Copertina
Autore Michele Paolini
Titolo Breve storia dell'impero del petrolio
Edizionemanifestolibri, Roma, 2003, Tempo e democrazia , pag. 174, dim. 144x210x11 mm , Isbn 978-88-7285-285-9
LettoreRiccardo Terzi, 2003
Classe economia , politica , storia contemporanea , energia
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Indice


Capitolo 1.  Le vie del petrolio              7

Capitolo 2.  Sangue nei corridoi             19

Capitolo 3.  Scafisti del capitale           33

Capitolo 4.  Gli oleodotti e il limes        41

Capitolo 5.  L'oleodotto della discordia     47

Capitolo 6.  In Asia a macchia d'olio        57

Capitolo 7.  La globalizzazione dell'Iran    67

Capitolo 8.  La mano visibile                77

Capitolo 9.  Essential Harvest in Macedonia  89

Capitolo lO. L'Europa dei corridoi e
             il nuovo quadro strategico      93

Capitolo 11. America off-line               107

Capitolo 12. Il Caspio americano            117

Capitolo 13. Alla conquista del petrolio    135

Capitolo 14. L'attacco all'«Axis of Evil»   149

 

 

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Pagina 107

11. AMERICA OFF LINE
Le implicazioni economiche e finanziarie dell'11 settembre



Un'illusione è finita 1'11 settembre. Il sistema mondiale non è come i suoi leader l'avevano rappresentato. Non è efficiente, non è perfettamente virtuale e non è funzionante a mo' di circolo virtuoso, con i consumatori e i produttori, i risparmiatori e gli investitori seduti intorno ad un'ideale tavola rotonda - la grande giostra del mercato - e indaffarati a interpretarne le grandi linee di tendenza, a cercarne costantemente la sintonia, a conferirgli un consenso e una sostanza altrimenti mancanti.

È finita l'illusione di vedere sciogliersi nelle armonie universali tutti i nodi del mondo: le aspettative, le risorse, il lavoro, i modelli decisionali, gli stili di vita, i sistemi di valori, le relazioni e i modelli di relazione, gli interessi sempre e immancabilmente asimmetrici e divergenti.

L'11 settembre porta la crisi fin dentro i circuiti del linguaggio. Gli scritti preparati prima dell'11 settembre e pubblicati subito dopo riportano immancabilmente in calce la data di stesura. Vengono cioè dichiarati, in una certa misura, scaduti. Rinviano a un altro contesto, poi completamente scompaginato. A meno che non avessero già allora assunto una forma incompiuta o aperta corrispondente alla natura turbolenta degli avvenimenti. Quello del diario è probabilmente il modello di scrittura più consono al carattere irrisolto, aperto e accelerato dei processi in atto nei giorni del settembre 2001.


11 settembre 2001

Giacche abbandonate, muri sventrati, ferri contorti, fogli sparsi nell'aria, scrivanie sbriciolate sotto valanghe di calcinacci. Così finisce Wall Street 1'11 settembre 2001. Impensabile? L'unico crollo concepibile era quello borsistico. Crollo figurato, cifrato, intangibile. Come il valore «creato» dai manager per gli investitori. Quasi scaturisse dal nulla. Oppure, altrettanto astrattamente, valore «distrutto» o «bruciato» in un batter d'occhi speculativo, alla variazione cardiaca del sentiment di un pugno di operatori o al primo stormire di fronde di un rumor captato dagli analisti e ritrasmesso in rete sotto forma di acquisti o vendite. Come se sotto il cielo terso e algido evocato da questa parola, valore, non ci fosse la terra. Cioè il lavoro. E ben piantate nel lavoro le persone, a farlo.

Per la prima volta nella storia, le tre grandi borse di New York - New York Stock Exchange (Nyse), Nasdaq e American Stock Exchange - rimarranno chiuse così a lungo. Si dice due giorni, forse tre. Saranno in realtà sei per il Nyse, che riaprirà i battenti il lunedì successivo, 17 settembre.

La Federal Reserve predispone un piano straordinario di aiuti alle banche. Alan Greenspan, impegnato a Basilea, dalla Svizzera ordina di pubblicare via internet un messaggio rivolto agli operatori del mercato, nel quale la Banca centrale comunica di avere mantenuto la piena operatività e di avere aperto uno sportello di emergenza per assicurare la liquidità alle banche che ne avessero bisogno.

La borsa non aveva mai concepito alcun crollo fuori dalla metafora finanziaria, peraltro non meno tragica. Stavolta arriva la notizia del crollo. Del proprio crollo. E in senso proprio.

Chiudono immediatamente le torri della finanza e dell'economia. A New York viene evacuato l'Empire State Building, a Chicago la Sears Tower, a San Francisco il Transamerica Pyramid. A Houston le direzioni delle compagnie petrolifere. Suona la campana di chiusura nelle torri dell'Occidente.

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Pagina 112

16 settembre 2001

Il banchiere centrale Alan Greenspan e il ministro del tesoro Paul O'Neill preparano la riapertura di Wall Street, ridotta a una discarica fantascientifica. Giorno stabilito: il 17 settembre. Una decisione d'emergenza fa di Manhattan un nuovo porto franco: vengono cancellati d'un sol colpo tutti i limiti legali posti alle operazioni di riacquisto delle azioni proprie, il buy-back. Dunque mano libera alle grandi compagnie nelle manovre di sostegno alle proprie quotazioni in borsa. Il diritto può attendere. Osservati speciali sono i titoli assicurativi e quelli del disastrato comparto aereo, su cui il Congresso ha messo allo studio misure di aiuto pubblico. Anche il mercato può attendere.

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Pagina 113

Gli attentati hanno imposto ai governi neoliberisti un repentino cambiamento di retorica. I toni trionfalistici che avevano accompagnato il rilancio del laissez-faire fin dai tempi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher sono ormai improponibili. L'economia si ritrova davanti ai suoi limiti. Quali? In primo luogo, la sua fisicità, insopprimibile malgrado tutto un lavoro ideologico orientato a nasconderla. Fisicità duramente colpita. La new economy, spazio utopico di una crescita basata sullo sfruttamento combinato di «risorse invisibili» e nuove tecnologie, ha evidenziato la sua transitorietà, il suo carattere prevalentemente speculativo e perciò congiunturale. La crisi di questo comparto - risalente almeno al 2000 - è dovuta a fattori di mercato e, ancor più, ad un fisiologico ridimensionamento del suo ipertrofico apprezzamento in borsa. Da allora, l'industria di base, peraltro in affanno, ha ripreso la funzione di motore dell'economia. L'11 settembre ha accentuato e accelerato alcune dinamiche in atto, mettendole decisamente sui binari del capitalismo di guerra. È così apparso più chiaramente l'alto grado di interdipendenza tra banche centrali, mercati finanziari, settori strategici dell'economia e centri di decisione politica. A questi, e naturalmente allo stato, compete un ruolo forte e dirigistico, contrastante con l'ideologia neoliberista dei leader. L'amministrazione Bush ha preso in pugno - con mano visibile - le redini dell'economia, ha sospeso o modificato parti del diritto che riguardano le attività finanziarie ed ha assunto una posizione di scoperta e radicale sponsorship verso interi settori del sistema industriale. Il complesso militare-industriale innanzi tutto. I conti pubblici Usa del quarto quadrimestre 2001 parlano chiaro. La spesa per i consumi e gli investimenti pubblici è aumentata del 4,9% sul quarto trimestre 2000. L'aumento delle spese per la difesa è pari al 5,6% e si concentra negli aerei (+19%), nei carburanti (+33,3%), nelle munizioni (+15,8%) e nella logistica di supporto (+12,4%). Insomma, la scommessa della ripresa viene giocata sull'intervento statale nell'economia e sulla spesa pubblica militare.

Dopo la settimana infinita dell'11 settembre, si tenta di riprendere il filo del discorso. La crisi è stata innescata dal massacro alle Twin Towers? In realtà, gli Stati Uniti erano in difficoltà da tempo, come hanno osservato Lester Thurow, Joseph Stiglitz e Paul Krugman. L'11 settembre rappresenta piuttosto un sintomo, che una causa del male. Uno dei sintomi più gravi di una malattia generale: una vera e propria «crisi di civiltà». Una crisi precedente e sottostante all'11 settembre, fatta di varie crisi parziali, intrecciate tra loro in una crisi generale, camaleontica e strutturale. Camaleontica come la struttura del capitalismo. Uno dei nodi ne è, dopo 1'11 settembre, la spedizione militare contro l'Afghanistan. Una sanguinosa avventura conclusa al suo inizio, in un certo qual modo. Perché ha conseguito alcuni obiettivi essenziali da subito. Innanzi tutto, l'insediamento militare degli Stati Uniti in Uzbekistan, cuore dell'Asia centrale.

La crisi dunque c'era già. Crisi dell'effimera new economy, manifestatasi con il ridimensionamento della bolla speculativa sui titoli tecnologici a Wall Street, con la chiusura di decine di imprese e con la perdita di migliaia di posti di lavoro. Eravamo addirittura in una fase recessiva. Inoltre, il 2001 si era aperto con una crisi politica piuttosto rilevante e con qualche risvolto istituzionale. Da una parte, la controversa elezione di George W. Bush, giunto alla Casa Bianca solo dopo molte contestazioni ed al termine di un'altalenante disputa legale. Dunque presidente sì, ma per via giudiziaria. Perciò in una posizione politicamente debole. Dall'altra parte, soprattutto, la crisi di consenso dispiegatasi con la nascita del «movimento di Seattle» e diffusa poi in tutto il mondo occidentale nell'arco del biennio successivo fino alle giornate del G8 di Genova.

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L'Iran ha incontrato l'ostilità statunitense. È del 3 agosto 2001 l'estensione quinquennale delle sanzioni codificate con l'Iran Libya Sanctions Act (Ilsa). Washington ha sostenuto in passato il progetto Turkmenistan - Afghanistan - Pakistan, lanciato nel 1994 dalla compagnia argentina Bridas e nel 1995 messo al centro di un accordo tra il Turkmenistan, la statunitense Unocal e la saudita Delta Oil. In quegli stessi anni prendeva forma il «New Great Game» per l'Asia centrale. Gli Usa hanno influenzato la politica delle rotte, direttamente e tramite i sauditi e i pakistani. Russia e Iran hanno badato a non rimanerne esclusi, avvalendosi a loro volta di loro referenti locali.

Nel settembre 1996 i talebani espugnavano Kabul. Il che viene percepito da Washington come un'opportunità per la politica estera statunitense, tesa a isolare l'Iran, creando un vicino nucleo sunnita, utile per la messa in sicurezza delle rotte commerciali e dei gasdotti meridionali dell'Asia centrale. Poi gli eventi fanno registrare alcuni spettacolari capovolgimenti.

Nel luglio 1997 cade il veto statunitense contro la via Turkmenistan - Iran - Turchia. Nel marzo 1998 l'Unocal sospende il progetto della rotta afghana e se ne ritira del tutto a dicembre, dopo gli attentati alle ambasciate Usa in Kenya e Tanzania. Nel 1999 infine gli Usa annunciano i loro timori per il rischio di «talebanizzazione» dell'Asia centrale. Poi si arriva all'11 settembre.

Il 7 ottobre 2001 gli Stati Uniti lanciano il loro attacco all'Afghanistan. Nel giro di un mese i talebani vengono detronizzati e i soldati statunitensi montano di guardia in Uzbekistan. Altri cinque mesi e si giunge, alla fine di maggio del 2002, al ripristino del piano Unocal per la costruzione della pipeline Turkmenistan - Afghanistan - Pakistan.

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13. ALLA CONQUISTA DEL PETROLIO


Verso un'altra guerra contro l'Iraq


Di fronte al precipitare della nuova crisi irachena nell'autunno del 2002 la questione energetica si poteva porre così: fondamentalmente, per quanto riguarda la geopolitica del petrolio, abbiamo geografie varie e diverse a cui pensare. La geografia delle risorse da una parte e dall'altra parte quella di chi le utilizza. Queste geografie naturalmente non coincidono affatto e quindi il problema è capire quale rapporto si stabilisce tra sottosistemi così diversi. Che siano diversi è intuitiva, non ci sarebbe bisogno di statistiche per misurare l'ordine di grandezza di simili differenze.

Altra questione: queste geografie variano, perché sono in movimento nel tempo. Quello che normalmente gli economisti chiamano i trend, gli andamenti. Uno dei problemi è capire quali sono gli andamenti, chi lavora contro alcune di queste linee di tendenza.

Vale la pena confrontare la geografia di chi utilizza le risorse con la geografia di chi organizza e gestisce i ricavi del loro sfruttamento. Una volta delineata la geografia dei capitali, la mappa cioè di coloro che sfruttano a proprio vantaggio il circuito economico che consiste nella ricerca delle risorse e poi nella loro estrazione e «messa in valore», conviene esaminare quale prospettiva abbiano coloro che prendono le decisioni come garanti degli interessi economici organizzati nell'industria energetica. In sostanza, ci preme capire quali siano i centri decisionali che garantiscono questi interessi economici e ricostruirne il progetto.

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Ma veniamo ora ai decision-makers, cioè agli uomini dell'amministrazione degli Stati Uniti, che pesano sulle dinamiche politiche e di mercato. Ci sono ragioni perfino familiari e dinastiche che legano l'amministrazione degli Stati Uniti all'industria petrolifera: Dick Cheney è stato dirigente dell'Halliburton, che è una società di ingegneria e servizi per l'industria del petrolio. Condoleeza Rice è stata dirigente della Chevron per dieci anni circa, è una valente sovietologa, esperta di Kazakhstan, ed è passata dalla scrivania della Chevron a quella dell'amministrazione statunitense. C'è un meccanismo di comunicazione tra il mondo dell'industria petrolifera e l'amministrazione che pare fatto a porte girevoli. I dirigenti entrano ed escono, girano di qua, ritornano di là. I democratici e tutte le forze di opposizione hanno spesso sottolineato questo fenomeno, evidenziando come l'amministrazione avesse avuto in campagna elettorale tra i finanziatori più importanti i petrolieri texani.

Il National Energy Policy, rapporto sulla politica energetica nazionale, è un documento dalla storia abbastanza curiosa. Subito dopo l'insediamento di Bush, si forma un gruppo, informale, che non ha alcun ruolo istituzionale: è una task force per i problemi energetici. Il vicepresidente Dick Cheney lo presiede e vi partecipano personaggi di vario genere, convocati non si capisce a quale titolo. Alcuni saranno poi inquisiti nello scandalo Enron. Ci si domanda che cosa stiano facendo. I democratici si allarmano e, alla fine, sulla base delle loro pressioni, viene reso pubblico qualcosa: 1'esistenza della task force, altrimenti ignota, e un documento di programmazione della politica energetica degli Stati Uniti. Appunto il Report. In questo documento si legge tra l'altro che c'è uno squilibrio fondamentale tra la domanda e l'offerta energetica degli Stati Uniti, perché la domanda cresce a ritmi superiori alla produzione (questo lo avevamo già visto su scala mondiale). Punto secondo, c'è, in prospettiva, un problema di dipendenza o come si dice talvolta, addirittura di iperdipendenza: tra 20 anni l'America importerà due barili su tre di petrolio, che sarebbe ancor più di quanto è adesso, perché già oggi gli Stati Uniti importano un po' più della metà di quello che consumano; poi il Report parla di «condizione di accresciuta dipendenza da poteri esteri non sempre favorevoli agli interessi dell'America». Quali sono questi poteri esteri, che minaccerebbero così i destini degli Stati Uniti tra i loro fornitori di petrolio? Si scopre ipso facto la lista dei sospetti. Sono, naturalmente, tuttaltro che ignoti: Arabia Saudita (17.4%), Venezuela (15.5), Canada (13,9) e Messico (13.5). Dunque, quando si parla di «poteri esteri», si intendono i grandi fornitori. Negli ultimi 10 anni i consumi sono aumentati del 17% circa sul decennio precedente, cioè sugli anni '80. La produzione è aumentata del 2.3%: quindi 17 contro 2. Le importazioni riempiono il divario. Le riserve nazionali degli Stati Uniti sono nel frattempo diminuite del 20%, le riserve certe del 2001 ammonterebbero cioè a 21,8 miliardi di barili. Esse sono in realtà il 20% in meno rispetto a quelle di dieci anni prima. Quindi la situazione è preoccupante. Qualcuno ritiene che il tono allarmato sia stato utilizzato a bella posta per ottenere lo smantellamento dei vincoli ambientali in Alaska e aprire la strada alla produzione. Sarà anche così, ma c'è dell'altro. Di solito, attenti come sono all'andamento dei mercati e quindi alla psicologia, questi testi dicono per principio che va tutto bene, che tutti i problemi sono risolvibili, che qualunque cosa è governabile. Invece in questo caso non lo dicono. Ammettono che c'è un problema di iperdipendenza e cioè che le cose vanno malissimo e che andranno ancora peggio. Questi ideologi dell'ottimismo, qualche volta si rendono conto che una cura di realismo non farebbe male. Il problema è l'orientamento che si vuole dare a un possibile cambiamento di rotta. Le risposte che il Report prefigura sono essenzialmente due. Primo, la diversificazione delle fonti energetiche, che vuol dire aumentare il numero delle centrali elettriche e soprattutto rilanciare il nucleare. Ma il rilancio del nucleare dopo 1'11 settembre dà una certa preoccupazione, per motivi di sicurezza. Ma il rapporto stabilisce di fare così. Le centrali sono attualmente 103. Non devono aumentare di numero, aumenteranno i reattori. Le centrali erano state costruite per ospitare un certo numero di reattori, ma ora ne hanno al loro interno un numero inferiore. Quindi erano progettate in qualche modo sulla base di un trend che si immaginava in crescita. Ora il tempo stringe e occorre attivare nuovi reattori. Attualmente le centrali contengono in media due o tre reattori che si intendono portare a quattro-sei reattori.

Questa proposta conferma l'attuale struttura dei consumi. Non mette in discussione il fatto che sia possibile consumare di meno o meglio. Soprattutto sulla base del fatto che il mercato energetico è dominato dal petrolio. Non si fa nessun tipo di proposta sull'ottimizzazione o diminuzione dei consumi.

Questo documento è servito come esercitazione, propaganda, o in qualche modo segnala un impegno fattosi azione di governo? La risposta esatta è naturalmente l'ultima. È stata approvata una legge nell'agosto del 2001 che accoglie nel suo impianto sostanziale le indicazioni contenute nel rapporto.

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14. L'ATTACCO ALL'«AXIS OF EVIL»
L'invasione dell'Iraq. Avanza il processo di ristrutturazione dei rapporti internazionali intorno ai poli del Golfo Persico, del Mar Caspio e del Mediterraneo.


La notte del 19 marzo 2003 scadeva l'ultimatum lanciato da George W. Bush a Saddam Hussein. I blindati statunitensi e britannici hanno cominciato a muoversi dal Kuwait, dove erano in attesa da settimane, per raggiungere la frontiera irachena. La notte del 20 marzo è partito il primo raid contro Baghdad. Le truppe di terra entravano nell'Iraq meridionale, puntando verso Bassora e portando immediatamente sotto controllo l'area di Rumaila, dove si trova il più importante giacimento petrolifero iracheno, con riserve stimate in 20 miliardi di barili. È il quinto del mondo e ha dimensioni paragonabili alle intere riserve nazionali statunitensi.

Nel giro di poche ore svaniva la paura di un apocalittico incendio generale dei pozzi iracheni. Le quotazioni del greggio chiudevano il primo giorno di guerra con il brent a 25,50 dollari al barile: il minimo trimestrale. Gli operatori mostravano di credere alla guerra rapida. Nel corso della giornata la quotazione aveva però anche superato i 30 dollari, quando avevano preso a circolare voci sulla morte di Saddam Hussein e, subito dopo, sull'incendio dei pozzi di Rumaila. Le smentite riportavano i prezzi verso il basso in tempo reale.

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L'ideologia pesa sulla sofferenza della popolazione irachena almeno dal 1991. Allora George Bush senior aveva giustificato l'attacco contro l'Iraq invocando una questione di principio: la sovranità del Kuwait, arbitrariamente occupato da Saddam Hussein. Di fronte alle pretese irachene di annettere l'emirato come «diciannovesima provincia» l'argomento sembrava incontrovertibile. Bush aveva richiamato soltanto in sottordine e in modo generico la tutela del modo di vita «occidentale»: il way of life statunitense. Il riferimento dirottava l'attenzione generale verso il tema del mantenimento di modelli di consumo e standard di vita diffusamente percepiti come soddisfacenti. Essi erano e sono di continuo determinati dalla disponibilità di un insieme di beni e servizi disparati e diversificati: gli alimentari, l'abbigliamento, i manufatti nel loro complesso, i trasporti e le comunicazioni, l'intrattenimento e quanto rende l'ambiente meno sfavorevole alle persone. Tutto ciò costituisce evidentemente solo l' output del sistema produttivo. La cui parte nascosta è rappresentata dall' input: la manodopera, il capitale e l'energia necessari al suo funzionamento. Parlare esclusivamente dell' output impediva però di pensare all'altra parte. Questo permetteva di non porre in discussione il sistema produttivo nel suo complesso e l'intera rete dei suoi rapporti. Ossia il modello di relazione esistente tra input e output: capitale e lavoro, capitale e risorse, capitale e natura. Scambiare gli elementi trainanti del sistema produttivo con quelli indotti rispondeva ad una necessità - tutta ideologica - di rovesciare l'ordine dei fattori tra elementi logicamente vicini (ouput/input) ma qualitativamente e funzionalmente diversi. Insomma non emergeva il ruolo strategico dell'energia. Ruolo, per dirla con Barry Commoner, «centrale e diffuso nell'economia». Qui il meccanismo della metonimia - lo scambio causa/effetto, concreto/astratto, etc. - può ottenere, ed effettivamente ottenne, un effetto ingannevole.

Già allora però il controcanto degli ambienti economici parlava esplicitamente di guerra del petrolio e, così facendo, rappresentava ragioni molto meno volatili. L' Oil&Gas Journal del 14 gennaio 1991 indicava tra le cause della guerra proprio la politica energetica degli Stati Uniti: gli Usa «hanno deciso di importare piuttosto che produrre una risorsa essenziale alla loro economia. Così essi non possono ignorare o trascurare i loro interessi petroliferi nel Medio Oriente (...). La scelta di non produrre energia comporta la decisione di combattere in difesa del petrolio di altri (...). Per gli Stati Uniti le scelte militari ed energetiche del passato possono oggi comportare la guerra».

La competizione internazionale per l'egemonia attraverso il controllo dei settori strategici dell'economia, tra i quali il petrolio, non è un fatto nuovo. Né sorprende che questa dinamica pure bardata di una sovrastruttura politically correct - abbia assunto ciclicamente forme e modalità violente. Nella realtà, l'accesso al petrolio è stato costantemente regolato per lo più in termini di dominio, possesso, spartizione e sorveglianza sul suolo e sul sottosuolo. Quindi di esercizio del potere, inteso in tutti i sensi, comprendendovi le sue componenti coercitive. Questo specialmente in Medio Oriente, dove si trova la parte maggiore delle riserve mondiali. D'altra parte, la tradizione del pensiero strategico statunitense, nelle sue declinazioni democratica e repubblicana, è sempre stata convergente su un punto: nessuno può interferire con i flussi del greggio destinato alle economie «importatrici». Ossia, prima di tutto, a quella statunitense. Così fu ai tempi dell'intervento dell' intelligence Usa in Iran contro la nazionalizzazione voluta nel 1951 dal presidente Mossadegh; così codificò poi ampiamente il National Security Council, massimo organo per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti; così ribadì nel 1980 la «Dottrina Carter»; così confermò nel 1992 il «Piano Wolfowitz». Del resto, risorse come il petrolio e il gas sono fruibili soltanto mediante flusso. Sia per le caratteristiche geografiche delle aree di produzione, di trasformazione e di consumo sia per le basse capacità di immagazzinamento del sistema. Flusso significa trasferimento con carattere di continuità. Un sistema produttivo basato sul petrolio dunque non ammette interruzioni né discontinuità. È militarizzato per natura.

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