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| << | < | > | >> |IndicePrefazione (Fabio Grigenti) 7 Introduzione 11 PARTE PRIMA SIMBOLI NELLA PERIFERIA DELL'ABITARE 13 I. Cose e case parlanti 15 II. Dagli indizi alle prove 25 III. Un Pisolo in giardino 33 IV. Quasi un piccolo dizionario 37 PARTE SECONDA FISIOGNOMICA E ARCHITETTURA 67 V. Dalle prove agli indizi 69 VI. Il volto specchio dell'anima 77 VII. Faccia a faccia 83 VIII. Fisiognomica vista dal vivo 91 PARTE TERZA PER UN'ARCHITETTURA SOCIALE 95 IX. Volto e alterità 97 X. Verso una progettazione nonviolenta 101 Conclusioni 107 Riferimenti bibliografici 110 |
| << | < | > | >> |Pagina 15Quante volte ci siamo sentiti come dispersi, travolti dalla sterminata massa d'informazioni e di stimoli che ci piovono addosso da ogni angolo del globo e di cui fatichiamo a comprendere il significato reale? Un senso di smarrimento che ci assale nel comprendere che le informazioni che continuano a bombardarci sono sterili notizie se non sono animate da un'attività vivente che dia loro una consistenza, un senso. Così ci troviamo a giudicare le vite, le storie, le azioni d'altre genti senza riconoscere in queste il significato reale della loro esistenza. Il problema è che l'enorme massa d'informazioni accessibili attraverso i mezzi di comunicazione non sono in realtà conoscenza ma, molto spesso, semplicemente superficiali notizie. Crediamo di sapere tutto di come si vive a New York, a Parigi, o in qualunque altra parte del mondo, ma sappiamo sempre meno cosa significa vivere nel nostro territorio, nel nostro ambiente, quale sia il significato profondo del concetto di abitare. Perché la civiltà dell'informazione, pur offrendo all'individuo una serie infinita di possibilità di scelta, non concede a tutti i mezzi conoscitivi e pratici per trasformare quelle che sono possibilità di crescita culturale e sociale in certezze esistenziali. Un qualunque abitante del «mitico Nordest» può desiderare e immaginare di vivere nello scintillante mondo hollywoodiano o nel bucolico «Mulino bianco»; ma la sua realtà si presenta poi in tutta la sua crudezza fatta di sterminate periferie o di piatte lottizzazioni. Tutto questo produce una situazione di disagio e incertezza che degenera quasi sempre nell'impossibilità di distinguere ciò che è primario da ciò che è secondario, ciò che è reale da ciò che è fittizio, un modello qualunque da quello più adeguato al proprio modo di vivere e al proprio habitat naturale. Gli orizzonti dell'individuo, inseguendo i miti di un falso benessere, si riducono così all'esperienza quotidiana fatta di desideri che appartengono al magico mondo catodico e che difficilmente troveranno realizzazione nel vivere quotidiano. Crediamo che l'abbandono culturale del territorio in cui viviamo, la mancanza di partecipazione e di critica verso situazioni abitative insostenibili, la perdita di senso della tradizione e del gusto, siano le espressioni più conformi a questo sentire, insieme a un senso di mancato appagamento e alla dissociazione tra realtà sognata e realtà vissuta. Come si spiegherebbe altrimenti l'accettazione incondizionata dello stato di fatto da parte di chi vive quotidianamente le zone artigianali, fatte da anonimi cubi di cemento, oppure le ormai sterminate periferie di casette a schiera. Viviamo un territorio in continua mutazione governato quasi esclusivamente da un variopinto universo mercantile. Una realtà dove le mode abitative prevalgono sul senso dell'abitare e non producono né oggetti né fatti, ma soltanto segni fugaci, fittizi punti di riferimento. Nel vivere, nel vestire, ma anche nell'abitare, molte persone inseguono modelli e stereotipi che non appartengono loro, identificandosi in bisogni indotti da una cultura che impone modelli pensati e costruiti per essere consumati e subito rimpiazzati. Perché questo è quanto impongono le regole di mercato! Così si è passati dalla «villetta del geometra» (imperfetta copia della villa hollywoodiana), alla casetta in presunto stile tradizionale (il «Mulino bianco» dei biscotti), passando per «copie autentiche» di case di campagna con porticato, fienile e archetti (un po' schiacciate o allungate, ma questo poco importa) che non hanno nulla a che vedere con le sobrie proporzioni della tradizione. In questa volatilità culturale, nelle campagne o nelle periferie urbane si sta imponendo un non-modello, il cui unico ancoraggio estetico è il ritorno a un passato mitico di cui si sono perse le radici e il senso e di cui si ha un vago ricordo, una risonanza, un «sentito dire». Si potrebbe parlare, come sostiene Paolo Rumiz, di una forma di spaesamento: [...] di un horror vacui che deriva da una modernità che dissolve le apparenze e produce «svariate forme di un nuovo investimento simbolico». Da cui un bisogno di «riterritorializzare», cioè «reinvestire nelle risorse locali di identificazione», sotto forma di ritorno all'abituale, all'antico. Il fatto è che, ripiegandosi nell'abituale, le società locali «si sono scoperte deboli», in preda a uno stress cui «solo livelli più alti di scambio», e non già improbabili ritorni alle origini, potrebbero porre rimedio. In questo vuoto, per tornare a dare un senso alla parola «abitare», l'architettura non può che cercare di essere uno strumento per riflettere sulla metafisica della nostra esistenza, per comprendere le ragioni profonde del nostro essere. Pensiamo che la perdita di consapevolezza simbolica dell'abitare contemporaneo abbia reso l'individuo completamente estraneo alle logiche che hanno generato il territorio e i manufatti in cui si è trovato a vivere: l'occhio non riesce più a percepire delle tracce che riconducano l'oggetto o l'edificio a qualcosa di conosciuto, non riesce a trovare degli indizi che lo rendano familiare, nominabile. Oggi la visione del reale si dissolve in uno stato in cui la dimensione fisica dell'abitare perde progressivamente di significato e il cui valore simbolico, in quanto componente della realtà percettiva, lascia spazio ad altre forme di valutazione di spazio e di tempo, senza alcuna misura in comune con le fonti del passato. Il progressivo affinarsi stilistico dell'architettura accademica e la completa autonomia disciplinare hanno reso, del resto, qualunque esempio architettonico alto appannaggio esclusivo di un pubblico da «rivista patinata». L'estrema specializzazione del sapere accademico ha inibito la capacità di comprendere i problemi collocandoli nella realtà del vissuto. È impossibile non prendere coscienza dell'abisso che si è venuto a formare tra quella che viene definita come «cultura bassa» e la «cultura alta»; due universi incompatibili dove si trovano, da un lato, quelle forme di sottocultura imposte dai mass media, dalla manipolazione commerciale e da una cultura «fai da te» e, dall'altro, eterei e incomprensibili virtuosismi mentali avulsi da qualunque tipo di realtà.
La «cultura bassa» nell'indecisione si rifugia così nei miti del
consumo o in un ossessivo ritorno alla tradizione interpretata in
maniera grottesca e deforme, come puro attaccamento a valori
solidi e permanenti.
Dovremmo però riflettere prima di emettere il solito giudizio di condanna. È proprio in questa cultura che si rispecchia affettivamente il pubblico: nei modelli televisivi, nei nanetti, piuttosto che nelle solide riletture di un passato mitico. Mentre da un lato si costruisce una falsa identità sociale, dall'altro la miopia del sapere crea barriere insormontabili. Non è pensabile continuare a guardare i fenomeni dell'abitare di massa come a fenomeni di marginale imbarbarimento, perché essi si stanno imponendo come cultura dominante; non si può liquidare, snobbando, il reale significato di «senso comune» in quanto esso è portatore, anche se deforme, di un bisogno, del desiderio dell'individuo di ricercare valori e significato alla propria esistenza. Nostro compito è cercare di comprendere e trasmettere il significato profondo della realtà, infrangendo le barriere tra «cultura alta» e «cultura bassa». È quindi indispensabile, attraverso un processo partecipativo, «trasformare l'architettura in modo che risulti comprensibile per la mente e per i sensi, quindi capace di sollecitare la partecipazione». È necessario lavorare alla costruzione di una «cultura dei bisogni», in cui le cose e le case riacquistino significato e tornino a essere nominate e nominabili. | << | < | > | >> |Pagina 40PISOLO IN GIARDINOÈ fuor di dubbio che i nani siano l'oggetto decorativo da giardino più diffuso in tutta Italia e sicuramente in tutta l'Europa del Nord. I nani hanno conosciuto in tempi recenti un enorme successo di pubblico anche grazie al movimento goliardico denominato Fronte di liberazione del nanetto da giardino. Un fenomeno nato in Francia e in Germania che si è rapidamente diffuso in tutt'Europa e che ha portato il nanetto alla ribalta di tutti i media facendone oltre che un'icona del cattivo gusto anche l'immagine di una forma di rivolta sociale difficilmente classificabile. Questo fenomeno ha confermato la fama commerciale che i nanetti si sono conquistati a partire dalla metà del secolo scorso, quando hanno iniziato a essere prodotti su scala industriale fino a diventare, al giorno d'oggi, oggetto di design grazie al ridisegno in chiave ironica del notissimo designer francese Philip Stark. I nani «venuti dal mondo sotterraneo al quale rimangono legati, rappresentano le forze oscure che sono in noi e hanno facilmente sembianze mostruose; per la libertà di linguaggio e di gesti che si permettono presso i re, le dame e i grandi del mondo, essi personificano le manifestazioni incontrollate dell'inconscio». È indubbio che la diffusione di queste statuine debba la sua fortuna al successo attribuitogli da Walt Disney, ma è altrettanto evidente, a nostro avviso, il fatto che queste rappresentazioni umane abbiano un forte valore simbolico, non tanto come motivo apotropaico, quanto come mezzo attraverso cui si esorcizza la paura dell'ignoto, dell'inconscio, del sotterraneo. Come ci fa giustamente notare Gaston Bachelard a proposito della paura dell'ignoto: Il terrore cosmico può prendere in seguito corpo in un oggetto particolare, ma esso è presente in un'ansia universale ancor prima che l'oggetto venga definito. I nanetti sono un modo di guardare il lato oscuro del nostro essere, ridicolizzandolo. Attraverso i colori sgargianti, le forme goffe, ma anche deridendo il nanismo, si esorcizza la paura del diverso del deforme, del non-integrato. Il ruolo di queste statuine è quello di anestetizzare le angosce per un futuro ignoto e sconosciuto. Secondo Gianni Celati l'unica cosa che i nanetti ci fanno capire è «quanto siamo estranei e inadatti alla vita 'piena di pena', l'unica che c'è (calamità, dolore, morte). E come tutto lavori a dismemorarci, ci aiuti a mettere degli argini, per poter dire che 'ha i suoi lati buoni', per mettere i nanetti di Walt Disney davanti alla porta; insomma per dire e mostrare sempre e dovunque che è una cosa tutta diversa da quello che è». | << | < | > | >> |Pagina 83La nostra ricerca di un linguaggio fisiognomico in architettura ha avuto modo di trovare verifica pratica in alcuni progetti realizzati per una committenza curiosa che, con una certa dose di coraggio, è stata coinvolta in questa ricerca. Di seguito proponiamo alcune immagini di progetti che hanno sviluppato il filo logico del nostro ragionamento. Si tratta di «appunti di lavoro», tracce che solo in seguito sono giunte a concretizzare un discorso organico. Sono dettagli o edifici nati con lo stesso spirito: mettere in risonanza l'osservatore con la dimensione dell'immaginario. Queste tracce sono servite a maturare un discorso che dopo alcuni anni di esperienze puntiformi ha trovato l'occasione concreta per mettere a frutto queste sperimentazioni nella costruzione della sede di un istituto bancario che si occupa di finanza etica. Nel pensare l'edificio della banca abbiamo cercato di mostrare il volto delle persone che l'hanno animato e che quotidianamente lo vivono, ma anche quelle idealità che hanno permesso di portare questa strana arca, fatta di mille individualità, a concretizzare un sogno che soltanto pochi anni fa poteva sembrare un'utopia. Per questo l'edificio doveva avere qualcosa di speciale, una presenza forte in grado di rielaborare un senso di identità e riecheggiare la storia di questo universo di ideali in viaggio. La ricerca di una riconoscibilità ha seguito, quindi, un percorso all'interno dell'immaginario, un racconto ricercato nell'urbanità della città di Padova ma anche nelle mille storie raccontate da quel mondo del volontariato che ha dato vita alla banca. Appunto per questo abbiamo pensato all'arca. L'arca come viaggio mitico ma anche come contenitore simbolico, come vascello che porta verso. Attraverso l'arca si è voluto evocare l'uomo, la sua storia; e cosa poteva rappresentare meglio l'immagine dell'uomo da noi evocata se non il suo volto? L'immagine dell'arca è stata solamente un pretesto per iniziare un dialogo il cui fine ultimo è stato la rappresentazione dell'uomo, un viaggio per arrivare alle sue radici. Ecco, allora, che l'arca è diventata volto e il volto racconto. | << | < | > | >> |Pagina 104Riteniamo che la progettazione debba ritrovare interesse al significato d'individuo, di cultura, di società, di simbolo, di pace, ritrovando quei modelli che possano condurre a un rinnovamento sociale non più basato su rapporti violenti tra gli individui. Recuperando quei valori solidali che fanno di noi un aspetto della natura, ci rapportiamo nuovamente non soltanto con i nostri bisogni e interessi ma anche con i significati intrinseci alla natura stessa. Ciò significa tanto umanizzazione della natura quanto naturalizzazione della società, ma significa anche esaltazione dell'autonomia dell'individuo senza la perdita dei forti legami comunitari.È necessario lavorare alla costruzione di una cultura dei bisogni, in cui le cose riacquistino significato e tornino a essere nominate e nominabili. In questo contesto è indispensabile ripensare il linguaggio dell'architettura come atto inclusivo, partecipativo. Questo diverso modo di intepretare il linguaggio dell'architettura si attesta sul principio di necessità, sul principio di responsabilità verso l'azione, sul principio di responsabilità verso l'alterità e l'ambiente. Sono principi universali che coprono l'intera sfera dell'esistenza sia individuale che collettiva. Pensare a un linguaggio dell'architettura a partire dall'interesse delle generazioni presenti ma anche future, e dell'ambiente presente ma anche di quello che potrebbe diventare in futuro, significa ripensare al ruolo del progetto e alle modalità con cui esprimerlo affinché possa diventare testo parlante. Da un lato, quindi, un'assunzione di responsabilità nei confronti dell'ambiente animato e inanimato, dall'altro un'assunzione di responsabilità nei confronti dell' altro inteso come comunità di umani in un rapporto egualitario, il tutto visto in una costante relazione sistemica. La «saggezza sistemica» di cui parla Gregory Bateson è a nostro avviso racchiusa in un atteggiamento nonviolento che Bateson stesso individua in quell'umiltà intesa «non come principio morale» ma come «elemento di una filosofia scientifica», quella filosofia scientifica che ha scoperto che «l'uomo è solo una parte di più vasti sistemi e che la parte non può controllare il tutto». Perché, quindi, non pensare al linguaggio dell'architettura come a un sistema di relazione tra ecosistemi ed ecoide umano? Perché «la carenza di saggezza sistemica è sempre punita: si può dire che i sistemi biologici (l'individuo, la cultura e l'ecologia) sono in parte supporti viventi delle loro cellule, o organismi componenti. Ma i sistemi nondimeno puniscono ogni specie che sia tanto stolta da non andare d'accordo con la propria ecologia». La coscienza di essere parte significa cambiare atteggiamento nei confronti del linguaggio dell'architettura, inteso così come parte di un sistema più vasto di relazioni tra umano e non umano, di naturale e innaturale, ma anche di storie, di vite, di passioni, della minuta realtà di tutti i giorni. La consapevolezza sistemica può portare quindi alla consapevolezza che anche un piccolo gesto può provocare mutamenti catastrofici a livello planetario. Una consapevolezza sistemica che ci obbliga innanzi tutto alla presa di coscienza della necessità del nostro agire. Tale faticoso e lento processo possiamo definirlo progettazione nonviolenta. Questa non costituisce nulla di nuovo, tanto meno si pone come una nuova disciplina: vuole soltanto mettere in risonanza buone pratiche che troppo spesso vivono autonomamente. Il linguaggio dell'architettura diviene così strumento di azione politica, strumento di comunicazione tra gli umani. Rompendo la logica di una fasulla neutralità disciplinare, si rivendica il diritto dell'architettura a comunicare, attraverso la sua materialità, un rinnovamento dell'universo valoriale incentrato sul rispetto dell' altro e dell'ambiente.
La ricerca di un linguaggio in grado di comunicare questi
valori diviene allora un obiettivo disciplinare primario dell'architettura.
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