Copertina
Autore The Paris Review
Titolo Il Libro della Gente con Problemi
EdizioneFandango, Roma, 2010, , pag. 532, cop.fle., dim. 15x21x2,7 cm , Isbn 978-88-6044-175-1
OriginaleThe Paris Review Book of People with Problems [2005]
PrefazioneStephin Merritt
TraduttoreAlessandra Osti
LettoreRiccardo Terzi, 2011
Classe narrativa statunitense
PrimaPagina


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Indice


Stephin Merritt   Introduzione                            7

Joanna Scott      Un caso borderline                     13

Annie Proulx      Il lupo di Wamsutter                   36

Ben Okri          L'agosto del venditore di sogni        79

Wells Tower       Il lumacone                           114

Julie Orringer    Quando lei sarà vecchia e io famosa   139

Rick Bass         Il racconto dell'eremita              168

James Lasdun      Neve                                  190

Malinda McCollum  Il quinto muro                        198

Norman Rush       Strumenti di seduzione                229

Denis Johnson     Sogni di treni                        249

Mary Robinson     Likely Lake                           334

Charles Baxter    Westland                              352

Miranda July      Voglia                                381

Richard Stern     Revisione                             389

Elizabeth Gilbert Il famoso trucco della sigaretta
                  accesa spezzata e riaggiustata        414

Frederick Busch   La vedova dell'acqua                  450

Charlie Smith     Crystal River                         450


Gli scrittori                                           529
Note                                                    531


 

 

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Pagina 7

Una breve nota sull'architettura e il design per interni nella Paris Review. Il Libro della Gente con Problemi dal trovatore di campi magnetici Stephin Merritt


Il grande problema, quello che salta fuori in ogni racconto è: donne scomparse, o donne scomparsissime, e nel racconto di Charlie Smith Crystal River, donne ancora più scomparse. Sembra che tutti abbiano bisogno di una madre, persino la madre stessa; invece, tutti hanno una ex. Strappati da qualche luogo (sempre madre?) o da qualcuno (sempre madre) ci ritroviamo al freddo con un bastone, alcune sostanze intossicanti, e magari un animale peloso. Senza mai avere vestiti a sufficienza, dobbiamo esprimere la nostra rabbia scalza non attraverso la seconda pelle della moda (fa troppo freddo), ma attraverso la terza pelle del nostro decoro.

Fra i tesori presenti in questo volume troviamo orrendamente arredati l'ufficio sprezzante dello psicanalista nel racconto di Joanna Scott, Un caso borderline, una stanza da incubo piena di oggetti scelti per la loro valenza simbolica, costretti a dimostrare la superiorità del terapeuta sul suo paziente. Al culmine della descrizione di questo ufficio, lunga una pagina, apprendiamo che è presieduto da una statuetta di bronzo di Galatea, con un orologio nella pancia, come se l'analista volesse dire: Tu sei mio, esisti solo in rapporto a me, farò di te ciò che voglio, mentre osservo il tempo che trascorre dentro di te, che ti fa invecchiare e ti avvicina alla morte e alla fine della seduta, quando mi pagherai.

L'affitto mensile di quaranta dollari di una roulotte in Il lupo di Wamsutter di Annie Proulx è più di quanto valga un'abitazione come quella per qualsiasi inquilino dotato di autostima, tuttavia se il nostro eroe avesse più rispetto per se stesso non ci sarebbe il racconto. La roulotte è tristemente priva di comodità ed è arredata da un divano, da un tavolo, dal letto, e da una cyclette scadente. Tanto per cominciare ogni cosa è scolorita e di cattivo gusto, e lì a osservare tutto c'è una colossale testa di alce. Là dentro niente di buono potrebbe mai accadere, così qualcuno ha dipinto sulle pareti slogan religiosi, "Ama Dio, Ama Dio, Ama Dio", come se qualcuno potesse amare qualcosa in un luogo così male arredato.

Nel racconto L'agosto del venditore di sogni, la descrizione di Ben Okri della stanza del suo protagonista è del tutto negativa. Ajegunle Joe si è svegliato e si è accorto di essere stato derubato, così della sua camera sapremo soltanto ciò che vi manca: carta, inchiostro, radio, pornografia, e il suo libro preferito, Le dieci meraviglie d'Africa. Per contrasto visitiamo il negozio buio di un erborista, che brulica letteralmente di vita, confondendo la linea fra animali e arredamento: i muri sono tappezzati di pelle di serpente, ragnatele, lumache, e una lucertola. Una tartaruga arranca sul pavimento. Nell'angolo c'è un portafortuna con delle penne, che brilla. E un luogo da cui si potrebbe scappare urlando.

In Il lumacone Wells Towers racconta di una casa malandata fatta di blocchi di cemento, ma la storia è talmente intrecciata con l'architettura che non voglio svelarla.

Il racconto Quando lei sarà vecchia e io famosa di Julie Orringer va da una villa fiorentina da sogno in cui ci si può adagiare su una chaise longue gialla, all'appartamento della nostra eroina, descritto in breve come perennemente privo di acqua calda, perché non ce n'è per nessuno, mai.

La capanna narrata nella parte iniziale del Racconto dell'eremita di Rick Bass è accogliente e confortevole, riscaldata da fuochi, da lanterne e da cani, piena di speranza e odori piacevoli, e tutto ciò crea un notevole contrasto con l'ambientazione in cui si svolge la storia: un paesaggio rischioso e alieno sotto il ghiaccio, da cui sembra impossibile fuggire. Ci siamo arrivati per caso, e non tutti potremmo tornare.

Neve di James Lasdun è visto dagli occhi di un bambino durante la vigilia di Natale; lui si concentra su tutto ciò che brilla (cornici d'argento, capelli dorati ingarbugliati in uno strumento per intrecciarli tutto d'argento, la neve che si scioglie) e quindi resta imperturbato quando si trova circondato da macchine terrificanti e pericolose, inclusa una che dimostra in modo conclusivo la profonda inconoscibilità del mondo.

L'eroina del racconto di Malinda McCollum, Il quinto muro, non può addirittura restare dentro casa propria perché le pareti, il soffitto, e il pavimento si stanno avvicinando. L'alternativa è la tackle box di Sam, piena zeppa di oggetti e puzzolente di esche, acqua salmastra e metamfetamina.

Norman Rush ambienta il suo Strumenti di seduzione soprattutto nel design per interni. La sua seduttrice prepara la scena con un'atmosfera erotica di morte ottenuta con l'illuminazione, l'assenza di orologi, e mobili forniti dal governo che rendono il suo appartamento simile a un bordello.

"Oggetti vari, bambole, specchi e briglie, e tutto fradicio d'acqua", così tutti i cittadini che sono partiti dopo l'incendio della città in Sogni di treni di Denis Johnson. La casa diventa soltanto un campeggio supremamente inospitale in cui non crescerà mai nulla, e non si riesce neppure a respirare, e tutti gli altri sono morti:

Il personaggio dall'ironico soprannome di Buddy, in Likely Lake di Mary Robinson vive in una tipica casa di periferia che fa eccezione perché nessun altro all'infuori di lui vi entra mai. Coloro a cui aveva voluto bene sono morti o partiti, la sua ragazza Elise non riesce mai ad andarvi, e la Connie deve restare in giardino. A cosa servono i gatti? Buddy non è neppure in grado di distinguerne uno dall'altro.

Lo squallido suburbio operaio di Detroit in Westland di Charles Baxter, che prende il nome dal suo centro commerciale, è quasi privo di verde, e le case si possono confondere l'una con l'altra. Il garage è pieno di robaccia, e c'è una "struttura per giocare" in cortile che non viene usata da anni. L'attività della casa consiste nello smontarla, e bere una grande quantità di birra.

In Voglia di Miranda July, "c'erano stanze vuote nella casa dove avrebbero dovuto mettere il loro amore, e avevano lavorato insieme per riempirle con equipaggiamenti di ottimo livello, all'altezza di consumatori esigenti. La situazione era molto tesa". E l'unica azione possibile è frantumare vetri.

Richard Stern in Revisione arreda la casa solitaria di Malibù con un telefono sul comodino munito di chiamata rapida al broker, e bottiglie blu appese sul terrazzo che la moglie defunta riempiva di acqua e zucchero per i colibrì. La caratteristica principale della casa è la sua distanza dal centro di Los Angeles, a un'ora piena di ansia sulla superstrada.

Le grandi case vittoriane nel Famoso trucco della sigaretta accesa spezzata e riaggiustata di Elizabeth Gilbert hanno un'importanza limitata a seconda che contengano oppure no Bonnie il coniglio, che è troppo grosso per essere usato nei trucchi di magia (o è una lei?).

Il minuscolo La vedova dell'acqua di Frederick Busch racconta di una casa che è tutta cantina, dove abita una vecchietta (forse quella scomparsa dagli altri racconti?) con le sue tubature intasate. La cantina è piena di robaccia e vecchia legna da ardere, "tutto ciò che non avrebbe potuto usare nella sua vita". Da fuori appare come una casa completamente al buio se non fosse per una finestra dalla quale filtra una debole luce gialla. Non ancora per molto.

In Crystal River di Charlie Smith, una casa è fatta per partire. I binari del treno passano proprio dall'altra parte dello steccato. Il letto è teatro di goffaggine. Persino il cibo viene cucinato fuori, apparentemente giustificato dalla presenza di un acquaio nella veranda sul retro. Questa casa potrebbe anche non esserci, e presto resterà vuota. Non c'è traccia che qualcuno vi torni mai.

Stephin Merritt

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Pagina 139

Julie Orringer

Quando lei sarà vecchia e io famosa


Ha delle foglie di vite, come una corona, sulla testa. L'uva le pende dai capelli, e nelle mani tiene i rami verdi. Balla con le braccia in aria. Sul mignolo del piede ha un anello di conchiglia rosa.

Per favore, qualcuno potrebbe dirle di andare a casa? Questa è la mia Italia, e il mio racconto. Siamo in una vigna vicino Firenze. Ho appena compiuto vent'anni. Lei è una ragazza, un'adolescente allampanata, e fa la modella. È famosa per essere rimasta quasi uccisa. L'anno scorso, quando aveva quindici anni, un fotografo le chiese di ballare sul parapetto di un ponte, e lei è caduta. Un ferro sotto l'acqua le aveva perforato il torace. L'acqua era entrata nella ferita, vicino al cuore, e per tre settimane è rimasta in ospedale con un'infezione così furiosa da farla delirare. Nel frattempo era diventata più sottile e più pallida, fino a che, quando ne uscì, pensarono che fosse la miglior modella mai esistita. I suoi capelli sono ondulati, lunghi e castani, e i suoi occhi azzurri hanno un'espressione stupefatta e triste. È alta un metro e ottanta e pesa cinquantuno chilogrammi. Me l'ha detto lei.

Questa settimana è venuta in visita da Parigi dove vive con suo padre, lo zio Claude. Quando Claude era giovane, lasciò l'università per diventare il favorito di un grande sarto, che lo introdusse nel mondo tutto paillette e cipria dei travestiti parigini. Il signor M. sfoggiava mio zio dappertutto con dei vestiti da sera bianchi e neri, décolleté con i tacchi alti e pettinature cotonate da diva. Ho visto delle fotografie nella sua soffitta a Fernald, in Indiana, mio zio appoggiato a una balaustra in una nuvola di chiffon rosa, con delle rose di seta alla vita. Una volta era apparso su Vogue, in un servizio di moda. Tutto questo era andato avanti per molto tempo, fino a quando, avevo sei anni, arrivò una cartolina in cui ci chiedeva di andarlo a prendere all'aeroporto di Chicago. Sbarcò dall'aereo tenendo in braccio una neonata che si dimenava. Né io né mia madre sapevamo nulla del fatto che avesse avuto una figlia, tanto meno un'amante femmina. E invece eccola lì, la mia cuginetta, ed eccola adesso nella vigna che balla la sua danza delle foglie d'uva per i miei amici e per me.

Aïda. Questo è il suo terribile nome. Ai-ii-da: due grida di dolore e uno di stupidità. I viticci le sì stringono sul corpo mentre gira su se stessa, e Joseph scatta fotografie. Lei sa che gli piacerà, quel modo in cui le foglie le stanno attaccate addosso, e il modo in cui l'uva le macchia il vestito bianco. Qui siamo sul terreno di un vinaio, senza permesso, e versiamo il succo della sua uva costosa, e se ci vede di certo ci sparerà. Che fine per la mia alta cuginetta. Fra le macchie viola sul suo petto, se ne allarga una più scura. Ho già detto che sono grassa?

Non è buffo il modo in cui ho imparato a dirlo? Sono grassa. Non sono pelle, muscolo, cartilagine od osso. Ciò che sono, la maggior parte di me, è il grasso. Continuo, bianco, più leggero dell'acqua, una fonte di energia. Nessuno può abbracciarmi tutta in una volta. Costituisce un reato? So che portamento avere. Qualche volta mi sento quasi aggraziata. Tutto intorno però sento gente magra che dice con enfasi: Liberati ora di quello che è flaccido! Evita le vacanze incubo che ingrassano! Perdi quegli ultimi tre chili! Cosa resta di una donna una volta persi i suoi ultimi tre chili?

Ho conosciuto Drew e Joseph nella mia classe di disegno a Firenze. Joseph è uno scultore biondo di Manhattan, e Drew è un pittore di trentasette anni del Wisconsin. In classe avevamo i cavalletti vicini, e Drew e io ci scambiavamo occhiate scandalizzate per il rumoroso walkman di Joe. Ci trovavamo tutti e due a disegnare a ritmo di techno. Quando alla fine ci lamentammo con lui, ci rispose che aveva iniziato a metterselo perché Drew e io parlavamo troppo. Magari fosse vero. Non parlo quasi con nessuno, nemmeno dopo tre mesi a Firenze.

Una sera mentre noi tre tornavamo a casa dalle lezioni, passammo davanti a un cartello che mostrava la cugina Aïda con un vestito grigio di seta, e quando dissi loro che era mia parente, si misero a ridere come se avessi fatto un commento da femminista. Io insistetti che stavo dicendo la verità. E fu un errore. Mi fecero sedere in un caffè e mi fecero parlare di lei per mezz'ora. Joseph si chiese se lei pensava di finire gli studi o di seguire la sua carriera, e Drew volle sapere se soffriva di disturbi alimentari e di un'autostima distorta. Sarebbe stato più facile se si fossero limitati a restarsene davanti al cartellone a sbavare. Almeno sarei stata in grado di anticipare il loro muto stupore quando l'avrebbero conosciuta davvero.

Aïda scuote le spalle e lascia che i capelli le ricadano davanti, nascondendole il viso in un'ombra. Non riescono a levarle gli occhi di dosso. Lo zio Claude l'avrebbe sgridata per essersi tolta il cappello da sole. L'ho raccolto e me lo sono messo. È di paglia d'oro e mi sta perfettamente. Cos'altro di suo potrei mettermi? Neppure i suoi guanti.

"Adesso resta immobile", dice Joseph, tendendo il pollice e l'indice come per incorniciarla. Scatta qualche fotografia e poi lascia cadere la macchina fotografica. Sembra quasi che voglia buttarle addosso una rete. Mostrerà quelle foto di Aïda ai suoi amici a casa, raccontando loro come ci aveva fatto l'amore fra le vigne. Questa sarà una bugia, spero. "Balla ancora", dice. "Più lentamente, questa volta."

Lei ruota i fianchi come una ballerina di Bali. "Così?"

"Ecco", ribatte lui. "Bene e lentamente." Senza farsi accorgere, si aggiusta i pantaloni corti.

Quando Drew guarda mia cugina, mi immagino che prenda appunti per dei quadri futuri. In Wisconsin dipinge affreschi professionalmente, e qui è il miglior studente della nostra classe, bravo persino a ritrarre il piede quando si presenta di fronte. Io non so assolutamente dipingere i piedi da nessuna angolatura. Tutti i miei modelli sembrano scivolare giù dalla pagina. Ho visto delle fotografie degli affreschi di Drew, pitture alte sette metri sui lati di scuole elementari e parcheggi, e le sue figure sembrano in grado di uscire dal muro e venirti a rompere la macchina. Dipinge anche soltanto i piedi. Immagino che adesso stia studiando le dita rosa di Aïda. Più tardi la dipingerà, di notte in camera sua, mentre la sua vicina del piano di sopra si eserciterà con il violino fino all'alba. "Se non ci vivesse, dovrei pagarla per farcela stare", mi dice. Lo terrà anche sveglio tutta la notte, ma almeno lo fa dipingere bene.

Ci sono certe cose che non riesco mai a sopportare: mancanza di cibo, mancanza di sonno, e Aïda. Ma adesso lei è qui in Italia durante la mia settimana di libertà perché i nostri genitori hanno pensato che sarebbe stato divertente per noi. "Aïda non si riposa molto", aveva detto mia madre. "Ha bisogno di stare un po' di tempo lontana dal lavoro in Francia."

Io le avevo risposto che lei mi innervosiva. "Il suo nome ha un umlaut, santo cielo."

"È tua cugina", aveva replicato mia madre.

"È apparsa sulle copertine di dodici riviste."

"Beh, Mira", e qui la sua voce era diventata dolce, quasi riverente, "tu sei una futura Michelangelo."

La fede che ha mia madre in me è fuori discussione. Ha sempre creduto che avrei avuto successo, non prendendo mai in considerazione la mia incapacità di rappresentare la figura umana. Dice che ho uno "stile". Che potrebbe anche essere vero, ma non fa di me la futura nessuno. Qualche volta mi immobilizzo davanti alla tela, del tutto consapevole che se continuo a dipingere, prima o poi la deluderò.

[...]

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Pagina 249

Denis Johnson

Treni di sogno


1


Nell'estate del 1917, Robert Grainier prese parte al tentativo di uccidere un lavoratore cinese colto sul fatto, o solo accusato, di aver rubato nei magazzini della compagnia della ferrovia internazionale di Spokane, nel Panhandle dell'Idaho.

Tre della ferrovia avevano bloccato il ladro e lo trascinavano su per il lungo sbancamento verso il ponte in costruzione a diciotto metri sopra il fiume Moyea. Il cinese pronunciava a voce alta una rapida cantilena. Si agitava e si contorceva come una donnola nel sacco, tirando colpi con il pugno libero contro l'uomo che lo teneva per il collo. Quando quegli uomini gli passarono accanto, Grainier, vedendoli in difficoltà, prestò la propria assistenza e si trovò ad afferrare uno dei piedi scalzi del colpevole. La persona di fronte a lui, il signor Sears, dell'amministrazione della Spokane International, teneva il prigioniero in modo praticamente inutile, per una ascella, ed era l'unico di loro, a parte l'incomprensibile cinese, a parlare durante la parte più dura delle loro fatiche: "Ragazzi, che io sia dannato se vedremo mai la cima di questa salita!". Dovremo mica trascinarlo per tutto il cammino?, era la domanda che Grainier voleva fare, ma ci ripensò, conservando il fiato per la lotta. Sears rise una volta, con il viso esangue per la fatica e l'orrore. Finirono tutti nella polvere e si rialzarono, poi ricaddero, con il cinese che parlava lingue strane e li atterriva tutti e quattro al punto che qualsiasi fossero le loro intenzioni al principio, ora non avevano più senso: quell'uomo adesso era condannato. Non c'era altro da fare se non gettarlo giù dal traliccio.

Raggiunsero gli altri, un gruppo di una dozzina di uomini appoggiati ai loro attrezzi, in pausa al sole per asciugarsi il sudore, e per osservare quella scena. Grainier stringeva convulsamente il piede incallito del cinese, meravigliandosi di sé, mentre l'uomo che teneva l'altro piede mollò la presa e si sedette senza fiato per terra, ricevendo un calcio in un occhio prima che Grainier si potesse occupare di quell'estremità che si agitava libera. "Era solo per divertimento. Per divertimento", disse l'uomo seduto per terra, e rivolto al suo compare lì accanto aggiunse: "Dai, Jel Toomis, lasciamo stare". "Non posso", rispose quel tale signor Toomis, "Sono quello che l'ha preso per il collo!", e rise con un moto di confusione che gli cambiò l'espressione. "Beh, comunque ora l'ho beccato!", esclamò Grainier, ghermendo entrambi i piedi del piccolo demonio e serrandoli con più forza. "Ho il bastardo, e sono con voi."

Il gruppo di carnefici raggiunse la metà dell'ultima arcata completata, a ventuno metri sopra le rapide, e fece ogni sforzo possibile per buttare di sotto il cinese. Lui però stava avendo la meglio e si aggrappava alle loro braccia e alle loro gambe, piangendo e blaterando nella sua lingua incomprensibile, fino a che all'improvviso mollò la presa e con una mano si tenne alla trave sotto di lui. Con un calcio si liberò con facilità di quelli che lo tenevano prigioniero, mentre loro tentavano di disfarsi di lui in ogni caso, e si spostò di lato, oscillando sulla gola e passando sopra il fiume, una mano dopo l'altra sulla forma scheletrica dell'arcata successiva. Il compagno del signor Toomis gli corse dietro, in equilibrio su una trave, pestandogli le dita. Il cinese saltò di trave in trave come un funambolo del circo giù lungo la struttura incrociata. Una coppia del gruppo di lavoratori salutarono con gioia la sua fuga, mentre altri, sebbene non sicurissimi del motivo della sua cattura, gridavano che quel bandito doveva essere fermato. Il signor Sears levò dalla fondina alla cintura una grossa e vecchia pistola a quattro colpi e sparò a tutti, senza alcun risultato. A quel punto, il cinese era scomparso.


Tornando a casa dopo quell'incidente, Grainier fece una deviazione di tre chilometri fino all'emporio del villaggio della ferrovia di Meadow Creek a prendere una bottiglia di Sarsaparilla Hood per sua moglie, Gladys, e per la loro piccola, Kate. Faceva caldo a salire su per la collina attraverso i boschi, verso la capanna, e prima di percorrere l'ultimo chilometro, si fermò e si bagnò nel fiume, il Moyea, più a monte rispetto al villaggio, nel punto in cui era più profondo.

Era un sabato sera, e per prepararsi alla serata, un certo numero di operai della ferrovia di Meadow Creek si era riunito in quella pozza, a fare il bagno con i vestiti addosso e sedendosi poi sulle rocce ad asciugarsi prima che l'ultima luce abbandonasse il canyon. Gli uomini lasciavano le scarpe e gli stivali lì accanto e si immergevano lentamente fino alle spalle, saltavano e schizzavano. Molti di loro bevevano il whisky dalle fiasche mentre stavano lì seduti a tremare dal freddo dopo le abluzioni. Qui e là un braccio e una mano che stringeva un cappello spuntavano dalla superficie mentre qualcuno si bagnava la testa. Grainier non riconobbe nessuno e se ne restò da solo tenendo continuamente d'occhio i propri stivali e la bottiglia di Sarsaparilla.

Tornando a casa nel buio che calava, a Grainier sembrò di incontrare il cinese da tutte le parti. Il cinese per la strada. Il cinese nei boschi. Il cinese che camminava piano, dondolando le mani su delle braccia simili a corde. Il cinese che saltava su dal fiume ballando come un ragno.


Passò la bottiglia di Hood a sua moglie Gladys. Lei era seduta nel letto, accanto alla stufa, allattando la bambina, debilitata a causa del catarro. Avrebbe potuto benissimo resistere, fare il bucato e preparare le patate e la trota per la cena, ma era loro abitudine lasciarla riposare con una bottiglia o due del dolce tonico Hood, quando le doleva la testa e il naso le si tappava, prendendosi una vacanza da quelle faccende. Anche la figlia piccola di Grainier sembrava soffrire dello stesso disturbo. Aveva gli occhi un po' incrostati e il muco le colava formando delle bolle dalle narici, mentre succhiava e sbuffava al seno di sua madre. Kate aveva quattro mesi, ed era ancora del tutto calva. Non sembrava riconoscerlo. La sua piccola malattia non le avrebbe fatto nulla se non avesse contratto la tosse. Grainier adesso era accanto al tavolo nella capanna di una stanza sola, ed era preoccupato. Il cinese, ne era sicuro, li aveva maledetti con forza mentre lo trascinavano, e da ciò poteva venirne ogni sorta di male. Sebbene fosse stordito dalla frenesia di quel pomeriggio e sconcertato dalla violenza, dal sentirsi trascinare da quella forza come un seme nel vento, il giovane Grainier sperava in cuor suo che fossero andati avanti e l'avessero ucciso prima che quell'uomo potesse maledirli.

Si sedette sul bordo del letto.

"Grazie, Bob", disse sua moglie.

"Ti piace la Sarsaparilla?"

"Certo. Sì, Bob."

"Pensi che la piccola Kate possa sentirne il sapore nella tua tetta?"

"Certo che può."


Per molte notti sentirono il treno diretto a nord della Spokane International mentre attraversava Meadow Creek, a tre chilometri giù nella valle. Quella sera il fischio lontano lo svegliò, e si trovò da solo nel letto di paglia.

Gladys si era alzata insieme a Kate, sedeva sulla panca accanto alla stufa, grattando avena bollita fredda dai bordi della pentola, e facendola succhiare alla bimba dalla punta del suo dito.

"Quante cose sa, che dici, Gladys? Più o meno come un cucciolo di cane? Che pensi?"

"Un cagnolino può sopravvivere da solo dopo che la cagna l'ha svezzato", rispose lei.

Lui aspettò che lei si spiegasse. Spesso ragionava meglio di lui.

"Il cucciolo dell'uomo non potrebbe farlo", continuò lei, "andarsene da solo e vivere dopo essere stato svezzato. Un cane sa più di un bambino fino a che il bambino non impara le parole. E non qualche parola soltanto. Un cane allevato in casa sa qualche parola, più o meno come un bebè."

"Quante parole, Gladys?"

"Sai", spiegò lei, "quelle per i suoi giochi e per le cose che gli dici di fare."

"Dimmene qualcuna, Glad." Era buio e lui voleva continuare a sentire la sua voce.

"Beh, prendi e vieni, e siediti, e giù, e girati. Conosce il nome di tutte le cose che sa fare."

Nel buio, lui sentì gli occhi di sua figlia girarsi verso di lui come quelli di un bruto con le spalle al muro. Erano soltanto i suoi pensieri che lo ingannavano, ma gli scese qualcosa di freddo giù per la schiena. Rabbrividì e si tirò il piumino fin sotto al mento.

Per tutta la vita, Robert Grainier fu in grado di ricordare quel preciso momento di quella notte.

[...]

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Pagina 334

Mary Robinson

Likely Lake


Il campanello della porta suonò e Buddy, sbirciando fuori attraverso lo spioncino, vide una donna. Aveva gli occhi verdi e i capelli lisci e neri, tagliati di netto come una Keely Smith degli anni Cinquanta. La conosceva. Faceva la contabile o qualcosa del genere per lo studio legale lì accanto, specialmente nei periodi in cui si pagavano le tasse. La ricordava anche dai mercatini organizzati da sua moglie in giardino, sebbene ciò risalisse a un paio di anni prima e sua moglie adesso fosse la sua ex. Aveva comprato un astuccio per gioielli e una lampada alogena. Riusciva a ricordarla sul vialetto là – con le sue belle gambe e le décolleté che indossava. In quei giorni aveva un maggiolino bianco. Doveva essere defunto, però, perché in seguito l'aveva notata venire al lavoro in taxi.

In realtà le aveva prestato venti bigliettoni. Lei si chiamava Connie. Il giugno scorso, forse, quando il suo giardino era al meglio. Si trovava là fuori a sistemare l'irrigatore, la prima cosa di quella mattina, quando un taxi aveva accostato, con lei sul sedile posteriore. La donna aveva abbassato il finestrino e aveva iniziato a dargli spiegazioni. Era arrivata presto al lavoro ma aveva percorso tutto il tragitto senza rendersi conto che la sua borsa era vuota. Gliela aveva mostrata – una pochette beige. Aveva persino aperto il fermaglio tenendola fuori dal finestrino.

Quando Buddy aprì la porta vide che lei stava sventolando una banconota da venti dollari.

"Non è necessario, Connie", disse lui.

Lei lo ringraziò con un cenno del capo perché lui si ricordava il suo nome. Disse: "Non voglio discutere". Si avvicinò e gli infilò la banconota nel taschino della camicia. "Vedi?", aggiunse. "Già fatto."

"Bene, ti ringrazio", replicò Buddy. Sfiorò il taschino, appiattendo i soldi ripiegati. Portava una camicia di cotone azzurro che si era messo un'ora prima quando era tornato a casa dopo essere andato a tagliarsi i capelli.

Lei era ancora vicina, si era messa un meraviglioso profumo, ma lui pensò che non doveva commentarlo. Tenne gli occhi bassi e aspettò come se lei fosse un cliente e lui un impiegato. Disse: "Allora, sei sempre nel quartiere? Ti vedo raramente"..

"Non hanno avuto bisogno di me." Mise un broncio finto. "Nessuno ha avuto bisogno di me." Fece un passo indietro. Era la prima settimana di settembre, ancora tiepida. Portava un abito attillato blu marino con il colletto bianco e un cardigan rosso sulle braccia. Portava delle calze sottili sulle gambe grosse e formose.

"Abbiamo un ultimo problema", aggiunse. Sollevò un dito.

Lui la guardò, alzando le sopracciglia.

La sua mano ricadde, distolse lo sguardo e parlò come se stesse leggendo, come se le sue parole fossero stampate in cielo là sulla destra. "Ho una cotta per te", disse. "Una tale cotta, Buddy. La più tremenda, la più irragionevole delle cotte."

"No, non è vero. Non è possibile."

"Una, tremenda, cotta."

"Bene", replicò Buddy. "Bene, benebenebene."


Aveva una casa – di due piani, una villetta Lowcountry. Era su una stradina che portava a Indian Town e oltre a quella c'erano le strade e le autostrade che portavano nel Nord Pennsylvania. In quel momento era seduto su un divano accanto a una finestra in salotto e, nella luce di mezzogiorno, sfogliava alcune riviste e un libro sugli uccelli.

Da quella finestra c'era una bella vista. Dietro la casa c'era una vallata e Buddy riusciva a vedere attraverso i suoi rampicanti e i suoi alberi fino agli argini di Likely Lake.

Suo figlio era morto là in un incidente. Tre anni prima, d'agosto. Matthew. Quando mancavano due giorni al suo ventunesimo compleanno. Il suo Jet Sky aveva colpito una barca da pesca che usciva da un'insenatura. L'agosto seguente, la moglie di Buddy l'aveva lasciato.

Lui aveva smesso di uscire – quello che il suo analista definiva "isolamento". Aveva abbattuto i muri della camera da letto di suo figlio e quelli della stanza in cui Ruthie cuciva, e convertito tutto il piano superiore in uno studio. Iniziò portandosi a casa tutti gli incarichi. Era un disegnatore industriale, il più anziano di Qualitec, un'impresa di ingegneri elettromeccanici per cui lavorava da anni.

"Faccia attenzione a non perdere i contatti", lo aveva avvisato il suo terapeuta. "Succede gradualmente. Si impadronisce di lei per gradi. Quando non si interagisce con la gente, si inizia a perdere il ritmo. Poi bam. All'improvviso lei è quel tipo in giardino."

"Chi sono?", domandò Buddy.

"Il tipo con i pantaloni troppo corti", rispose il terapeuta.


Avrebbe dissuaso la Connie, si disse Buddy in quel momento mentre rovistava in cucina. Aprì con uno strattone un cassetto e osservò ciò che conteneva, tirò fuori un pelaverdure, lo rimise al suo posto. L'avrebbe dissuasa con gentilezza. Non voleva farla sentire un insetto. "Congedala con semplicità", si disse ad alta voce, ed entrambi i gatti fecero capolino per osservarlo. Buddy non aveva mai imparato a distinguere l'uno dall'altro. Erano gatti comuni, di taglia media, e gialli. La fidanzata di Matt, Shay, li aveva portati quando erano dei mici, come regalo di compleanno, la settimana in cui era morto. I gatti adesso restavano in casa e facevano compagnia a Buddy. Li aveva chiamati Bruce, e Fratello di Bruce.

Entrò nel ripostiglio fuori dalla cucina e prese un aspirapolvere. Gli piaceva passarlo. Gli piacevano i lavori che poteva terminare in fretta. E voleva che fosse tutto a posto per quando Elise sarebbe arrivata quella sera. Le cose per lui erano cambiate nei mesi trascorsi da quando si erano incontrati. Era tutto diverso da quando c'era lei. Un modo per cavarsela con la Connie, pensava, era di menzionare fra parentesi Elise. Poteva fare effetto. Oppure sarebbe stato più efficace dire: "La mia fidanzata è gelosa", o qualcosa del genere.

I gatti si aggiravano nella zona del pranzo e guardavano Buddy mentre preparava l'aspirapolvere e srotolava il suo chilometrico filo elettrico. "Non azzardatevi a toccare una presa come questa", disse loro. "È calda, calda, calda.


*



Intorno alle due, Elise telefonò dal lavoro. Era consulente di gruppo a Cherry Trees, un ospedale psichiatrico nella zona dei medici. Buddy vedeva il suo terapeuta in un altro edificio di quella zona e là aveva incontrato Elise, precisamente nel parcheggio. Era stato nel febbraio precedente in un giorno in cui nevicava e lui si era dimenticato gli antinebbia accesi. Lei aveva usato dei cavi gialli per ricaricare la batteria per salvarlo. Buddy l'aveva invitata a prendere un caffè e i due erano poi andati via con la Mercury nera di lui, sfrecciando sulla Old Post Highway per andare a far ricaricare la batteria.

Finirono a pranzo in un ristorante francese, dove Elise si infilò degli occhiali bordati di corno e lesse ad alta voce dal menu. Senza gli occhiali, lei gli ricordava Jean Arthur – la sua figura, le lentiggini e i capelli morbidi e ricci. Il suo francese era pessimo e pieno di suoni simili a grugniti, ma a Buddy lei piacque per averci comunque provato. Gli piaceva la sua risata, che saliva e poi calava.

"Vincent è scappato", spiegò lei al telefono in quel momento. "In qualche modo c'è riuscito. Proprio in mezzo a un incontro sulle Sfide della Vita."

"Per fortuna non so cosa sia", replicò Buddy.

"Il problema per me è che, con Vincent in libertà e la Sicurezza che lo cerca, non potrò portare fuori il mio gruppo. Il che significa niente Passeggiata per Fumare."

"Giusto, perché tu sei l'unica con un accendino. Quindi devono seguirti tutti."

"Beh, non sono cani. Ma si stanno innervosendo. E criticano Vincent. Pensano gli si debba sparare."

"Difficile sapere da che parte stare", ribatté Buddy.

"Proprio", concluse Elise, e gli disse che doveva andare.


Quel giardino fiorito era il primo di Buddy, ma era stupendo. Non capiva più la gente che sciupava e uccideva le piante. Il terapeuta gli aveva suggerito il giardinaggio, così un sabato in cui Elise era libera, era andato con lei al Tristie's Arboretum e avevano comprato il necessario per iniziare. Lei l'aveva anche aiutato a dare una forma al giardino. Avevano messo insieme un disegno che sembrava un collare intorno al cortile e al vialetto.

Buddy aveva annaffiato, nutrito, e inumidito i fiori. Ogni giorno che passava sbocciavano, diventavano più grandi e più alti. "Cos'altro vi potrei domandare?", gli chiese. "Noci e frutti?"

[...]

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Charles Baxter

Westland


Sabato mattina allo zoo, davanti alla gabbia del leone, cielo coperto e un venticello leggero che porta l'odore delle noccioline e di feci di animali, i pavoni che avanzano pomposi da una parte all'altra dei marciapiedi. Ero davanti al fossato che separa gli spettatori umani dai leoni. I leoni non erano esattamente in gabbia; soltanto non erano liberi di andarsene. Un maschio e una femmina stavano sonnecchiando su finte sporgenze di roccia. Della carne cruda era lì vicino. Tenevo le mani in tasca e aspettavo un momento di energia per poter andare a fare le mie commissioni del sabato mattina. Poi una ragazza, un'adolescente, apparve dietro di me, con le mani in tasca anche lei, fermandosi a pochi passi di distanza sulla destra. Con la voce di chi è stato sveglio tutta la notte, disse: "Cosa faresti se sparassi a quel leone?". Mosse la testa: intendeva il maschio, quello più vicino.

"Sparargli?"

"Giusto."

"Non lo so." Ogni tanto bisogna incoraggiare la gente, fingere che parlino di qualcosa di reale. "Hai una pistola?"

"Certo che ce l'ho." Il viso sottile esprimeva cupezza. Era fissata con il leone. "Ce l'ho qui in tasca."

"Ti denuncerei", dissi. "Cercherei di fermarti. Ci sono dei guardiani qui. La gente non spara agli animali in gabbia. Non dovresti neppure portare un'arma nascosta, una ragazza della tua età poi."

"Qui siamo a Detroit", spiegò lei.

"Lo so", replicai. "Ma la gente non spara ai leoni in gabbia a Detroit né da nessuna altra parte."

"Non sarebbe così male", continuò lei, accennando di nuovo ai leoni. "Si capisce dai loro musi quanto vogliano uscire."

Dissi che non lo pensavo.

Si girò per guardarmi. La sua pelle era tanto bianca da sembrare candeggiata, e portava un lungo soprabito, scarpe da tennis alte e dei jeans strappati alle ginocchia. Sembrava una barbona di quindici anni. "È perché sei una persona sconnessa che non riesci a vederlo", disse. Rabbrividì e si frugò in tasca tirandone fuori un pacchetto di sigarette spiegazzato. "I leoni sono così umani. Le cose li toccano. Sentono tutto più di noi. Sono romantici." Gettò uno sguardo al suo pacchetto malridotto, e con un movimento tremante lo gettò nel fossato. Ondeggiava avanti e indietro. "Vogliono uccidere, banchettare ed emozionarsi", spiegò.

Guardai la pelle sbiancata di quella ragazza, la carnagione da caramelle e bibite gassate, e dissi: "Stai bene?".

"Ieri notte ho dormito qui", rispose. Indicò un punto vago dietro di sé. "Ho dormito là. Sotto quegli alberi. Vicino agli orsi polari."

"Perché l'hai fatto?"

"Non sono stata sola tutta la notte." Stava rispondendo a una domanda che non avevo fatto. "Quel tipo era venuto qui con me per un po' per essere carino e amoroso, ma non riusciva a capire perché dovesse restare. Se l'è svignata verso mezzanotte. Aveva detto che era giusto venire qui ed essere solidali con il mondo animale, ma che bisognava capire quando fermarsi. Gli ho risposto che non l'avrei difeso davanti ai suoi amici se se ne fosse andato, e se n'è andato, quindi per quanto mi riguarda, è finito, volatilizzato."

Adesso tremava davvero, e si rannicchiava sotto quel lungo soprabito. Non mi piace aiutare gli sconosciuti, ma lei aveva bisogno di aiuto. "Hai fame?", domandai. "Vuoi un hamburger?"

"Lo mangio", rispose, "ma solo se lo compri tu."


La portai a un fast food e la feci sedere, poi le comprai uno dei famosi cheeseburger giganti di quel posto. Lo tenne fra le mani con familiarità mentre guardava le macchine che passavano su Woodward Avenue. Lasciai che il mio sguardo seguisse il suo, e quando tornai a spostarlo, metà del cheeseburger era sparito. Non masticava neppure. Non guardava il cibo. Mangiava come un soldato in trincea. Ciò che ne restava era tenuto stretto fra le sue dita magre decorate con dello smalto rosa scheggiato. Era carina in un modo tutto suo, crudo e sciatto.

"Mi stai guardando."

"Sì, è vero", ammisi.

"Come mai?"

"Guardare è permesso", risposi.

"Forse." Adesso ricambiò lo sguardo. "Sei uno di quelli schifosi?"

"Di che genere?"

"Del genere del vecchio schifoso che rimorchia le ragazze e le porta in giro, e, tipo, le terrorizza per giorni poi le butta in un campo."

"No", replicai. "Non sono così. E non sono così vecchio."

"Forse è l'accento", disse lei. "Non sembri americano."

"Sono nato in Inghilterra", le risposi, "ma sono in questo paese da trent'anni. Sono un cittadino americano."

"Devi essere nato in questo paese per sembrare americano", concluse lei, bevendo il suo frappè di cioccolato dalla cannuccia. Continuava a fissare il traffico. Guardarlo sembrava restituirle la pace mentale. "Immagino che tu sia a posto", disse distante, "e poi non sono preoccupata perché, come ti ho detto, ho una pistola."

"Oh, già", replicai.

"Non sei un vero americano perché tu non credi!" Poi quella bambina frugò nella tasca del soprabito e buttò sul tavolo una pistoletta lucida, accanto ai contenitori di plastica e alle patatine fritte. "Ecco", disse.

"Mettila via", le dissi. "Gesù, spero che abbia la sicura."

"Credo di sì." Si pulì una mano sul fazzoletto e la fece cadere di nuovo in tasca. "Allora dimmi il tuo nome, signor Samaritano."

"Warren", risposi. "Mi chiamo Warren. E tu?"

"Jaynee. Cosa fai, Warren? Devi fare qualcosa. Sembri uno che fa qualcosa."

Le spiegai del fondo governativo per i servizi sociali e la terapia, ma i suoi occhi si velarono e mi interruppe.

"Oh già", disse, masticando le sue patatine fritte con la bocca aperta così che volendo si poteva guardarci dentro. "Uno di quegli amici professionali. Ho già visto gente come te.

La portai a casa in macchina. Ammirò il mangianastri e i tappetini. Mi diede le indicazioni per arrivare a casa sua a Westland, in una delle periferie. Detroit ha quattro centri commerciali ai suoi punti cardinali: Westland, Eastland, Southland e Northland. Una città è cresciuta intorno a Westland, una zona di operai, e adesso Westland è il nome del centro commerciale e della città.

Mi condusse attraverso i fast food, e attraverso una serie di svolte a novanta gradi a destra e sinistra su strade con baracche coperte da rivestimenti di lamiera. Pochi alberi, non molto verde tranne nei prati, e il mezzo sole calato su quelle linee perpendicolari senza che nulla lo fermasse o gli attraversasse il cammino. La ragazza, Jaynee, si pizzicava le ginocchia e annuiva, come se qualsiasi casa di quelle potesse andar bene. Quelle abitazioni mi sembravano tutte esposte, a portata degli elementi là fuori in quella piatta griglia.

Stavo per lasciarla sul vialetto che mi indicò, ma era occupato da una vecchia Pontiac molto cromata, una di quelle anni Cinquanta, con la parte anteriore sollevata e un uomo steso su un carrello che lavorava là sotto. "Eccolo", disse la ragazza. "Vuoi conoscerlo?"

Parcheggiai la macchina e scesi. Con una spinta l'uomo venne via da sotto la macchina e ci guardò. Si alzò, pulendosi le mani su uno straccio, e guardò di traverso sua figlia. Non mi avrebbe guardato subito. Penso che stesse controllando Jaynee per cercare tracce di danni.

"Che significa questo?", domandò. "Che vuol dire, Jaynee?"

"Niente", rispose lei. "Ho passato la notte allo zoo e questa persona mi ha trovata e mi ha portata a casa."

"Allo zoo. Gesù Cristo. Allo zoo. È successo questo?" Lo stava chiedendo a me.

"È dove l'ho vista", risposi. "Aveva un'aria piuttosto infreddolita."

Lasciò cadere un cacciavite che non avevo notato tenesse in mano. Era lì in piedi sul vialetto accanto alla Pontiac, guardò sua figlia e me, poi il cielo. Anch'io avevo avuto quei momenti in cui niente aveva senso e non sapevo dove era la mia responsabilità. "Vai dentro", disse a sua figlia. "Fai una doccia. Non ti parlo qui fuori sul vialetto. Questo lo so."

La guardammo entrambi entrare in casa. Sembrava un cappotto con le gambe. Mi vergognai di quel pensiero, ma certe idee non si possono evitare.

La stavamo osservando, quando l'uomo disse: "Non si può andare alla biblioteca pubblica e scoprire come si alleva una ragazza così". Aggiunse qualcos'altro, ma un aereo passò così basso sopra di noi che non riuscii a sentirlo. Eravamo a cinque chilometri circa dall'aeroporto. Terminò il suo discorso dicendo: "Non so chi abbia ragione".

"Neppure io."

"Earl Lampson." Tese la mano. La strinsi e avvertii una sensazione di osso, grasso e carne. Vidi un tatuaggio che si stava scolorendo sul suo avambraccio, una rosa trafitta da una spada.

"Warren Banks", risposi. "Adesso devo andare."

"Aspetta un minuto, Warren. Lasciami fare due cose. Primo, permettimi di ringraziarti per aver riportato a casa mia figlia. Incolume." Annuii per dimostrare che capivo. "Secondo. Una domanda. Hai dei figli?"

"Due", risposi. "Due maschi."

"Allora sai di cosa si tratta. Sai cosa ti può fare un figlio. Ieri notte sono rimasto sveglio. Non sapevo cosa le era successo. Non sapevo se l'aveva pianificato. Quella era la cosa peggiore. Lei fa dei piani. Gesù Cristo. Lo zoo. I leoni?"

Annuii.

"Farebbe qualsiasi cosa. E per lei non è una messinscena." Guardò in su e in giù lungo la strada come in attesa dell'apparizione di qualcosa, e mi venne la folle idea che avrei visto un carro venire verso di noi, con sopra delle reginette di bellezza, e degli omini con dei costumi.

Gli dissi che dovevo andare via. Scosse la testa.

"Resta un minuto, Warren", disse. "Vieni nel giardino sul retro. Voglio farti vedere una cosa."

Si girò e attraversò il garage, oltre una pila di gomme da neve e due biciclette arrugginite. Lo seguii, pensando ai miei ragazzi quella mattina all'incontro degli scout, e a mia moglie, fuori a fare compere o forse già a casa a chiedersi vagamente dove io fossi. Eravamo d'accordo che avrei fatto la spesa. Invece eccomi in quel garage. Lei avrebbe guardato l'orologio, avrebbe fatto un'altra cosa, poi avrebbe guardato di nuovo l'orologio.

"Cosa dici di questo?" Earl puntò l'indice verso una costruzione di legno che stava in mezzo al suo giardino, che lo attraversava da una parte all'altra: una struttura da gioco, con delle sbarre e un'altalena, un trespolo alto come la coffa di una nave, una serie di tunnel per strisciarci dentro e arrampicarcisi, un ponticello di corda fra due torri. Non avevo mai visto niente del genere, tanto sforzo umano speso in un giocattolo da giardino, quell'enorme aggeggio.

Fischiai. "Ti ci devono essere voluti anni."

"Diciotto mesi", replicò lui. "E lei non ci ha più giocato da quando ha compiuto dodici anni." Scosse la testa. "Ho comprato il legno e l'ho assemblato pezzo per pezzo. Aveva solo tre anni quando l'ho fatto, i fine settimana in cui non facevo gli straordinari alla Ford. Era la mia assistente. Mi portava i chiodi. Le dicevo di tenere il martello quando non lo usavo, e lei se ne stava lì, serissima, a tenerlo. Ovviamente adesso è cresciuta troppo per usarlo. Ho il giocattolo da giardino più grande del Michigan e una figlia che se ne va allo zoo e passa là la notte, e quella è la sua idea di divertimento."

Una pioggerella aveva cominciato a cadere. "Che ne farai di questa cosa?", domandai.

"La smonterò, penso." Guardò il cielo. "Warren, vuoi una birra?"

Erano le undici di mattina. "Certo", risposi.


Sedemmo in silenzio nella veranda sul retro in disordine. Sorseggiavamo le birre e guardavamo la pioggia cadere sulle cose lungo la nostra linea immaginaria. Nessuno di noi diceva molto. Era meglio essere là che essere a casa, e la mia tristezza mattutina stava andando via. Non stava proprio andando via quanto trasformandosi in altro, come fa quando sei a casa di altri. Non volevo muovermi fin tanto che mi sentivo così.

Ero stato allo zoo quella mattina perché avevo letto di nuovo il giornale, e quella volta ero venuto a sapere di una centrale all'uranio qui in Michigan i cui impiegati spruzzavano i pascoli con un fertilizzante riciclato da scarti radioattivi. Lo chiamavano trattato raffinato. Il giornale scriveva che oltre a tracce di radio e torio radioattivo, lo spray fertilizzante conteneva almeno diciotto metalli pesanti velenosi, inclusi molibdeno, arsenico, e piombo. Era stato spruzzato sui pascoli e sarebbe finito nel cibo. Avrei dovuto alzarmi dal tavolo e andare a fare la spesa, invece ero andato allo zoo a fissare gli animali. Ultimamente ciò accadeva più spesso. Non riuscivo a trattenere la mente su cose ordinarie, quotidiane. Ero arrivato a credere che la depressione fosse il realismo del futuro, e le fobie un segno di salute. Sapevo che avrei dovuto fare di meglio, ma non ci riuscivo.

Mi ero sentito pazzo e disperato, ma qui, sulla veranda di Earl Lampson, mi sentivo un po' meglio. Degli sconosciuti, calmi, qualche volta hanno quell'effetto su di te.

Jaynee uscì proprio allora. Aveva fatto la doccia, e capivo perché alcuni ragazzi avrebbero voluto passare una notte allo zoo con lei. Aveva una maglietta e dei jeans, l'acqua calda l'aveva raddrizzata. Mi alzai e mi scusai. Non potevo sopportare di vederla in quel momento, che mi frantumava l'umore. Earl si alzò, mi strinse la mano e disse che apprezzava ciò che avevo fatto per sua figlia. Replicai che non era nulla e iniziai ad allontanarmi quando Earl, per nessuna ragione che potessi comprendere, all'improvviso mi disse che mi avrebbe telefonato durante la settimana, se andava bene. Gli risposi che mi avrebbe fatto piacere sentirlo.

Allontanandomi a piedi da lì, decisi, sulle prove avute fino a quel punto, che Earl aveva un buon cuore, e non sapeva cosa farci, proprio come non sapeva cosa fare di quell'attrezzo nel giardino. Ce l'aveva, e non gli serviva a nulla.

Mi chiamò in ufficio mercoledì. Gli avevo dato il numero. C'era qualcosa di nuovo nella sua voce, sembrava appartenere a qualcuno che ha bisogno d'aiuto. Ripeté la frase di sua figlia, che io ero un amico professionista, e io dissi, sì, qualche volta lo ero. Mi domandò se avevo mai lavorato con i "ragazzacci" – così disse – e gli risposi che qualche volta l'avevo fatto. Poi mi chiese se potevo aiutarlo a smontare la struttura da gioco di sua figlia il sabato seguente. Aggiunse che ci sarebbe stata tantissima birra. Capivo cosa cercava. Un po' di consulenza gratuita, ma poiché non mi ero preparato per quell'invito non avevo una buona difesa pronta. Mi guardai intorno, nel cubicolo del mio ufficio, e mi vidi nel giardinetto sul retro di Earl, con un cacciavite in una mano e una birra nell'altra. Risposi di sì.

[...]

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