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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 9 Lettera a un Editore 13 CUORI INFRANTI 19 Lorrie Moore Una madre incredibile 21 Jonathan Galassi Olmi 66 Bernard Cooper L'arte del sospiro 67 Heather McHugh Terapia intensiva 70 Raymond Carver Piano 72 Josif Brodskji A Urania 86 FOLLIA 87 Zelda Fitzgerald da Zelda: un quaderno di appunti 89 Malcom Lowry da Caustico lunare 91 Barbara Hamby Delirio 98 Susan Mitchell Autobiografia 100 Bobbie Ann Mason Do You Know What It Means T o Miss New Orleans? 103 Robert Stone L'ascesa a Monte Carmel 120 SESSO 149 Donald Barthelme Alice 151 S.X. Rosestock Riminotta! 160 John Updike Due fighe a Parigi 161 W.T. Vollmann da L'arte della narrazione CLXIII 163 Louis Begley da L'arte della narrazione CLXXII 165 Vladimir Nabokov da L'arte della narrazione XL 166 Richard Howard Con un pot-pourri da lì sotto 167 Anthony Hecht Le jet d'Eau 169 R. Moody da La più lucente corona d'angeli in cielo 171 T. Morrison da L'arte della narrazione CXXXIV 197 Margaret Atwood da L'arte della narrazione CXXI 198 Mordecai Richler Un'educazione liberale 199 AMORE 213 David Foster Wallace Piccoli animali inespressivi 215 Rosanna Warren Cipriota 263 Ted Hughes da L'arte della poesia LXXI 266 Jeanette Winterson da L'arte della narrazione CL 268 Edmund White da L'arte della narrazione CV 270 Kenneth Koch Alla lingua francese 272 Charlie Smith Los dos rancheros 274 Michael Cunningham Perle 276 A.R. Ammons Tutto quanto 286 TRADIMENTO 287 Lucille Clifton Lorena 289 Marilyn Hacker I sonetti dell'emicrania 290 Jonathan Franzen Chez Lambert 293 Joanna Scott Deve rilassarsi! 309 Beth Gylys La canzone del matrimonio 332 Louise Erdrich La regina delle bietole 333 GLI OUTSIDER 355 Jonathan Lethem La sindrome dello strattonatore 357 Truman Capote da Larte della narrazione XVII 391 Charles Simic Contro l'inverno 393 Adrienne Rich Trentatre 394 Jorge Luis Borges Funes, o della memoria 396 Alice Munro Sono atterrate le navi spaziali 405 INTOSSICAZIONE 439 McInerney Sono le sei del mattino, hai idea di dove sei? 441 Mary McCarthy da Edmund Wilson 451 Stanley Elkin L'ospite 454 William Faulkner da Larte della narrazione XII 495 Hunter S. Thompson da Larte del giornalismo I 498 William Burroughs da L'arte della narrazione XXXVI 500 Jim Carroll da Jim entra nel campo di basket 502 Denis Johnson Incidente durante l'autostop 504 GUERRA 513 Italo Calvino Ultimo viene il corvo 515 Paul West Coregone bianco belga 521 Primo Levi da Larte della narrazione CXL 544 Ezra Pound da Larte della poesia V 546 Kurt Vonnegut da Larte della narrazione 548 Peter Ho Davies Fini 550 Frank O'Hara Pearl Harbor 555 W.S. Merwin Conquistatore 556 Harold Pinter da L'arte del teatro III 557 Ha Jin Discorso del soldato morto 558 John le Carré da L'arte della narrazione CXLIX 560 Susan Sontag da L'arte della narrazione CXLIII 562 Nicholas Christopher Capolinea 565 G. Hill Preghiera al sole in memoria di Miguel Hernandez 569 CAPRICCIO 571 Umberto Eco Come viaggiare con un salmone 573 Gorey L'ippopotamo ammonitore: o, Angelica e Sneezby 576 Eugene Walter da Latte di luna 579 Compito di poesia: un esercizio di poesia occasionale 584 James Merrill e David Jackson da Il Club di Platone 616 ORRORI 627 Grace Paley La bambina 629 Galway Kinnell Lackawanna 637 Ian McEwan da l'arte della narrazione CLXXIII 640 Joyce Carol Oates Calore 641 Rachel Wetzsteon da A casa e lontano 658 C. Tomlinson La scopa: il racconto della sposa novella 664 Vijay Seshadri Ailanthus 665 Paul Auster Nel paese delle ultime cose 667 DIO 693 Philip Roth La conversione degli ebrei 695 P. Rogers L'errore nel pensare che la carne sia solo carne 714 Larry Brown Una resurrezione al bordo della strada 716 Robert Bly Il respiro 747 Gabriel Garcia Màrquez La Santa 748 Yusef Komunyakaa La caverna della memoria 763 Susan Power Serpenti 765 MORTE 811 Allen Ginsberg Arie di droga in città mezzanotte 813 Jeffrey Eugenides Le vergini suicide 817 Billy Collins Picnic, Lampo 842 Seamus Heaney da L'arte della poesia LXXV 844 A.S. Byatt da Il genio nell'occhio dell'usignolo 846 Priscilla Becker Lettera dopo un distacco 848 Maile Meloy Aqua Boulevard 849 Robert Pinsky La salvezza 859 Thom Gunn Sacro cuore 861 John Montague Ritorno 863 Norman Mailer da Un'opera in corso 864 CENA 871 Daniel S. Libman Belly of the Cat 873 Gary Snyder Oysters 889 Anthony Burgess da L'arte della narrazione XLVIII 890 Marie Ponsot Non vegetariana 892 BASEBALL 899 Jim Shepard Battendo Contro Castro 901 Anne Waldman Curt Flood 922 Donald Hall Il Terzo Inning 925 T. Coraghessan Boyle La storia di Hector Quesadilla 928 VIAGGI 945 Jack Kerouac La ragazza messicana 947 Robyn Selman Esodo 976 Joel Brouwer Rostropovic al Checkpoint Charlie... 986 A. Carson Uomini tv: Antigone (sceneggiatura 1e2)988 Agha Shahid Ali Una storia del motivo cashmere 990 Barry Lopez L'interno del North Dakota 998 James Baldwin da L'arte della narrazione LXXVIII 1004 Philip Larkin da Larte della poesia XXX 1006 V.S. Naipaul da L'arte della narrazione CLIV 1007 Charles D'Ambrosio Il suo vero nome 1009 L'ARTE DI SCRIVERE 1045 John Ashbery Musica reservata 1047 J.D. McClatchy A un reading 1050 John Hollander Farlo 1053 Elizabeth Bishop e May Swenson Corrispondenza 1056 John Cheever da On The Literary Life 1064 Ian McEwan da Larte della narrazione CLXXIII 1069 G. García Màrquez da L'arte della narrazione LXIX 1070 Mario Vargas Llosa da L'arte della narrazione CXX 1071 Tennessee Williams da L'arte del teatro V 1072 Gertrude Stein da Un'intervista radiofonica 1073 Ottavio Paz da Larte della poesia XLII 1079 E.L. Doctorow da L'arte della narrazione XCIV 1075 Joseph Heller da L'arte della narrazione LI 1077 Italo Calvino da L'arte della narrazione CXXX 1078 Chinua Achebe da Larte della narrazione CXXXIX 1079 Paul Bowles da L'arte della narrazione LXVII 1080 John Updike da Larte della narrazione XLIII 1081 John Mortimer da L'arte della narrazione CVI 1082 Robert Creeley da L'arte della poesia X 1083 Thornton Wilder da Larte della narrazione XVI 1084 Wendy Wasserstein da L'arte del teatro XII 1085 Ernest Hemingway da L'arte della narrazione XXI 1086 James Salter da l'arte della narrazione CXXXIII 1088 Don De Lillo da Larte della narrazione CXXXV 1089 Henry Miller da L'arte della narrazione XXVIII 1090 William Faulkner da Larte della narrazione XII 1091 Elizabeth Hardwick da L'arte della narrazione LXXXVII 1092 Gli scrittori 1095 Note 1109 |
| << | < | > | >> |Pagina 9IntroduzioneLa rivista dalla quale è stato tratto il contenuto di questa antologia è in giro da un bel po'. Quest'anno festeggia il suo cinquantesimo anniversario, una cosa rara da quando le riviste letterarie prediligono esistenze da farfalla, e scompaiono dalla scena non appena scema l'entusiasmo dei loro editori o il numero di abbonati. Il primo numero della Paris Review fu pubblicato nella primavera del 1953. A quel tempo, Parigi era un vivace centro di produzione letteraria, una città economica, appena uscita dalla guerra e dunque piena di giovani scrittori americani che approfittavano delle sovvenzioni per gli studi riservate ai veterani. È in questo tipo di bacino culturale che la Paris Review fu concepita dal romanziere Peter Matthiessen, dal compianto Harold L. Humes, da Donald Hall, che divenne il primo curatore della poesia, da William Pène du Bois, l'art editor, e dal sottoscritto, che si è fatto incastrare sin dagli inizi. Un saggio introduttivo di William Styron dichiarava gli intenti della Review – presentare la narrativa e la poesia piuttosto che la critica. La stranota decisione fu presa per aggirare i critici e intervistare gli autori stessi al fine di indagare sul loro processo creativo. Una delle interviste più rilevanti, a E.M. Forster, apparve nel primo numero, e indagava, in parte, le ragioni per cui lui (il più eminente scrittore anglofono dell'epoca) non scrivesse più romanzi dal 1924. La successiva serie sull'Arte di scrivere, oltre duecentocinquanta interviste a narratori e poeti, è stata definita, dagli estimatori, il dna della letteratura. Il presente volume include diversi estratti dalla serie. La produzione cinquantenaria della Review ha visto pubblicati i primi lavori di un pantheon di scrittori e poeti – William Styron, Evan S. Connell, Philip Roth, Nadine Gordimer, James Salter, Rick Bass, T. Coraghessan Boyle, Richard Ford, Mona Simpson, Jeffrey Eugenides, David Foster Wallace, Rick Moody tra gli scrittori di narrativa, mentre i poeti selezionati sono troppi per poterli elencare. Il materiale di non-fiction (in aggiunta alle interviste sull'Arte di scrivere) è stato vario – memorie, articoli, reportage fotografici, una serie intitolata "L'uomo dell'ultima fila ha una domanda". Come ci si può immaginare, la fonte da cui attingere per un'antologia del genere è inesauribile. Uno dei criteri per valutare una rivista è quello chiamato così, della "vita dello scaffale" – un tipo di statistica per cui i più grandi editori di riviste non vanno esattamente pazzi. I loro collaboratori, infatti, preferiscono non pensare a questo genere di cose. D'altra parte, una rivista letteraria, un trimestrale come la Paris Review, ha alcuni vantaggi. Non esce così spesso da stordire i suoi lettori bombardandoli di numeri. Tende a costituire una vera e propria antologia, con contenuti che meritano ben più di una scorsa veloce. Così, anziché finire sul fondo di un portariviste, viene sistemata sullo scaffale fino a diventare un pezzo da collezione. Le copie vecchie della Review, risalenti a quando la carta non veniva ancora trattata con conservanti, sono state maneggiate con la riverenza riservata alle sculture di giada, così che oggi i proprietari possono sfogliarne le pagine marron-pergamena per studiare l'opera giovanile di un poeta ormai consacrato agli onori della letteratura. Che cosa ha permesso a una pubblicazione come questa di raggiungere, con la sua considerevole "longevità di scaffale", un plateau così alto – il cinquantesimo anniversario? La risposta si trova, com'è ovvio, nel cospicuo numero di editori e scrittori che si sono sentiti nel giusto a voler sostenere quella che certo ritenevano una buona idea. Molti ci sono arrivati innanzitutto come lettori – spesso stagisti freschi di studi universitari. Ogni anno arrivano in redazione oltre 20.000 manoscritti, che vengono letti con cura diligente e nella speranza che magari questo qui spicchi il volo sopra gli altri e arrivi agli editori. Nel caos familiare del piccolo ufficio della Review, i lettori lavorano al piano interrato – un tappeto blu logoro, e poltrone prive d'imbottitura a dissimulare l'aspetto di un locale per le caldaie, con i suoi tubi alti e i contatori elettrici che ticchettano al muro. Alcuni si fermano a lavorare per diventare editor, e regalano anni anziché una sola estate alla Review. Quelli che sono stati alla rivista per un breve periodo, e persino quelli che si sono fermati a ricoprire una qualche posizione editoriale, raramente hanno avuto il tempo di dare una scorsa a tutti i contenuti dei numeri allineati sugli scaffali. Il patrimonio di cinquant'anni! Cosa che invece, naturalmente, è stata la prassi per coloro che hanno messo insieme questa antologia. Uno dei piaceri più grandi, per il sottoscritto, è stato quindi il numero di volte in cui, nel processo di selezione, li ho sentiti esplodere di stupore e di meraviglia per le cose in cui si stavano imbattendo lungo il cammino. È dura immaginare che il contenuto qui incluso non produca una reazione simile nel lettore. George Plimpton | << | < | > | >> |Pagina 72Raymond Carver
Piano
Dopo un bel po' di chiacchiere – quelli che sua moglie, Inez, chiamava accertamenti – Lloyd se ne andò per trasferirsi in una casa tutta sua. Aveva due stanze e un bagno all'ultimo piano di un palazzo di tre. Il soffitto di casa era vertiginosamente inclinato. Per camminarci, doveva star gobbo. Doveva chinarsi per guardare fuori dalle finestre e fare piano quando si alzava dal letto. Aveva due chiavi. Una gli serviva per entrare in casa. Poi saliva delle scale che portavano a un pianerottolo. Di lì, faceva un'altra rampa e arrivava alla porta di camera sua, e per quella toppa c'era un'altra chiave. Una volta, rincasando nel pomeriggio, in mano una sporta con tre bottiglie di André Champagne e della carne in scatola, si fermò sul pianerottolo e buttò l'occhio nel soggiorno della padrona di casa. Vide la vecchia stesa a pancia in su sul tappeto. Sembrava addormentata. Poi gli venne in mente che poteva essere morta. Ma la tv andava, così preferì pensare che dovesse dormire. Non sapeva bene come comportarsi. Si passò la sporta da una mano all'altra. Fu in quel momento che la donna diede un colpetto di tosse, si portò la mano in grembo, e ricadde in uno stato di immobilità e silenzio. Lloyd riprese a salire le scale e aprì la porta della sua stanza. Più tardi, verso sera, guardando dalla finestra della cucina, vide la vecchia giù in cortile, con in dosso un cappello di paglia e la mano sul fianco. Stava svuotando un piccolo annaffiatoio su delle pansè. In cucina, aveva un mobile unico con piano cucina e frigo. Il frigo-piano cucina era un minuscolo affare incastrato tra muro e lavello. Doveva piegarsi, quasi mettersi in ginocchio, per prendere una cosa dal frigo. Ma non era un problema, perché tanto non aveva granché lì dentro – tranne succo di frutta, carne in scatola e champagne. Il piano cucina aveva due fornelli. Di tanto in tanto ci scaldava l'acqua in un tegame e preparava il caffè in polvere. Ma certi giorni non beveva caffè. Si dimenticava, oppure semplicemente non gli sembrava una giornata da caffè. Una mattina si alzò e si buttò a pesce sulle briciole di ciambella e sullo champagne. C'era stato un tempo, qualche anno prima, in cui avrebbe riso all'idea di fare una colazione così. Ora non gli sembrava niente di strano. In effetti, non ci aveva riflettuto fino al momento in cui si trovò a letto a ripensare alle cose che aveva fatto durante il giorno, a cominciare da quando si era alzato. All'inizio, non gli veniva in mente niente di particolare. Poi si ricordò di aver mangiato ciambelle e bevuto champagne. C'era un tempo in cui l'avrebbe trovata una cosa a dir poco folle, una cosa da raccontare agli amici. Poi, più ci pensava, più gli sembrava evidente che non aveva alcuna importanza. Aveva fatto colazione con ciambelle e champagne. E con ciò? | << | < | > | >> |Pagina 215David Foster Wallace
Piccoli animali inespressivi
È il 1976. Il cielo è basso e pieno di nuvole. Le nuvole grigie
sono bulbose e increspate e brillano. Il cielo ha l'aria cerebrale. Sotto il
cielo c'è un campo, nel vento. Un'autostrada smunta fiancheggia il campo. Ci
passano molte macchine. Una
delle macchine si ferma sul ciglio dell'autostrada. Una donna
giovane con la faccia lasca fa smontare due bambini piccoli.
Un uomo al volante fissa dritto davanti a sé. I bambini sono
zitti e hanno la pelle molto bianca. La donna ha una borsa
della spesa con dentro qualcosa di pesante. La faccia le penzola lasca sopra la
borsa. Porta la borsa e i bambini bianchi a una
palizzata di legno, lungo il campo, lungo l'autostrada. Le
mani dei bambini, che sono piccole, vengono messe sul palo
di legno. La donna dice ai bambini di toccare il palo finché la
macchina non ritorna. Entra in macchina e la macchina se ne
va. C'è una mucca nel campo vicino alla palizzata. I bambini
toccano il palo. Il vento soffia. Passano un sacco di macchine.
Restano così tutto il giorno.
È il 1970. Una donna coi capelli rossi siede a diverse file di
distanza da uno schermo del cinema. Una bambina tutta elegante le siede accanto.
È iniziato un cartone. Gli occhi della bambina entrano nel cartone. Dietro la
donna c'è il buio. Un uomo siede dietro la donna. Si china in avanti. Infila le
mani nei capelli della donna. Gioca coi capelli della donna, nel
buio. La luce riflessa del cartone fa guizzare le facce del pubblico come
fiammelle: gli occhi della donna sono accesi di
paura. Sta seduta ferma immobile. L'uomo gioca coi suoi
capelli rossi. I cartoni nel cinema, le anteprime delle prossime
uscite, e il film vero e proprio, durano quasi tre ore.
Alex Trebek va su e giù per lo studio di JEOPARDY! con
addosso una spilla che dice PAT SAJAK SEMBRA UN
TASSO. Lui e Sajak giocano a squash ogni giovedì.
È il 1986. Il cielo notturno della California è appeso là, lucente e zitto come un palazzo vuoto. Lustrini bianchi tracciano linee lente sulle strade molto più in basso dell'appartamento calduccio di Faye. Faye Goddard e Julie Smith sono distese nel letto di Faye. Fanno a turno a chi sta sopra. Fanno sesso. Le urla di Faye risuonano come spiccioli contro le pareti di vetro del suo attico. Faye e Julie si rinfrescano l'un l'altra con degli asciugamani bagnati. Sono in piedi nude a una delle pareti di vetro e guardano Los Angeles. Porzioncine di Los Angeles si accendono e si spengono, seguendo la luce che si sposta sulla scia di altra luce. Julie e Faye stanno distese a letto, da amanti. Si fanno i complimenti sui loro corpi. Si lamentano della brevità della notte. Esaminano, e riesaminano, con una specie di entusiasmo infelice, la piccola ignoranza che necessariamente, dice Julie, punteggia il sentiero di qualsiasi relazione reale tra due persone. Faye dice che le piaceva Julie da molto prima di sapere che le piaceva. Vanno insieme sull'Oxford English Dictionary per analizzare la voce del verbo "piacere".
Stanno abbracciate. Julie è molto bianca, coi capelli a spazzola. Il buio
della stanza è butterato da pezzettini di Los Angeles, notturna, oltre il vetro.
Il buio cala a poco a poco attorno a loro e le riveste come il guanto di un
giardiniere. È incredibilmente romantico.
Il 12 marzo 1988 piove. Faye Goddard guarda la superstrada fuori dalla finestra dell'ufficio di sua madre prima scurirsi e poi luccicare di pioggia. Dee Goddard è seduta sul bordo della sua scrivania con solo le calze ai piedi e guarda anche lei fuori dalla finestra. La regista di JEOPARDY! è lì col responsabile delle pubbliche relazioni della trasmissione. La capomacchinista e la gobbista smanettano sopra a degli appunti. Alex Trebek sta seduto da solo vicino alla porta su una sedia di tela da regista, bevendo una lattina di soda. La stanza si riflette nella finestra scura. "Abbiamo bisogno di sapere cosa ti ha detto lei, così possiamo capire se verrà o no", dice Dee. "Qui, Faye, ci resta qualcosa come venti minuti massimo", dice la regista, guardando l'orologio sulla parte inferiore del polso. "Poi dobbiamo mettere in conto almeno un'altra ora di prove tecniche e registrazione. O resteremo indietro di una puntata, il che implica sforare col satellite e con le spese postali." "Per non parlare di un ragazzino che in questo esatto istante è mezzo catatonico dal terrore, e con nevrosi generali", dice pacata Muffy deMott, la responsabile della P.R. "L'ultima volta che l'ho visto era sul pavimento in posizione fetale fuori dal Trucco." Faye chiude gli occhi. "Lo sta tenendo d'occhio mio marito", dice la regista. "Grazie mille, Janet", dice Dee Goddard alla regista. Guarda il suo blocco. "Tutti gli altri fino alle prossime quattro puntate ci sono?" | << | < | > | >> |Pagina 357Jonathan Lethem
La sindrome dello strattonatore
Il contesto è tutto. Vestimi a festa e vedrai. Sono uno strillone di carnevale, un battitore d'aste, un performer di strada, un oratore biforcuto, un senatore sbronzo che fa ostruzionismo. La bocca non mi si secca mai, anche se per lo più bisbiglio e subvocalizzo, come se leggessi per conto mio a voce alta, mi ballonzola il pomo d'Adamo, i muscoli delle mascelle pulsano come un cuore in miniatura sotto guancia, il suono soffocato, le parole che escono attutite, meri fantasmi di se stesse, gusci vuoti di tono e di fiato. In questa forma ridotta le parole scappano dalla cornucopia del mio cervello per scorrere sulla superficie del mondo, pizzicando la realtà come dita su tasti di pianoforte. Carezzano, sfiorano. Sono un esercito invisibile in missione di pace, un'orda pacifica. Non bellicosa. Placano, interpretano, massaggiano. Dappertutto c'è uno smussare imperfezioni, un sistemare i capelli; un mettere anatre in fila, un sostituire zolle. Contare e pulire l'argenteria. Un picchiettare dolce sulle spalle di anziane signore per ottenerne una risatina. Solo che — ecco l'inghippo — quando trovano troppa perfezione, quando la superficie è già stata smussata e lisciata, le anatre sono già in fila, e le anziane signore sono già compiacenti, allora il mio piccolo esercito ribelle fa irruzione nei negozi. La realtà ha bisogno di un pizzicotto qua e là, la moquette ha bisogno di un difetto. Le mie parole cominciano a tirare nervosamente le maniche altrui, in cerca di un appiglio, un punto debole, un orecchio vulnerabile. E così che ti viene, l'impulso di urlare dentro una chiesa, un asilo, un cinema affollato. All'inizio è un prurito. Immotivato. Ma presto il prurito è un fiume in piena. Un diluvio universale. Il prurito è tutta la mia vita. Eccolo. Copriti le orecchie. Costruisci un'arca. Ho il morbo di Tourette.
"Mangiami!", urlo.
Sono cresciuto nella biblioteca della Casa di St. Vincent per Ragazzi giù in città a Brooklyn, sulla strada che serve da rampa di accesso al Ponte di Brooklyn. La Casa si affacciava su otto corsie di traffico, allineata all'edificio della succursale della Posta centrale di Brooklyn addetta allo smistamento, una costruzione che ronzava e occhieggiava per tutta la notte, coi cancelli che gemevano aprendosi per accogliere furgoni con montagne di quegli oggetti misteriosi chiamati lettere; alla Scuola Professionale Burton per Meccanici, dove studenti duri di comprendonio che aspiravano a vite oneste e noiose si riversavano in strada due volte al giorno per intervalli birra-e-panino, inondando l'angusta bottega della porta accanto; a un busto di granito di Lafayette che indicava il suo porto d'ingresso nella Battaglia di Brooklyn; a un rivenditore di macchine usate cinto da un'alta rete sormontata da grandi volute di filo spinato e bandiere fluorescenti gonfie di vento; e a un luogo di culto in mattoni rossi di quaccheri, che probabilmente si trovava lì da quando tutto il resto era campagna. In poche parole, questa accozzaglia di roba coagulata all'ingresso dell'antico quartiere in malora era ufficialmente Da Nessuna Parte, in un luogo che veniva strenuamente ignorato mentre lo si attraversava per andare Altrove. Prima che Frank Minna mi venisse a salvare vivevo, come ho detto, nella biblioteca. Mi organizzai per leggere ogni libro di quella biblioteca sepolcrale, ogni miserabile, morta donazione mai indicizzata e dimenticata in quel posto – riprova della mia profonda paura e noia al St. Vincent, così come preludio alla mia compulsione Tourettiana di contare, esaminare, elaborare. Rannicchiato sul davanzale, a girare pagine asciutte e a guardare il ping pong dei granelli di polvere nei fasci di luce solare, cercavo le tracce degli albori della mia stranezza in Theodore Dreiser, Kenneth Roberts, J.B. Priestley e nei numeri arretrati della Meccanica Popolare, fallendo perché non riuscivo a trovare il linguaggio per me. Ci andavo vicino i sabati mattina – specialmente Daffy Duck mi dava qualcosa, se riuscivo a immedesimarmi in un papero col becco fracassato in un'esplosione di dinamite. Anche Art Carney con The Honeymooners mi dava qualcosa, col suo modo di tirare il collo, quando avevamo il permesso di rimanere alzati a guardarlo. Ma fu Minna a portarmi il linguaggio, furono Minna e il Tribunale della Strada a farmi parlare. | << | < | > | >> |Pagina 515Italo Calvino
Ultimo viene il corvo
La corrente era una rete di increspature leggere e trasparenti, con in mezzo l'acqua che andava. Ogni tanto c'era come un battere d'ali d'argento a fior d'acqua: il lampeggiare del dorso di una trota che riaffondava subito a zig-zag. – C'è pieno di trote, disse uno degli uomini. – Se buttiamo dentro una bomba vengono tutte a galla a pancia all'aria, disse l'altro; si levò una bomba dalla cintura e cominciò a svitare il fondello. Allora s'avanzò il ragazzo che li stava a guardare, un ragazzotto montanaro, con la faccia a mela. – Mi dài, disse e prese il fucile a uno di quegli uomini. – Cosa vuole questo?, disse l'uomo e voleva togliergli il fucile. Ma il ragazzo puntava l'arma sull'acqua come cercando un bersaglio. "Se spari in acqua spaventi i pesci e nient'altro", voleva dire l'uomo ma non finì neanche. Era affiorata una trota, con un guizzo, e il ragazzo le aveva sparato una botta addosso, come l'aspettasse proprio lì. Ora la trota galleggiava con la pancia bianca. – Cribbio!, dissero gli uomini. Il ragazzo ricaricò l'arma e la girò intorno. L'aria era tersa e tesa: si distinguevano gli aghi sui pini dell'altra riva e la rete d'acqua della corrente. Una increspatura saettò alla superficie: un'altra trota. Sparò: ora galleggiava morta. Gli uomini guardavano un po' la trota un po' lui. – Questo spara bene, dissero. Il ragazzo muoveva ancora la bocca del fucile in aria. Era strano, a pensarci, essere circondati così d'aria, separati da metri d'aria dalle altre cose. Se puntava il fucile invece, l'aria era una linea diritta e invisibile, tesa dalla bocca del fucile alla cosa, al falchetto che si muoveva nel cielo con le ali che sembravano ferme. A schiacciare il grilletto l'aria restava come prima trasparente e vuota, ma lassù all'altro capo della linea il falchetto chiudeva le ali e cadeva come una pietra. Dall'otturatore aperto usciva un buon odore di polvere. Si fece dare altre cartucce. Erano in tanti ormai a guardarlo, dietro di lui in riva al fiumicello. Le pigne in cima agli alberi dell'altra riva perché si vedevano e non si potevano toccare? Perché quella distanza vuota tra lui e le cose? Perché le pigne che erano una cosa con lui, nei suoi occhi, erano invece là, distanti? Però se puntava il fucile la distanza vuota si capiva che era un trucco; lui toccava il grilletto e nello stesso momento la pigna cascava, troncata al picciolo. Era un senso di vuoto come una carezza: quel vuoto della canna del fucile che continuava attraverso l'aria e si riempiva con lo sparo, fin laggiù alla pigna, allo scoiattolo, alla pietra bianca, al fiore di papavero. – Questo non ne sbaglia una, dicevano gli uomini e nessuno aveva il coraggio di ridere. – Tu vieni con noi, disse il capo. – E voi mi date il fucile, rispose il ragazzo. – Ben. Si sa. Andò con loro. Partì con un tascapane pieno di mele e due forme di cacio. Il paese era una macchia d'ardesia, paglia e sterco vaccino in fondo alla valle. Andare via era bello perché a ogni svolta si vedevano cose nuove, alberi con pigne, uccelli che volavano dai rami, licheni sulle pietre, tutte cose nel raggio delle distanze finte, delle distanze che lo sparo riempiva inghiottendo l'aria in mezzo. Non si poteva sparare però, glielo dissero: erano posti da passarci in silenzio e le cartucce servivano per la guerra. Ma a un certo punto un leprotto spaventato dai passi attraversò il sentiero in mezzo al loro urlare e armeggiare. Stava già per scomparire nei cespugli quando lo fermò una botta del ragazzo. – Buon colpo, disse anche il capo, – però qui non siamo a caccia. Vedessi anche un fagiano non devi più sparare. Non era passata un'ora che nella fila si sentirono altri spari. – È il ragazzo di nuovo!, s'infuriò il capo e andò a raggiungerlo. Lui rideva, con la sua faccia bianca e rossa, a mela. – Pernici, disse, mostrandole. Se n'era alzato un volo da una siepe. – Pernici o grilli, te l'avevo detto. Dammi il fucile. E se mi fai imbestialire ancora torni al paese. Il ragazzo fece un po' il broncio; a camminare disarmato non c'era gusto, ma finché era con loro poteva sperare di riavere il fucile. La notte dormirono in una baita da pastori. Il ragazzo si svegliò appena il cielo schiariva, mentre gli altri dormivano. Prese il loro fucile più bello, riempì il tascapane di caricatori e uscì. C'era un'aria timida e tersa, da mattina presto. Poco discosto dal casolare c'era un gelso. Era l'ora in cui arrivavano le ghiandaie. Eccone una: sparò, corse a raccoglierla e la mise nel tascapane. Senza muoversi dal punto dove l'aveva raccolta cercò un altro bersaglio: un ghiro! Spaventato dallo sparo, correva a rintanarsi in cima a un castagno. Morto era un grosso topo con la coda grigia che perdeva ciuffi di pelo a toccarla. Da sotto il castagno vide, in un prato più basso, un fungo, rosso coi punti bianchi, velenoso. Lo sbriciolò con una fucilata, poi andò a vedere se proprio l'aveva preso. Era un bel gioco andare così da un bersaglio all'altro: forse si poteva fare il giro del mondo. | << | < | > | >> |Pagina 864Norman Mailer
da Un'opera in corso
Nota dell'Autore: gli Egiziani dell'antico Egitto credevano che ci fossero sette parti nell'anima che dopo la morte si comportavano tutte in modo diverso, alcune dipartivano rapidamente, altre restavano con il corpo per emergere all'ora giusta. Il Ka, o Doppio, del defunto, per esempio, di solito non si presentava fino a che la mummia non riposava nella sua tomba settanta giorni e più dopo la dipartita. Queste sette luci e forze, anime e spiriti dell'Anima, possono essere descritte come Ren (il proprio nome segreto), il Sekhem (la propria energia vitale), il Khu (il proprio angelo custode), il Ba (il proprio cuore), il Ka (il proprio doppio), il Khaibit (la propria ombra, cioè la propria memoria), e il Sekhu (i resti), ovvero ciò che rimane della vita dell'uomo o della donna che permane nel corpo mentre viene imbalsamato, una versione molto mutata del sé analogo alle pozze di acqua su un banco di sabbia dopo che la marea si è ritirata.
La descrizione che segue è raccontata dal Sekhu, di un morto.
Sono i suoi resti che parlano:
Un uncino mi entrò nel naso, colpendomi mentre attraversava l'apertura sulla parte alta delle narici, e si immerse nel mio cervello. Pezzi, pezzetti e parti intere di carne morta della mia mente vennero estratti attraverso un'apertura del mio naso, poi dall'altra. Eppure, per il male che fece, avrei potuto essere fatto di sassolini e radici. Non mi doleva più di quanto fa male al suolo quando si leva un'erbaccia e viene su con i filamenti strappati dalla zolla. Il dolore è presente, ma come il gridolino della pianta sradicata. Così fu per gli uncini, stretti nella loro curva, quando salirono nel naso per entrare nella testa, e frugare come dita cieche in una tana per afferrare pezzi del cervello e tirarli via. Adesso mi sentivo come un muro di roccia alla cui base i rastrelli stavano lavorando, ed era stranamente caldo come se la luce del sole fosse cocente, ma era solo il fiato del primo imbalsamatore, caldo di vino e fichi – come era nitido il senso dell'odorato! Eppure restava un enigma. Come poteva la mia mente continuare a pensare mentre mi facevano a pezzi il cervello? Stavano di certo tirando via attraverso i tunnel asciutti del mio naso dei brandelli di materiali vivi quanto la spugna secca, e mi resi conto – perché all'inizio quando entrò l'uncino ci fu un lampo nel mio cranio – che una delle mie luci nel Mondo dei Morti si era di certo mossa. Era il Ba, il Khaibit, o il Ka che mi aiutava adesso a pensare? E rimasi a bocca aperta mentre una droga particolarmente caustica, una tremenda mistura di calce e cenere, veniva versata dagli imbalsamatori per dissolvere ciò che poteva ancora essere rimasto all'interno del mio cranio. Quanto a lungo lavorarono, non lo so, quanto a lungo lasciarono quel liquido nella volta della mia testa svuotata è solo un'altra domanda. Di tanto in tanto mi sollevavano i piedi, mi tenevano all'ingiù, poi mi rimettevano a posto. Una volta mi girarono persino sullo stomaco per agitare i fluidi e permettere a quella cosa caustica di mangiarmi gli occhi. Due fiori avrebbero potuto essere colti quando quegli occhi sparirono. La notte il mio corpo diventava freddo; a mezzogiorno era quasi tiepido. Ovviamente non potevo vedere, ma potevo sentire gli odori, e arrivai a conoscere gli imbalsamatori. Uno si metteva del profumo così il suo corpo portava sempre l'inconfondibile asprezza di un gatto in calore; l'altro era un tipo pesante con un odore non del tutto cattivo – era quello con il fiato di vino e fichi. Sapeva anche di campi e di fango, e del buon cibo era di sicuro in lui – un mangiatore di carne, il suo sudore era forte ma non spiacevole – qualcosa di leale veniva fuori dagli umori della sua carne. Poiché riuscivo a sentirne l'odore quando si avvicinavano, sapevo che era giorno non appena arrivavano, e riuscivo a contare le ore. (Il loro aroma mutava con il calore e l'aria di questo posto.) Da mezzogiorno alle tre, si avvicinava anche ogni fragranza, buona o cattiva, delle sponde calde del Nilo. Dopo un po' compresi che dovevo trovarmi in una tenda. Si sentiva spesso lo schioccare della tela da vele in alto, e delle folate mi prendevano i capelli, una sensazione altrettanto definita di uno zoccolo che calpesta l'erba. Il mio udito cominciava a tornare da uno strano percorso. Perché non avevo interesse per ciò che veniva detto. Avvertivo le voci degli altri, ma non provavo il desiderio di comprendere le loro parole. Non erano neppure simili alle grida degli animali, sembravano piuttosto l'andare e venire delle onde o la corsa del vento. Eppure la mia mente si sentiva capace di una eccellente chiarezza. Credo che una volta Hathfertiti sia venuta in visita oppure, poiché è probabile che la tenda sia stata messa su un terreno della famiglia, è possibile che sia andata a passeggiare nei giardini e si sia fermata per guardare. Di certo ne ho colto il profumo. Era Hathfertiti, di certo; singhiozzò, come credendo che la fine mortale di suo figlio fosse finalmente arrivata, e se ne andò subito. A un certo punto in quei primi pochi giorni mi fecero un'incisione sul lato della pancia con un coltello di selce affilato – so quanto lo fosse perché persino con i pochi sensi che i miei Resti potevano utilizzare, una sensazione di affilatezza mi percorse come un aratro che rompe la terra, ma più sottile ancora, come se fossi stato un serpente tagliato in due dalla ruota di un carro, e poi iniziò la ricerca più dettagliata. È difficile da descrivere, perché non faceva male, ma in quelle ore ero sempre pronto a considerare l'interno del mio torace come un comune boschetto, dove uno a uno gli alberi venivano rimossi, con le radici che disturbavano le vene di roccia, le foglie che mormoravano. Sognavo di città alla deriva sul Nilo come isole galleggianti. Eppure quando il lavoro terminò mi sentii più grande, come se i miei sensi adesso vivessero in uno spazio più vasto. Avevano messo il mio cuore e i miei polmoni in un vaso, e il mio stomaco e intestino tenue in un altro? Anche se fosse stato così, i miei organi erano sì sparsi in luoghi differenti, che galleggiavano in diversi fluidi e spezie, eppure ancora esistevano intorno a me, come un villaggio. La loro alleanza sarebbe poi andata persa. Avvolti e riposti in vasi canopi, ciò che sapevano della mia vita sarebbe allora stato offerto al loro Dio. Quanto mi sono interrogato su ciò che quegli Dei avrebbero saputo di me una volta che i miei organi erano nei Loro vasi. Qebhsenuf avrebbe dimorato nel mio fegato e avrebbe saputo di tutti i giorni in cui i miei succhi gastrici sono stati coraggiosi; avrebbe anche saputo delle ore in cui il fegato, come me, ha vissuto nella nebbia di una lunga paura. Un esempio semplice, il fegato, ma più piacevole da contemplare che non i polmoni. Perché, con tutto ciò che sapevano delle mie passioni sarebbero stati ancora leali una volta spostati nel vaso dello sciacallo Tuamutef, vivendo nel dominio di quel saprofago? | << | < | > | >> |Pagina 947Jack Kerouac
La ragazza messicana
Avevo comprato il biglietto e stavo aspettando l'autobus per L.A. quando all'improvviso una ragazza messicana carinissima in pantaloni mi si parò davanti. Era su uno degli autobus appena arrivati con un gran sospiro dei freni ad aria, da cui i passeggeri scendevano per una sosta. I suoi seni erano ben dritti; le piccole cosce avevano un'aria deliziosa; i capelli lunghi erano lucidi e neri; e gli occhi erano grandi finestre azzurre con dentro la timidezza. Desiderai essere sul suo autobus. Un dolore mi accoltellò il cuore, come succedeva ogni volta che vedevò una ragazza che amavo e che andava in direzione opposta alla mia in questo mondo troppo grande. "L'autobus per Los Angeles imbarca i passeggeri all'uscita due", dice l'annuncio, e io salgo. La vidi sedersi da sola. Mi lasciai cadere proprio di fronte a lei al finestrino opposto e iniziai subito a fare piani. Ero così solo, così triste, così stanco, così tremante, così a pezzi, così sbattuto che presi coraggio, il coraggio necessario ad avvicinare una ragazza sconosciuta, e agii. Dovetti comunque trascorrere cinque minuti a darmi colpi sulle gambe nel buio mentre l'autobus imboccava la strada. "Devi, devi o morirai! Dannato stupido, parlale! Che ti prende? Ancora non ti sei venuto a noia?" E prima di rendermi conto di cosa stavo facendo mi sporsi sul corridoio verso di lei (che stava cercando di dormire sul sedile). "Signorina, vorrebbe usare il mio impermeabile come cuscino?" Lei alzò gli occhi sorridendo e rispose: "No, grazie mille". Tornai ad appoggiarmi allo schienale tremando; mi accesi un mozzicone di sigaretta. Aspettai che mi guardasse, rivolgendomi di sottecchi un breve e triste sguardo d'amore, e subito mi alzai chinandomi su di lei. "Posso sedermi accanto a lei, signorina?" "Se vuole." Così feci. "Dove sta andando?" "A L.A." Amavo il modo in cui disse L.A.; amavo il modo in cui tutti dicono L.A. sulla costa, dopotutto è la loro unica e sola città d'oro. "Anch'io ci vado!", gridai. "Sono molto contento che mi abbia permesso di sederle accanto, ero molto solo e sono in viaggio da un tempo maledettamente lungo." E iniziammo a raccontarci le nostre storie. La sua era questa; aveva un marito e un figlio. Il marito la picchiava, così l'aveva lasciato, a Sabinal, a sud di Fresno, e stava andando a Los Angeles a vivere per un po' con sua sorella. Suo figlio era rimasto con i familiari, che raccoglievano l'uva e vivevano in una baracca nei vigneti. Poteva soltanto ripensare a tutto ciò e arrabbiarsi. Avevo voglia di abbracciarla subito. Parlammo moltissimo. Lei disse che le piaceva molto parlare con me. Presto iniziò a dire che sarebbe voluta venire a New York. "Forse ci riusciremo!", risi. L'autobus gemette inerpicandosi su per Grapevine Pass e poi scendemmo nelle grandi distese di luce. Senza arrivare a nessun accordo in particolare iniziammo a tenerci la mano, e ugualmente venne deciso senza parole, in modo meraviglioso e puro, che quando avrei preso la mia stanza in albergo a L.A. lei sarebbe stata con me. La desideravo moltissimo; mettevo il viso fra suoi bellissimi capelli. Le sue piccole spalle mi facevano impazzire, la abbracciavo in continuazione. E a lei piaceva. "Amo l'amore", disse chiudendo gli occhi. Le promisi un amore splendido. La guardavo con passione. Ci eravamo raccontati le nostre storie, così scivolammo nel silenzio e in dolci pensieri pieni di speranza. Fu semplicissimo. Potevi avere tutte le Peach, le Vi, le Ruth Glenarms e le Marylou, le Eleanor e le Carmen del mondo, ma questa era la mia ragazza e la mia anima gemella, e glielo dissi. Lei confessò di avermi visto mentre la guardavo dalla panchina della stazione degli autobus. "Ho pensato che tu fossi un bravo ragazzo, uno studente universitario." "Oh, ma lo sono!", le assicurai. L'autobus arrivò a Hollywood. Nell'alba grigia e sporca, come quella in cui Joel McCrea incontra Veronica Lake alla tavola calda nel film I dimenticati, lei dormì sulle mie ginocchia. Guardavo avido fuori dal finestrino; le case di stucco, le palme e i drive-in, tutta quella follia, la logora terra promessa, la fine fantastica dell'America. Scendemmo dall'autobus a Main Street che non era diversa dalle fermate di Kansas City o Chicago o Boston, mattoni rossi, sporco, personaggi che si trascinano in giro, carrelli che stridono nell'alba senza speranza, l'odore puttanesco di una grande città.
E qui la mia mente si confuse, non so perché. Iniziai ad
avere delle sciocche visioni paranoiche in cui Teresa, o Terry,
così si chiamava, era una piccola battona qualunque che lavorava sugli autobus
per rubare i soldi ai ragazzi fissando degli
appuntamenti veri e propri come il nostro a L.A. in cui prima
portava l'idiota a fare colazione, dove il suo ragazzo l'aspettava, poi a un
hotel stabilito a cui lui aveva accesso con la sua
pistola o cose del genere. Non glielo confessai mai. Mangiammo sotto lo sguardo
fisso di un pappone; immaginai che Terry
gli stesse rivolgendo degli sguardi segreti. Ero stanco, mi sentivo strano e
perso in un posto lontano e disgustoso. La stupidità del terrore si impadronì
dei miei pensieri e mi spinse ad agire in modo meschino e volgare. "Conosci quel
tipo?", domandai.
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