Copertina
Autore Inka Parei
Titolo La ragazza che fa a pugni con l'ombra
EdizioneInstar Libri, Torino, 2004, i Dirigibili 9 , pag. 136, cop.fle., dim. 140x210x14 mm , Isbn 978-88-461-0061-0
OriginaleDie Schattenboxerin
EdizioneSchöffling, Frankfurt am Main, 1999
TraduttoreUmberto Gandini
LettoreElisabetta Cavalli, 2004
Classe narrativa tedesca
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Pagina 3

È la mia vicina. Sono anni che viviamo sullo stesso pianerottolo. Ogni tanto infiliamo insieme le nostre chiavi pesanti nelle toppe; le porte risalgono ai tempi della rivoluzione industriale. Poi io sparisco nel corridoio di casa mia, un budello lungo e stretto rivestito di canapa gialla, largo sì e no un metro. E lei nel suo, con il pavimento anni Quaranta, di un colore schifoso, spento e pressoché impossibile da togliere; assomiglia alla cacca dei cani pastori sul selciato, cacca da cibo in scatola a grumi rugginosi.

Da una settimana la nostra ala dell'edificio sulla Lehniner Straße è silenziosa. Siamo rimaste solo noi ad abitarci. Un tempo era una distinta casa d'affitto di ebrei. Una costruzione fatta di cupe stanze berlinesi, quadrati con un angolo mozzato, stanze esposte al gelo su tre lati, praticamente irriscaldabili, con il gabinetto a metà scala.

Gli altri inquilini superstiti se ne sono andati prima dell'inverno, i più per traslocare vicino ai parenti in qualche prefabbricato con riscaldamento centrale e tritarifiuti, fuori, dalle parti di Marzahn o Hellersdorf. L'ultimissima è stata una vecchia malconcia, che viveva semiaccampata in cantina. Erano vent'anni che si rifiutava di lasciare il suo alloggio. L'hanno portata in una casa di riposo all'inizio del mese di novembre, teneva le gambe piagate avvolte in pezze a fiori ed era mezzo cieca.

Adesso sono sicura di essere sola nel palazzo. Da giorni sono l'unica a scatenare il ruggito dello sciacquone comune; la mia vicina non c'è. Non sento più le chiavi che tintinnano, il tossicchiare, i passi estranei. Ogni tanto un colpo di vento fa sbattere violentemente la porta del cortile. Per il resto tutto è silenzio, un silenzio di pietra. Solo l'eco dei miei passi risuona sulle mattonelle scheggiate delle scale.

Alzo il cappuccio della giacca a vento, mi carico in spalla un grappolo di sacchetti di plastica ed esco in cortile.

Armata di una lunga pertica uncinata, mi accingo a eliminare i rifiuti della settimana. Gli spazzini sono passati l'ultima volta l'estate scorsa e hanno portato via i vecchi bidoni metallici. Da allora gettare l'immondizia richiede un attrezzo speciale e un'abilità notevole. Il momento ideale è la tarda mattinata, quando gli inquilini del palazzo accanto sono al lavoro e non mi osservano dalla finestra con aria di rimprovero.

Mi avvicino alla recinzione costruita dopo la reintroduzione della proprietà privata sul piccolo zoccolo in muratura che separa il loro terreno dal nostro, infilo con cautela la pertica attraverso un foro nella rete largo una spanna, cerco di agganciare il maniglione di plastica del cassonetto e spingo verso il basso per sollevare il coperchio. Poi devo scagliare in alto i sacchetti verdolini, gonfi e ben chiusi, di modo che ricadano ad angolo acuto al di là della rete, possibilmente nel container, o quanto meno nei paraggi.

Per alcuni minuti lancio i sacchi oltre la recinzione e ne correggo via via le traiettorie. Poi mi volto e faccio per prendere quello delle bottiglie vuote, di cui posso ricuperare la cauzione, e improvvisamente vedo quel cartello.

Ieri non c'era.

Lo hanno avvitato nel muro grigio e screpolato della casa, coperto di graffiti e di piastrelle bagnate. Un cartello nuovo di zecca, il cartello di un'impresa edile. Il nome e l'indirizzo scritti in cornice sotto il logo patinato di una doppia casa azzurra.

Mi appoggio alla recinzione, chiudo gli occhi, respiro l'umida aria invernale e immagino la parete vuota. Poi riapro gli occhi. Il cartello c'è ancora.

D'altra parte era inverosimile che si dimenticassero di questa vecchia casa fatiscente mentre la riqualificazione edilizia le ingoia via via tutte quante. Era prevedibile che non mi ci sarei potuta rintanare in eterno, senza contratto d'affitto, senza essere registrata da nessuna amministrazione. Ma perché la mia dirimpettaia, Dunkel, l'ultima inquilina ufficiale, la mia compagna di gabinetto, doveva sparire proprio adesso? Negli anni scorsi non è mai stata via a lungo, nemmeno per un giorno o due.

La rivedo salire piano, tenendo le borse della spesa in equilibrio su quel che resta della ringhiera delle scale, con gli avambracci protesi. Una persona prudente, probabilmente molto legata a questo luogo. Non ha mai visite. Non riesco neppure a ricordare il suono del campanello di casa sua. Soltanto i piccoli rituali delle persone che vivono da sole: gli stivaletti neri coi lacci accanto allo zerbino, sempre a sinistra, le punte in fuori, a destra il secchio con la cenere (io faccio l'inverso); la sera lo scatto del catenaccio, fra le otto e le nove, quando non si esce più; la serratura che si chiude rumorosamente, a volte dopo che si è aperta brevemente la porta per poi sprangarla di nuovo con fracasso per essere sicuri d'avere opposto una barriera sufficiente alla notte che risale la gelida tromba delle scale.

Senza rifletterci granché, avevo dato per scontato che la vita di Dunkel si svolgesse entro la cerchia dei trentacinque metri quadrati di un appartamento pieno di spifferi ma quasi esente da pigione, della scala comune, delle strade attorno a Rosenthaler Platz, con un paio d'indispensabili contatti esterni in altri quartieri. Il fatto che se ne sia andata, così, è un colpo al mio equilibrio.

Come se non bastasse, nelle ultime notti mi sono vista contendere il domicilio da zecche, scarafaggi e topi. Inoltre ho commesso l'errore di esplorare la parte anteriore dell'edificio, completamente abbandonata. Adesso i divani color crema che ammuffiscono al pianterreno si chinano su di me in sogno, di notte, fiutando una camicia della FDJ dura come un'asse per la sporcizia, un cencio che ho visto appeso al telaio a croce di una finestra del secondo piano e che nel sogno è diventato tutt'uno con la mia pelle, fino al collo, tanto che non posso togliermelo. In breve, mi saltano i nervi.

Una grondaia malconcia mi gocciola in testa, dietro le orecchie, lungo la schiena. Guardo in su. Dopo una settimana di sete, la felce sul davanzale della cucina di Dunkel sta già diventando gialla come paglia. Mi alzo in punta di piedi. Perché non mi ha neppure chiesto di annaffiarle le piante? Attraverso il vetro sporco di smog scorgo i contorni di un barattolo di sale aromatizzato, una confezione bianca e azzurra di latte e un filone di pane che mi immagino già verde e peloso lungo la linea del taglio.

Gli occhi si spostano verso la finestra successiva. Non si è mosso qualcosa dietro il vetro? Lascio cadere le bottiglie per lo spavento e mi guardo attorno. Prendo la rincorsa, mi aggrappo alla sbarra che serve per battere i tappeti e mi arrampico sul secondo muro che delimita il cortile, alto come una persona. Ombre verde blu guizzano come fiamme nel soggiorno di Dunkel; in sottofondo, appena udibile, la voce bassa di un annunciatore che parla e s'interrompe al ritmo delle immagini. E adesso si accendono le luci in cucina, nella camera da letto e nello stanzino. Non c'è dubbio: la mano che tocca gli interruttori deve essere silenziosa e incorporea. Deve appartenere a un essere che da una settimana se la cava senza riscaldare, non svuota l'intestino e ha la mia vicina sulla coscienza.

Scappo in strada sbatacchiando le bottiglie da restituire per recuperare la cauzione.

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Pagina 29

Era il mese di gennaio del mio terzo inverno da queste parti, il più duro che ricordi. La morsa del freddo stritolava la città. C'erano tracce di neve ovunque, sui pali degli steccati, sulle cime degli alberi e sui tombini. Neve ghiacciata che aveva l'aria di voler durare all'infinito, un rimasuglio delle ultime precipitazioni, interrotte dalla temperatura troppo bassa. Tutt'altra cosa dalla neve mezzo sciolta che c'è in città oggi.

Al 14 di Lehniner Straße, nonostante le prime crepe nei muri, c'era ancora un nocciolo duro di inquilini, ognuno dei quali resisteva per un diverso motivo.

Due artisti gay del varietà vivono al terzo piano con un boa constrictor a chiazze bianche e marroni lungo quattro metri. Vedo la stanza che hanno trasformato in terrario, con un microclima umido che deteriora il materiale edilizio. Li sento litigare spesso sulle incombenze richieste dallo zoo domestico. Di notte vedo rosseggiare i cerchi della loro stufa che deve essere alimentata di continuo. Hanno anche dei ragni tropicali, un pappagallo e un alano nero dal muso mansueto. Ogni lunedì e giovedì scendono le scale con la cesta del serpente e partono verso il Friedrichstadtpalast con il cane che gli va dietro come un'ombra delle dimensioni di un vitello.

Di fronte a loro abita la seguace di una setta indiana, una specie di monaca in subaffitto da un correligionario che se n'è andato in Asia sudorientale. La mattina presto attraversa il cortile a testa alta, con la tunica arancione che brilla come una fiamma in mezzo ai toni bigi e scuri dei materiali urbani in disfacimento. Di tanto in tanto scambiamo quattro chiacchiere in inglese. Così vengo a sapere che è un'ebrea argentina. Mi racconta ridacchiando che ha scoperto a fiuto la sagoma del penultimo inquilino sotto il tappeto, un suicida le cui tossine cadaveriche hanno scolorito il pavimento.

Poi c'è l'abitazione al piano rialzato, a destra, rifugio di un gruppo di alcolisti prevalentemente senzatetto. Alcuni hanno le chiavi, altri bussano alla porta con le bottiglie, di notte, fino a quando qualcuno si strappa al sonno e alla sbornia e apre. Gli hanno tagliato la luce e il gas, così si aggirano in casa con le torce. Il contratto d'affitto è intestato a un sassone barbuto con una compagna dal naso a punta e dagli occhi gonfi, metà del corpo scosso dal tremito. Hanno un figlio di circa sei anni, anche lui con il naso a punta. Per fortuna li raggiunge solo nei fine settimana. Ha un viso pallidissimo che contrasta con i colori vivaci del berretto di fibra sintetica. Cammina a passettini meccanici e discreti, fra adulti che barcollano infantilmente.

Dunkel è quella di cui so meno. Ci salutiamo ogni giorno, con muti cenni del capo. Di tanto in tanto le condutture dell'acqua si ghiacciano, così ai piani superiori arriva solo un rivoletto rugginoso. Nei giorni senz'acqua aspetta spesso di sentire il tintinnio delle mie chiavi sul pianerottolo, poi scende quatta quatta anche lei, una rampa dietro di me, con i recipienti di plastica in mano. Quando raggiunge il pianterreno e mi vede già sulle scale della cantina, scende in fretta gli ultimi gradini e, con un sospiro di sollievo, si mette in fila alle mie spalle.

Busso, ma non c'è mai risposta. Abbasso la maniglia ed entriamo nel seminterrato. Le finestre che danno sul cortile illuminano crepuscolarmente dei mobili anni Trenta imponenti e desolati. Alle pareti ammuffisce una tappezzeria del dopoguerra. L'inquilina è sdraiata sul divano e ci fa segno di andare in cucina. Talvolta sorbisce a cucchiaiate i pasti preconfezionati che le portano a domicilio, oppure, con gli occhiali del defunto marito sul naso, fruga in una pila di riviste sulle cui copertine campeggiano le teste coronate d'Europa. Attorno a lei regna il caos dell'abbandono: valigie di cartone sfondate da cui spuntano stoffe consunte, bicchieri appannati dalla polvere sulla tovaglia di pizzo di una cassapanca simile a un sarcofago, montagne di suppellettili rotte e di cartaccia. Mentre infiliamo le nostre taniche in un lavandino sporco e apriamo al massimo il rubinetto, lancio qualche occhiata alla mia vicina e riconosco il mio ribrezzo sul suo volto.

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Pagina 58

Prendo l'autobus per andare alla stazione di polizia.

Passa ogni dieci minuti davanti a casa mia e si riempie di gente fra i sessanta e gli ottant'anni che scende in Karl-Marx-Straße e si sparpaglia in caffè infestati di spifferi dove mangia in piedi una fetta di torta o nei grandi magazzini, specialmente nei reparti di calze, guanti e cappelli. I viaggi in autobus lungo questa linea sono giri in giostra per invalidi. Chi è saldo sulle gambe o ha una bicicletta li evita. I più si spostano in macchina. E chi ha i soldi per permettersi un taxi non abita da queste parti.

Estraggo la chiave dalla serratura, la aggancio all'anello del portachiavi, ci infilo dentro l'indice e il medio e ficco la mano nella tasca della giacca di lana. Mi bastano due passi sul marciapiede per raggiungere la fermata.

Una specie di scossa percorre la gente in attesa non appena il lungo autobus con lo snodo a fisarmonica svolta nella nostra via, a tre isolati da qui. Le donne, che stringono le borse come una ringhiera, le aprono per estrarne i biglietti. Sguardi irritati prendono di mira orologi grandi come un pfennig. Gli invalidi tirano fuori buste spiegazzate da tasche interne troppo strette. Prima che l'autobus accosti alla fermata con la palina gialloverde, quasi tutti sono già pronti con il braccio teso a mostrare qualche pezzo di carta che li autorizza a salire. Abbonamenti, biglietti singoli, tessere gialle per gli anziani con il numero del mese: 05, maggio.

L'uomo al volante si gratta la pancia attraverso l'uniforme blu acceso. S'infila una sigaretta fra i denti, estrae un accendino color platino e guarda seccato nello specchietto retrovisore. Il pollice è impazientemente sospeso sul pulsante del cruscotto che serve a richiudere le porte automatiche. Gli piacerebbe tanto lasciare fuori metà della gente, ad aspettare il prossimo autobus, glielo si legge in faccia.

I vecchietti cercano un posto facendosi spazio con i gomiti tremanti o con i bastoni costellati di piastrine ricordo di gite dimenticate. Io avanzo fino ai sostegni di fronte all'uscita e m'incastro tra una sporta a rotelle di tela cerata e un passeggino con un marmocchio di due anni sporco di gelato alla fragola che mordicchia la tettarella del suo biberon di tè.

Passiamo il ponte sul canale. Una frenata brusca fa rotolare lungo il corridoio il copricapo pieghevole antipioggia di una donna dai capelli tinti d'argento violaceo. Mi giro per raccoglierlo ma il bambino mi precede. Piglia la cuffia di plastica, passa le dita sulle pieghe. Poi scopre che l'oggetto è trasparente. Entusiasta, se lo porta davanti agli occhi, ma ecco che la mano della madre glielo sfila.

Veniamo sputati fuori in Hermannplatz. I vecchi migrano dall'altra parte dell'incrocio, verso la fermata dell'autobus che va nella direzione opposta, gridandosi luoghi comuni lacerati dal chiasso del traffico di fine giornata lavorativa. Mi sposto di lato sfuggendo alla ressa dei passeggeri appena smontati e raggiungo un attraversamento pedonale che conduce al centro della piazza; ora scatta il verde.

Non conosco un luogo che meriti la definizione di piazza meno dell'Hermannplatz, uno svincolo disseminato di semafori da cui si diramano a raggiera le arterie a più corsie del sudest cittadino. Lo incorniciano due lunghi blocchi di edifici con grandi magazzini e negozi delle più note catene di distribuzione. In mezzo, come una specie di isola nel traffico, c'è un'area quadrata lastricata di piccole pietre sulla quale, quattro giorni su sette, si svolge un mercato male assortito.

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