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| << | < | > | >> |IndiceVENTURINAMAJNA (1892-1981) 13 Il passato che torna. Cascina Malpensata, 1978 ENCARNADA MAJNA (1901-1974) 29 Un passo in più, San Ignacio Mini, 1971 REGALADA MAJNA (1948) 52 Nemmeno in fotografia, Buenos Aires, 1962 CATTERINA CERUTTI (1872-1963) 65 Ho bisogno di luce, Buenos Aires, 1958 MARIA ROVEDA (1882-1967) 85 Se l'amore è un vecchio nemico, Rosedal, 1935 RAQUELPOTOK (1901-1964) 108 Tristi mattane, Punta Arenas, 1964 AMABILINA BARONTI (1909) 126 Cenere nel cuore, Mendoza, 1956 PROVISORIA PAZMAJNA (1931-1964) 148 La luce di un fiammifero, Esperanzita, 1947 MAFALDA CERUTTI (1932-1954) 160 Molto più in là, Buenos Aires, 1954 TERESA ROVEDA (1930) 176 Sempre grigio, La Piata, 1978 ELOISA RAMONA HUENCHUR (1918-1980) 198 Non c'è addio, Chiloé, 1980 NELIDA CERUTTI, poi FORNARA (1946-1999) 217 II silenzio è la paura, Buenos Aires, 1988 SOCORRO LOPEZ (1927-1994) 236 L'altrui ferita, Vista Alegre, 1991 SILVIA CARETTA (1951-1976) 251 Pena del bandoneón, Nella selva salteña, 1967 MARTINITA COLOMBO (1919-1965) 264 Sfiorì amando, Buenos Aires, 1939 CORAZÓN SELLATI (1952) 285 Sul far del mattino, Buenos Aires, 2001 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Ho paura di ritrovarmi con il passato che torna a scontrarsi con la mia vita. Ho paura che le notti, popolate di ricordi, incatenino i miei sogni. ALFREDO LE PERA, Volver «Quella foto appesa in cornice? È di memàma e mepà, il giorno dello sposalizio» dice la vecchia Venturina, cercando di trarsi d'impaccio nel fare gli onori di casa davanti a questa ragazza straniera e alla sua bambina. «Quand'è che si sono maritati? Doveva essere nel '91, che io son la prima figlia, nata l'anno dopo... Chiaro che parlo del 1892... Memà di nome faceva Adalgisa Roveda, lui si chiamava Antonio Majna, Togn... È partito per la Mèrica quando io avevo sei anni, ma già era stato via un paio di volte a fare i raccolti stagionali; era tornato nel '97, poi gli è presa non so quale mattana, per cui un brutto dì in quattro e quattr'otto se n'è andato via di nuovo per un posto che si chiamava Misiones. Tutti i cani ménan la coda, tutti i matti dicon la loro, ma nessuno ha saputo mai spiegare ìl perché. «Era nel 1898, e qui si faceva la fame.» | << | < | > | >> |Pagina... Perché mi insegnarono a amare, se è buttare senza senso i sogni in mare? Se l'amore è un vecchio nemico che mi brucia, perché mi insegnarono a amare? ENRIQUE SANTOS DISCÉPOLO, Canción desesperadaSi sedette alla Sìnger. Piegò in due la tela, la poggiò sul piano di lavoro e, tenendo una mano sulla manovella, mosse il piede sul pedale. La macchina, clip clip clip, si mise in moto; la tela regolata dalla leggera pressione delle dita cominciò a scivolare sotto il piedino metallico, procedendo veloce. Prima di sera avrebbe finito di sicuro le federe nuove. Voleva dimenticarsi nel lavoro, la Maria, scacciare il ricordo delle male parole con cui qualche ora prima uno dei figli, l'Angel, le aveva annunciato che se ne andava a Mendoza; che laggiù era pronto per lui un negozio da rilevare, per cominciarvi una nuova vita; che già lo progettava da tempo, ma quello che era successo il giorno prima aveva fatto traboccare il vaso. E pure l'altro ragazzo, il Rogelio, si era messo a parlarle di disonore da lavare, di arruolarsi per chissà dove... Tutti impazziti, 'stì figli. Alla malora. Aveva gridato di rabbia anche lei, tenendo loro testa; fino a diventare rauca. Perciò adesso si sentiva svuotata. Siccome non trovava le forbicine, la Maria tagliò un filo coi denti. Si infuriò, le mani le tremavano. Capiva di star facendo tutto sbagliato, non doveva prendere di petto la situazione. Eppure... Afferrò rabbiosamente un altro pezzo di stoffa e rifece l'operazione di poco prima. Dalle stanze di sopra non veniva alcun rumore, chissà, forse l'Angel aveva deciso di non partire. Poteva anche essere che non tutto fosse perduto, che i suoi figli avessero detto così per dire, per ripicca, per ferirla... Chiamò la Martina, nessuno rispose. I figli, ecco cosa sono: una manica di ingrati. Per loro ti sfianchi di lavoro e quelli, quando c'è bisogno, neanche si degnano di risponderti. Irriconoscenti, incapaci di capire i sacrifici cui i genitori si erano sobbarcati: perché lei e il Pidrö si erano spaccati la schiena per mettere da parte la plata per la famiglia. | << | < | > | >> |Pagina 163Non sapeva spiegarsi bene perché si sentisse così apatica, forse era colpa delle medicine di cui l'avevano imbottita: la rendevano torpida, le deprimevano l'umore, sfuocandole perfino la memoria. No, questo non doveva succedere: se una perde i ricordi, non le resta più niente... Si aggrappava a piccoli esercizi mnemonici per ricostruire il suo paese in Italia, il bosco, la cascata.Ripercorrendo la strada dalla sua casa all'osteria del ponte. Cercando di risentire nel naso il profumo del caprifoglio o del fieno appena tagliato; il rumore delle pale del mulino, i cori di grilli nelle notti d'estate. Amando disperatamente quel suo paese piccolissimo, solo un pugno di case; che, quando uno doveva uscire, lasciava le porte aperte perché tanto non c'eran mica ladri, ci si conosceva tutti. Ripercorrendo in tutti i suoi dettagli il sentiero della vecchia segheria, sotto faggi e castagni, per radure colorate di brugo; oppure, passato il folto del bosco, lo slargo di ortensie dietro la chiesa di Carcegna col suo campanile pendente. Figurandosi davanti agli occhi la verdezza del Mottarone e il celeste del lago d'Orta. Ché Mafalda continuava a dirsi che tutto, se loro fossero rimasti là in Italia, sarebbe andato diversamente... Perché, Madonna Santa, suo padre li aveva voluti portare proprio in bocca alla disgrazia? Purtroppo queste cose erano difficili da dire alla cugina: Teresa era nata in America, e avrebbe fatto fatica a capire il furore rabbioso che Mafalda nutriva contro Buenos Aires. "Perché vedi, Teresa, io non diventerò mai argentina. Una persona può cambiare vita, casa, amore, però anche se ti spogliano di tutto rimane qualcosa che sta in te da quando impari a ricordare, cioè molto prima di aver l'età della ragione: il midollo di un altro modo di vivere." | << | < | > | >> |Pagina 236La gente ti avvicina col suo fardello di dolori e tu l'accarezzi quasi con un tremito; ti fa male come se fosse tua l'altrui ferita... HOMERO MANZI, Discepolìn«Chiama Corazón» aveva detto Eusebio con una voce lontana, consumata dalla fatica del respirare. Socorro gli aveva preso la mano tra le sue. Dita rugose e livide, quasi traslucide; in rilievo le grosse vene azzurre dove la vita si ostinava a correre. Sull'anulare smagrito la fede d'oro ballava, troppo larga ormai. Ma la stretta della mano era ancora incredibilmente forte; e la voce - "Chiama Corazón" - diceva desiderio, volontà: non si poteva non tenerne conto, anche se ciò che reclamava sembrava irraggiungibile come l'erba voglio. «Chiama Corazón» aveva ripetuto Eusebio, e Socorro aveva ubbidito, sebbene non fosse per niente d'accordo col marito. Che senso aveva mandare un telegramma a una nuora che mai avevano conosciuto? Negli anni in cui era vissuta con Giordano a Buenos Aires, Corazón neanche una volta aveva trovato il tempo di venire a conoscerli, sempre c'era stata una scusa: la gravidanza, poi la bambina piccola, poi l'università da finire, gli impegni politici; infine, dopo la tragedia, se ne era scappata in Italia con la piccola Malena e là si era poi ricostruita un'altra vita. In fin della fiera, per Socorro restava una sconosciuta che mandava a Natale gli auguri e due notizie stentate, a cui però Eusebio rispondeva sempre con entusiasmo. Socorro non aggiungeva la sua firma ai saluti; no, lei ce l'aveva con la nuora, oscuramente la incolpava della morte di Giordano: che, se quei due avessero abbandonato Buenos Aires quand'erano ancora in tempo, se fossero venuti qui in Patagonia, forse Giordano sarebbe stato ancora vivo.
Ma la voce di Eusebio era stata implorante: «Chiama Corazón» e non si può
trascurare il desiderio di chi va a morire. Perciò Socorro aveva spedito il
telegramma: poche parole, per dire che Eusebio era grave e voleva conoscere la
nuora. E Corazón, incredibilmente, aveva risposto che sì, sarebbe venuta insieme
con la figlia.
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