica a fiori blu? Una civettuola cagnetta cristiana dal manto di seta, piú morbido dello zibellino. Questa cagnetta era talmente delicata che aveva anche un abitino di seta rossa. Lo so perché un mio amico se l'è scopata, e lei non si è tolta l'abitino neanche in quell'occasione. In Occidente tutti i cani indossano abiti del genere. E si racconta che una signora occidentale, presumibilmente molto fine, vedendo un cane nudo o il coso del cane, non so, esclamò: «Ah, un animale nudo!» e perse i sensi. Dicono che nel paese degli infedeli occidentali ogni cane ha un padrone e questi poveri cani vengono condotti a passeggio per le strade trainati con una catena al collo, incatenati come gli schiavi piú miserabili. Poi gli uomini li costringono a entrare in casa e se li portano addirittura a letto. I cani non possono annusarsi e fare l'amore, e non possono neanche andare a passeggio in due. E quando si incontrano con questo aspetto miserabile, con catene dappertutto, possono solo guardarsi da lontano con gli occhi tristi. Gli infedeli non arrivano a comprendere che noi siamo cani che girano in branco per le strade di Istanbul, in comunità, liberi, non riconosciamo padroni e, se necessario, fermiamo la gente per strada, ci mettiamo negli angoli caldi che ci piacciono, dormiamo profondamente all'ombra, cachiamo dove vogliamo e mordiamo chi vogliamo. Mi è venuto da pensare che i sostenitori del predicatore di Erzurum fossero contrari al fatto che la gente, pregando, gettasse carne ai cani come elemosina, che si costituissero a proposito delle pie fondazioni. Se questi, oltre a essere nemici dei cani, hanno anche intenzione di comportarsi crudelmente, vi faccio presente che già essere nemici dei cani è crudeltà. Spero che quando questi vigliacchi, di qui a breve, verranno giustiziati, gli amici boia, come fanno a volte per essere d'esempio, ci chiamino per darcene un pezzo da mangiare. Vi racconto un'ultima cosa: il mio padrone di prima era una persona molto corretta, di notte andavamo a rubare e poi ci dividevamo il bottino. Io iniziavo ad abbaiare e lui tagliava la gola alla vittima, cosí non si sentivano le urla. In cambio del mio aiuto faceva a pezzi i colpevoli che aveva punito, li faceva bollire e me li dava da mangiare. La carne cruda non mi piace. Speriamo che il boia del predicatore di Erzurum ci pensi, cosí da non costringermi a mangiare cruda la carne di quel disgraziato. Potrebbe farmi male allo stomaco. | << | < | > | >> |Pagina 24Capitolo quinto
Io sono vostro zio
Io sono lo Zio Effendi di Nero, ma anche altri mi chiamano zio. Un tempo fu la madre di Nero a volere che lui mi chiamasse cosí, poi cominciarono a farlo tutti e non solo Nero. Nero ha cominciato a venire a casa nostra trent'anni fa, dopo che ci eravamo trasferiti dietro Aksaray, in quella strada umida e buia, all'ombra di tigli e castagni. Era la casa prima di questa. Se d'estate partivo con Mahmut Pascià, in autunno, al mio ritorno a Istanbul, trovavo Nero e sua madre rifugiati a casa nostra. La sua compianta madre era la sorella maggiore della mia compianta moglie. A volte, nelle sere d'inverno, tornando a casa, vedevo sua madre e mia moglie abbracciate e in lacrime che parlavano dei loro problemi. Suo padre, un fallito che insegnava in piccole e remote scuole coraniche, era irascibile e rabbioso, e per di piú beveva. All'epoca Nero aveva sei anni, piangeva quando piangeva la madre, smetteva quando smetteva la madre, e guardava me, suo zio, con terrore. Adesso vedermelo davanti come un nipote deciso, maturo e rispettoso, mi rende felice. Il rispetto che mi mostra, l'attenzione che ha nel baciarmi la mano, il modo in cui ha detto «è solo per l'inchiostro rosso», quando mi ha regalato il calamaio mongolo, la postura composta in cui mi siede davanti a ginocchia unite, tutto questo mi ricorda ancora una volta che Nero è un uomo adulto, come vuole essere, ma anche che io sono un uomo anziano, come voglio essere. Somiglia a suo padre, che ho visto un paio di volte: è alto, magro, i gesti un po' nervosi, ma gli si addicono. Il modo in cui appoggia le mani sulle ginocchia, quello sguardo che sembra dire «capisco, ascolto con rispetto» mentre io racconto qualcosa di importante, e come muove il capo in sincrono con le mie parole, sono giusti. Giunto a quest'età, so che il vero rispetto non scaturisce dal cuore ma dalle piccole regole e dalla sottomissione. Scoprire che gli piacevano i libri durante gli anni in cui sua madre, vedendo in casa nostra un futuro per il figlio, lo portava spesso qui con ogni scusa, ci ha uniti e - come dicono quelli che abitano nella casa - mi ha fatto da apprendista. Gli raccontavo di come i miniaturisti di Shiraz tracciassero la linea dell'orizzonte nella parte superiore del disegno dando cosí origine a un nuovo stile. E di come il grande Maestro Behzat non disegnasse Mejnun come fanno tutti, un pazzo che per amore della sua Leyla girovaga stravolto per i deserti, ma mentre cucina, mentre cerca di accendere un fuoco soffiando sulla legna, mentre cammina tra le tende in mezzo a una folla di donne, facendo risaltare la sua solitudine molto meglio di chiunque altro. Gli spiegavo quanto fosse ridicolo che la maggior parte dei miniaturisti che disegna il momento in cui Cosroe contempla Sirin completamente nuda mentre si bagna nel lago nel cuore della notte, adoperi il colore per i cavalli e gli abiti degli innamorati in modo del tutto casuale, senza leggere il poema di Nizami, e che se un miniaturista è cosí distratto da non leggere con attenzione e intelligenza il testo che sta illustrando, l'unico motivo che lo spinge a impugnare penna e pennello non può essere che il denaro. Adesso sono felice perché vedo che Nero ha acquisito un'altra nozione basilare: se non vuoi avere delusioni dalla miniatura e dall'arte, stai ben attento a non considerarlo un lavoro. Anche se hai talento e tanta maestria, cerca il denaro e il potere in altri campi, cosí da non prendertela poi con l'arte qualora non riuscissi ad avere soddisfazioni in cambio delle tue capacità e del tuo lavoro. Mi ha raccontato che i miniaturisti e i calligrafi di Tabriz, che conosceva uno a uno perché commissionava loro libri per i pascià e i ricchi di Istanbul e di provincia, vivevano in disperata povertà. Molti miniaturisti, a Tabriz come a Mashhad o ad Aleppo, avevano smesso di illustrare libri perché poco pagati e poco apprezzati e avevano cominciato a fare disegni di una sola pagina, a disegnare stranezze e oscenità che divertivano i viaggiatori europei. Aveva sentito dire che il libro che scià Abbas aveva regalato al Nostro Sultano, durante l'accordo di pace, a Tabriz, era stato fatto a pezzi e che le sue pagine venivano usate per farne un altro. E che il Sultano indiano Ekber aveva cominciato a spendere talmente tanto denaro per un nuovo, grande libro, che i piú brillanti miniaturisti di Tabriz e Kazvin avevano lasciato il proprio lavoro ed erano accorsi al suo Palazzo. Mentre racconta tutto questo, di tanto in tanto inserisce con garbo altre storie nel discorso. Mi sorride e narra la divertente storia di un falso mahdi, o descrive l'agitazione dei saffavidi per la morte, dopo tre giorni di febbri altissime, di uno stupido principe dato in ostaggio agli uzbechi in cambio della pace. Ma da un'ombra sui suoi occhi capisco che la questione che spaventa entrambi, è difficile parlarne, non è ancora conclusa. Naturalmente, anche Nero, come ogni giovane che frequentava la nostra casa o che sentiva parlare di noi, o che era al corrente, anche solo alla lontana, della sua esistenza, era innamorato della mia unica e bellissima figlia, Seküre. Allora, forse, questo non era ai miei occhi qualcosa di pericoloso e a cui dare peso, dato che tutti erano innamorati della mia bellissima figlia, e molti senza averla neanche vista. Ma l'amore di Nero era l'amore disperato di un giovane che frequentava la nostra casa, che godeva della nostra ospitalità e del nostro affetto e che aveva occasione di vedere Seküre. Non è stato capace di seppellire dentro di sé il suo amore come speravo facesse, e ha commesso l'errore di confessare il violento incendio che aveva dentro direttamente a mia figlia. E cosí ha dovuto allontanarsi da casa nostra. Ormai anche Nero saprà che tre anni dopo aver lasciato Istanbul mia figlia si era sposata nel fiore degli anni con un cavaliere, un guerriero con la testa tra le nuvole che, dopo averle dato due figli maschi, è partito per la guerra senza piú tornare e da ben quattro anni nessuno ha sue notizie. Sento che sa già tutto, e non perché questi pettegolezzi e queste notizie a Istanbul si diffondono velocemente, lo so da come mi guarda negli occhi quando restiamo in silenzio. Inoltre, in questo momento ascolta il rumore che fanno i bambini per casa, mentre dà un'occhiata al Libro delle anime aperto sul tavolino da lettura, e sa che da due anni mia figlia è tornata a casa di suo padre con i figli. Con Nero non abbiamo parlato della nuova casa che ho fatto costruire durante la sua assenza. Probabilmente, come potrebbe pensare un giovane volonteroso che ha in mente di diventare ricco e stimato, Nero considera imbarazzante parlare di questi argomenti. In ogni modo, appena è entrato in casa, sulle scale gli ho detto che il secondo piano è sempre piú asciutto e che mi ha fatto bene per i dolori alle ossa traslocare qui. Mentre dicevo «il secondo piano» provavo uno strano imbarazzo, ma sappiate che chiunque, persone con molti meno soldi di me, anche i semplici cavalieri dotati di un piccolo feudo, presto potranno farsi costruire una casa a due piani. Eravamo nella stanza che d'inverno uso come studio. Ho intuito che Nero sentiva la presenza di Seküre nella camera accanto. Ho affrontato l'argomento di cui avevo già parlato nella lettera che gli avevo mandato a Tabriz per chiamarlo a Istanbul. «Proprio come facevi tu con i miniaturisti e i calligrafi a Tabriz, anch'io commissiono un libro, - gli ho detto. - Il mio committente è il Nostro Eccellente Sultano, fondamento dell'Universo. Trattandosi di un libro segreto, il Nostro Sultano ha fatto predisporre un fondo segreto dal Capo Tesoriere. Ho preso accordi con tutti i piú bravi miniaturisti del laboratorio del Nostro Sultano. A uno farò disegnare un cane, a un altro un albero, a uno gli ornamenti dei bordi e le nuvole all'orizzonte e a un altro ancora i cavalli. Voglio che questi disegni, proprio come i dipinti dei maestri veneziani, rappresentino tutto il mondo del Nostro Sultano. Ma non illustreranno le ricchezze terrene del Nostro Sultano, come farebbero i veneziani, bensí la sua ricchezza interiore, le gioie e le paure del suo mondo. Se c'è il denaro è per disprezzarlo e se ci sono Satana e la Morte è perché li temiamo. Non so cosa dicano i pettegoli. Voglio che a rappresentare il Nostro Eccellente Sultano e il suo mondo siano l'immortalità degli alberi, la stanchezza dei cavalli, la sfrontatezza dei cani. Voglio che i miei miniaturisti, che portano i soprannomi di Cicogna, Oliva, Raffinato e Farfalla, scelgano l'argomento come piú piace loro. Anche nelle piú fredde notti d'inverno, le piú iellate, un miniaturista del mio sultano viene di nascosto a farmi vedere quello che ha disegnato per il libro. «Che tipo di disegni sono e perché sono fatti cosí, per adesso non te lo posso dire precisamente. Non perché te lo voglia nascondere, o non te lo possa dire. Perché sembra che anch'io non sappia esattamente cosa raccontano i disegni. Ma so come dovrebbero essere». Avevo saputo dal barbiere della via dove abitavamo prima, che quattro mesi dopo aver ricevuto la mia lettera Nero era tornato a Istanbul, e cosí l'avevo invitato a casa. Sapevo che nella mia storia c'erano un dispiacere e una speranza di felicità che ci avrebbero uniti. «Ogni disegno racconta una storia, - proseguii. - Per rendere bello il libro che leggiamo, il miniaturista disegna la scena piú bella della storia. Il primo incontro degli innamorati, l'eroe Rüstem che taglia la testa del diabolico mostro, il dolore di Rüstem quando comprende che lo straniero che ha ucciso è il figlio, Mejnun impazzito per amore tra leoni, tigri, cervi e sciacalli, la tristezza di Alessandro Magno nel vedere la sua beccaccia fatta a pezzi da un'aquila gigantesca nel bosco dove era andato a trarre auspici dal volo degli uccelli prima di partire per la guerra... I nostri occhi che si stancano a leggere le storie si riposano osservando i disegni. Se c'è qualcosa che la nostra mente e la nostra immaginazione hanno difficoltà a realizzare, il disegno corre subito in aiuto. Il disegno è la fioritura a colori della storia. Nessuno può pensare un disegno che non abbia storia. «Credevo che non si potesse pensare, - ho aggiunto quasi pentito. - Ma poi ho visto che è possibile. Due anni fa sono stato di nuovo a Venezia, come ambasciatore del Nostro Sultano. Guardavo continuamente i ritratti fatti dai grandi maestri italiani. Senza sapere a quale scena di quale storia appartenesse il personaggio ritratto, ma cercando di capire e indovinare. Un giorno sono rimasto attonito di fronte a un dipinto sul muro di un palazzo». «Era il ritratto di un uomo, di uno come me. Un infedele naturalmente, non uno come noi. Mentre lo guardavo, sentivo di assomigliargli. In realtà non mi assomigliava affatto. Un volto senza ossa, rotondo, non c'erano zigomi né tracce del mio mento enorme. Non mi assomiglia affatto, ma chissà perché, quando lo guardavo mi faceva battere il cuore. «Seppi dal signore veneziano che mi fece visitare il suo palazzo, che il ritratto appeso al muro era quello di un suo amico, un nobile come lui. Aveva fatto mettere nel proprio ritratto tutto quello che aveva di importante nella vita: la fattoria nel panorama che si vedeva dalla finestra aperta alle sue spalle, il villaggio e un bosco che sembrava vero con tutti i colori mescolati. Sul tavolo, davanti a sé, aveva l'orologio, i libri, il Tempo, il Male, la Vita, la matita, la carta geografica, la bussola, scatole di monete d'oro, gingilli, altri oggetti che non conoscevo ma intuivo come in tanti disegni, chissà... L'ombra del genio, di Satana, e poi la sua bellissima figlia, un sogno, accanto al padre. «Quale storia si voleva abbellire e completare con questo disegno? Mentre lo guardavo, capivo che la storia di questo ritratto era lui stesso. Il ritratto non era il proseguimento di una storia, era una cosa a sé. «Non riuscivo a togliermi dalla testa il dipinto davanti al quale ero rimasto cosí colpito. Uscii dal palazzo, tornai nella casa dove ero ospite e ci pensai per tutta la notte. Avrei voluto essere dipinto anch'io cosí. No, non posso osare tanto, è il Nostro Sultano che deve essere ritratto cosí! Bisogna ritrarre il Nostro Sultano con quello che possiede, insieme a tutte le cose che mostrano e circondano il suo mondo. Pensai che con questa idea si potesse illustrare un libro. «Il maestro italiano aveva ritratto il signore veneziano in modo da far capire subito che il disegno rappresentava quel signore. Anche senza conoscere quell'uomo, se ti dicessero di trovarlo in mezzo alla folla, grazie al ritratto potresti riconoscerlo tra migliaia di persone. I maestri italiani hanno scoperto il modo e l'arte di dipingere che differenziano un uomo qualsiasi dagli altri mettendo in evidenza la forma del volto, non i vestiti e le medaglie. Questo è ciò che chiamano ritratto. «Una volta che il tuo volto è stato dipinto cosí, non puoi piú essere dimenticato. Anche se sei molto lontano, chi guarda il tuo ritratto ti sente dentro come se fossi vicino. E tutti coloro che non ti hanno mai visto quando eri in vita, anni dopo la tua morte, potranno guardarti negli occhi come se tu fossi davanti a loro». Siamo rimasti a lungo in silenzio. Dalla parte superiore della piccola finestra che dava sulla strada filtrava una luce da brivido, aveva il colore del freddo che c'era fuori. Era la finestra che avevo ricoperto da poco di tela cerata, quella di cui non aprivamo mai le persiane inferiori. «C'era un miniaturista, - gli ho detto. - Veniva da me di nascosto, come gli altri miniaturisti, e lavoravamo fino all'alba a questo libro segreto del Nostro Sultano, era quello che faceva le dorature migliori. Povero Raffinato Effendi, una notte è uscito di qui e non è piú tornato a casa. Ho paura che il mio doratore piú esperto sia stato eliminato». | << | < | > | >> |Pagina 67Capitolo dodicesimo
Mi chiamano Farfalla
Poco prima della preghiera di mezzogiorno suonarono alla porta, andai a vedere: era Messer Nero. Quando ero apprendista, per un certo periodo era stato dei nostri. Ci abbracciammo e ci baciammo. Stupito, stavo per chiedergli se portasse notizie di suo zio quando disse che voleva vedere i miei disegni, le mie tavole, che era venuto in amicizia e mi avrebbe fatto una domanda da parte del Nostro Sultano.
Dissi, va bene. Che domanda mi tocca? Me lo disse. Va bene!
LO STILE E LA FIRMA
Finché crescerà il numero di coloro che non disegnano per il piacere
dell'occhio e la fede, ma per il denaro e la fama, vedremo molte cose brutte e
molta avidità dovute alla preoccupazione di possedere uno stile e apporre una
firma. Non lo ripetevo perché ci credevo ma perché andava fatto: il vero talento
e la vera arte non si guastano neanche con la brama di oro e di fama. Anzi, a
dire il vero, come nel mio caso, il denaro e la fama sono diritti di chi ha
talento e lo stimola. Ma se lo dicessi, i miniaturisti mediocri, quelli
che muoiono di gelosia, mi darebbero addosso per essermi sbilanciato troppo e mi
toccherebbe disegnare un albero su un chicco di
riso per dimostrare che amo il lavoro piú di quanto non lo amino
loro. So bene che lo stile e questa brama di firma e personalità sono arrivati
dall'Oriente, per l'influenza di alcuni poveri maestri cinesi traviati e
ingannati da disegni occidentali portati da preti gesuiti, sono ormai qualcosa
di molto vicino. A questo proposito, vorrei raccontarvi tre storie, in modo da
trarne una lezione:
TRE ESEMPI DI STILE E DI FIRMA Alif
C'era una volta un giovane khan amante della miniatura e della pittura che
viveva nella sua fortezza tra le montagne a Nord di Herat. Il khan amava solo
una donna del suo harem. E la bellissima ragazza tartara di cui era pazzo
ricambiava il suo amore. Si amavano sudando come matti fino all'alba ed erano
tanto felici da desiderare che la loro vita continuasse sempre cosí. Scoprirono
che la via migliore per realizzare questo loro desiderio era aprire i libri e
guardarli per ore e ore, giorni e giorni, guardare senza mai fermarsi i perfetti
e meravigliosi disegni dei vecchi maestri. Guardando i
disegni perfetti delle favole che si ripetevano senza mai cambiare
sentivano che il tempo si fermava e la loro felicità si confondeva
con il tempo beato del periodo d'oro narrato dalla favola. Nel laboratorio di
miniatura del khan c'era un miniaturista, maestro dei
maestri, che riproduceva gli stessi disegni per le pagine degli stessi libri con
la stessa perfezione. Per sua abitudine, quando disegnava su una pagina le pene
d'amore di Ferhat per Sirin, gli sguardi ammirati e nostalgici di Mejnun e Leyla
che si incontrano, Cosroe e Sirin che si fissano con sguardi espressivi e pieni
di significato nel paradisiaco giardino da fiaba, al posto degli innamorati il
maestro disegnava il khan e la bella tartara. Quando il khan e la sua
amata osservavano queste pagine pensavano veramente che la loro
felicità non avrebbe mai avuto fine e riempivano il maestro di oro
e di lodi. Alla fine, quest'abbondanza di oro e complimenti traviò
il maestro che, con lo zampino di Satana, dimenticò di dovere la
sua perfezione agli antichi maestri e credette, orgoglioso, che se vi
avesse messo qualcosa della sua personalità i disegni sarebbero piaciuti di piú.
Invece, il khan e la sua amata accolsero queste novità,
le tracce dello stile personale del miniaturista, come difetti, e se ne
dispiacquero. Quando il khan senti che la loro felicità di un tempo
nei disegni che guardavano tanto a lungo qua e là si era guastata,
innanzitutto divenne geloso della bella tartara, perché veniva disegnata sempre
per prima sulle pagine. Poi, per far ingelosire la bella tartara fece l'amore
con un'altra concubina. Quando la bella tartara lo venne a sapere dai pettegoli
dell'harem, si rattristò talmente che si impiccò in silenzio a un cedro nel
cortile dell'harem. E il khan, resosi conto del suo errore e capito che dietro
tutta la faccenda c'era la brama di stile del miniaturista, quello stesso giorno
fece accecare il maestro traviato da Satana.
Ba
C'era una volta, in un paese d'Oriente, un anziano e felice re
appassionato di miniatura che viveva felicemente con la sua bellissima nuova
sposa cinese. Nel tempo, i cuori dell'avvenente figlio di primo letto del re e
della giovane moglie si avvicinarono. Il figlio, terrorizzato dall'idea di
tradire il padre, vergognandosi del
suo amore proibito, si chiuse nel laboratorio e si dedicò alla pittura. Dato che
disegnava con tristezza e con la forza dell'amore, i
suoi disegni erano cosí belli che guardandoli non si riusciva a distinguerli da
quelli degli antichi maestri e suo padre il re ne era
molto orgoglioso. La giovane moglie cinese guardava i disegni e diceva: «Sí, è
molto bello! Ma passeranno gli anni, e se non mette
la sua firma nessuno saprà che l'autore di questa meraviglia è lui».
E il re diceva: «Se mio figlio firma, non si appropria ingiustamente
di un disegno fatto imitando gli antichi maestri? E poi, firmare,
non sarebbe come affermare che il disegno porta il suo difetto?»
La moglie cinese, resasi conto di non poter convincere l'anziano
marito, riuscí a persuadere dei suoi ragionamenti sulla firma il figlio chiuso
nel laboratorio. Ferito nell'orgoglio per aver dovuto
seppellire il suo amore, il figlio volle credere all'idea della sua giovane e
bella matrigna e, con lo zampino di Satana, appose la sua
firma in un angolo di un disegno, un angolo che pensava non si vedesse
assolutamente, tra l'erba e il muro. Il primo disegno che
firmò era una scena tratta dal
Cosroe e Sirin.
Si sa, dopo il matrimonio con Sirin, Siruye, figlio di primo letto di Cosroe,
si innamora di lei e una notte entra dalla finestra e conficca il pugnale nel
cuore del padre che le dorme accanto. Ecco, mentre l'anziano re
guardò la scena disegnata dal figlio, all'improvviso intuí un difetto, aveva
visto la firma, ma come capita a molti di noi, non si rese conto di averla
proprio vista, ebbe solo la sensazione di aver visto «un disegno difettoso».
Dato che non era nello stile degli antichi maestri, l'anziano re si agitò.
Questo significava che il volume che leggeva non raccontava una storia, una
leggenda, ma qualcosa di meno adatto a un libro, una verità. Quando il vecchio
lo intuí, ebbe paura. E in quello stesso istante, come nel disegno, il figlio
miniaturista entrò dalla finestra e senza guardare gli occhi del
padre sbarrati per la paura, conficcò il pugnale, grande come quello del
disegno, nel petto del padre.
Gim
Nella sua opera storica, Rasidüddin di Kazvin scrive con piacere che
duecentocinquant'anni fa, a Kazvin, la decorazione dei libri,
la calligrafia e la miniatura erano le arti piú stimate e amate. Lo scià
allora al trono, che dominava quaranta paesi, da Bisanzio fino alla
Cina (l'amore per la miniatura può essere il segreto di questo grande potere),
purtroppo non aveva un figlio maschio. Quando lo scià
decise di dare in moglie la sua bella figlia a un intelligente miniaturista,
perché i paesi conquistati non si dividessero, organizzò una
gara tra i tre grandi giovani maestri scapoli del suo laboratorio. A
quanto racconta Rasidüddin, le regole della gara erano molto semplici: vince chi
fa il disegno piú bello! Dato che, proprio come
Rasidüddin, anche i giovani miniaturisti sapevano che questo significava
disegnare come gli antichi maestri, tutti e tre disegnarono
la scena piú amata. In un giardino paradisiaco, tra cipressi e cedri,
conigli timidi e rondini in volo, una bella fanciulla con gli occhi fissi a
terra soffriva le pene d'amore. Colui che piú voleva emergere
tra i tre che, l'uno all'insaputa dell'altro, proprio come gli antichi
maestri, fecero lo stesso disegno, per appropriarsi della bellezza del
disegno nascose la sua firma nel luogo piú segreto, tra i narcisi. Ma
per questa insolenza, che lo allontanò dalla modestia degli antichi
maestri, venne cacciato da Kazvin ed esiliato in Cina. Cosí si fece
una seconda gara tra gli altri due maestri. Questa volta, entrambi
fecero un disegno bello come una poesia, che mostrava una bella fanciulla in un
giardino meraviglioso, a cavallo. Uno dei due miniaturisti aveva disegnato uno
strano naso al bianco destriero della fanciulla dai lineamenti orientali, non si
capiva se l'avesse fatto apposta o per errore, ma il particolare venne notato da
padre e figlia come un difetto. Il miniaturista non aveva apposto la sua firma,
ma per far risaltare il suo meraviglioso disegno aveva abilmente messo un
difetto al naso del cavallo. Il difetto è la madre dello stile, disse lo
scià, e mandò il miniaturista in esilio a Bisanzio. Secondo l'enorme
volume di Rasidüddin di Kazvin, mentre fervevano i preparativi per
le nozze tra la figlia dello scià e l'abile maestro che aveva disegnato
senza firmare e senza un difetto, proprio come gli antichi maestri,
accadde dell'altro. Alla vigilia delle nozze, la figlia dello scià passò
la giornata a guardare tristemente il disegno fatto dal giovane e avvenente
maestro che l'indomani sarebbe diventato suo sposo. Mentre scendeva il buio
della sera, andò dal padre e gli disse: «Nei loro meravigliosi disegni, gli
antichi maestri disegnavano le belle fanciulle
come cinesi e questa è una regola immutabile che viene dall'Oriente, è giusto.
Ma quando ne amavano una, lasciavano un segno, qualcosa della loro amata sulle
sopracciglia, sugli occhi, sulle labbra, sui
capelli, sul sorriso, sulle ciglia della donna disegnata. Questo difetto segreto
sistemato nei disegni era il segno del loro amore, lo potevano trovare solo loro
e le loro amate. Ho guardato tutto il giorno
il disegno della bella fanciulla a cavallo, caro padre, e in lei non vi è
segno di me! Questo miniaturista è forse un grande maestro, è giovane e
avvenente, ma non mi ama». Cosí lo scià annullò immediatamente le nozze e padre
e figlia vissero insieme per tutta la vita.
«Allora, secondo questa terza storia, il difetto che dà origine a quello che chiamiamo stile, si rivela da un segno segreto nel viso, negli occhi e nel sorriso della bella di cui è innamorato il miniaturista», domandò Nero con un atteggiamento gentile e rispettoso. «No, — dissi con aria fiera e sicuro di me. — Alla fine, quel che passa nel disegno della fanciulla che ama, non è piú un difetto ma diventa regola. Dopo un po' tutti cominciano a imitare il maestro e disegnano i volti delle fanciulle uguali a quello». Rimanemmo un po' in silenzio. Quando vidi Nero che aveva ascoltato attentamente le mie tre storie, distratto dai rumori che faceva mia moglie camminando nella stanza accanto e nell'anticamera, cominciai a fissarlo negli occhi. «La prima storia dimostra che lo stile è un difetto, — dissi. — La seconda che il disegno perfetto non ha bisogno di firma. E la terza, unisce i concetti della prima e della seconda e dimostra che la firma e lo stile non sono altro che una stupida e insolente vanità». Ma cosa capiva della miniatura quest'uomo a cui stavo dando una lezione? Gli dissi: «Hai capito dalle mie storie chi sono?» «Si, l'ho capito», rispose, ma non sembrava affatto convinto. Non cercate di capirmi attraverso il suo sguardo e la sua percezione, ve lo dico direttamente io chi sono. Sono capace di fare qualsiasi cosa. Disegno e coloro, divertendomi e ridendo come gli antichi maestri di Kazvin. Sono migliore degli altri e lo dico con il sorriso. E non ho assolutamente nulla a che fare con la scomparsa di Raffinato Effendi, motivo per cui Nero è venuto qui, se le mie intuizioni sono giuste. Nero mi chiese come si conciliavano il matrimonio e l'arte.
Lavoro molto e lo faccio con piacere. Mi sono appena sposato
con la piú bella ragazza del quartiere. Quando non dipingo facciamo l'amore come
matti. Poi torno al mio lavoro. Ma non gli risposi in questo modo. Gli dissi che
era una questione molto importante. Gli dissi che se un miniaturista fa
meraviglie con il suo pennello sul foglio, quando giace con sua moglie non può
essere altrettanto alacre. Ma potrebbe essere vero anche il contrario, aggiunsi:
se il pennello del miniaturista rende felice sua moglie, sul
foglio l'altro pennello non prilla altrettanto. Come tutti coloro che
sono gelosi del talento dei miniaturisti, anche Nero credette a queste bugie e
se ne rallegrò.
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