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| << | < | > | >> |IndiceVII Ringraziamenti 3 I. INFANZIA - Sotto il segno del doppio, p. 3 - Bagheria, p. 5 - Palermo, p. 7 - Il padre, p. 9 - La madre, p. 13 - Ricordi d'infanzia dolci e cupi, p. 15 - Il crostone di colore, p. 20 - Palagonia, p. 25 31 II. GLI ANNI DI FORMAZIONE - Doppio esordio, p. 31 - I Littoriali, p. 32 - Bottai, p. 35 - Il premio Bergamo e il premio Cremona, p. 40 - «Primato», p. 42 - Intellettuali e fascismo, p. 44 - Esordi, p. 49 - Roma I, p. 54 - Milano, p. 60 - Roma II, p. 68 - «Corrente» e «Il selvaggio», p. 72 - Fuga dall'Etna, p. 74 - Fucilazione in campagna, p. 78 - Richiamo alle armi, p. 79 - Della Ragione, p. 80 - Crocifissione, p. 84 - Gott mit uns, p. 98 101 III. REALISMO E AUTOBIOGRAFIA - L'arte contro la barbarie, p. 101 - La battaglia per il realismo, p. 106 - Togliatti in campo, p. 109 - Roso dalla certezza, p. 113 - Marsigliese contadina, p. 115 - Il teatro musicale, p. 119 - Pace, p. 124 - Il viaggio in URSS, p. 125 - Stalin, p. 144 - 1956 Annus Horribilis, p. 147 - Critica della modernità, p. 152 - Morandi, p. 154 - Autobiografia, p. 160 163 IV. INTERMEZZO I: TALENTI E TEMPERAMENTI - «Sicilitudine», p. 163 - Materialismo, p. 168 - I viaggi, p. 169 - Il vento del nord: Velate, p. 112 - Nulla dies sme linea, p. 116 - Atelier, p. 181 - Contrasti del carattere, p. 190 - Malinconia, p. 198 203 V. INTERMEZZO II: L'AMICIZIA - Sciascia, p. 203 - Moravia, p. 212 - Vittorini, p. 216 - Pasolini, p. 223 - Picasso, p. 228 237 VI. MATURITÀ - Marta, p. 237 - De Chirico, p. 245 - Funerali di Togliatti, p. 247 - Vucciria, p. 252 - Antichi maestri, p. 257 - Spes contra spem, p. 265 273 VII. EPILOGO 291 APPENDICE Lettera di Guttuso a Julia Dobrovolskaja in occasione della morte di Pasolini p. 291 293 Note 323 Bibliografia 329 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 3Sotto il segno del doppio Renato Guttuso nasce a Bagheria il 26 dicembre 1911. Renato Guttuso nasce a Palermo il 2 gennaio 1912. A questa nascita «doppia» corrisponde, all'altro capo del filo, un funerale «doppio»: laico, in piazza del Pantheon – sventolare di bandiere rosse – e religioso, a Santa Maria sopra la Minerva – con tutti gli onori che la Chiesa offre al figliol prodigo ritrovato. Un destino «doppio» che si rispecchia nel carattere. Nelle testimonianze delle persone a lui più vicine, nelle lettere, più raramente nelle confessioni pubbliche, affiora un dissidio tra opposti, fino al tormento: la posizione pubblica di comunista convinto e i dubbi di fronte al groviglio drammatico degli eventi, l'adesione all'estetica ufficiale del partito e la salvaguardia della libertà d'artista, gli agi compagni del successo e la austerità di vita del comunista ortodosso, la piena dei sentimenti amorosi e i vincoli del matrimonio. Persino il segno più chiaro del destino, la «sicilitudine» dei nati sotto il sole mediterraneo di Bagheria, ha il suo doppio, la nostagia del nord, della quiete brumosa di Velate, sotto il cielo sereno, quando è sereno, di Lombardia. Destino e carattere sotto il segno del doppio. «Renato Guttuso nasce il 26 Dicembre 1911 a Bagheria. Il padre Gioacchino e la madre Giuseppina d'Amico, preferiscono denunciarlo a Palermo il 2 Gennaio 1912, in seguito a un contrasto con la città a causa delle loro idee liberali». Così leggiamo nella biografia ufficiale pubblicata dagli «Archivi Guttuso». Leggermente diversa la versione dell'amico di una vita, siciliano anche lui, Leonardo Sciascia: «Renato Guttuso, bagherese nato a Palermo; ché il padre in quel momento ce l'aveva coi suoi concittadini o soltanto con gli amministratori comunali, e volle che il figlio non nascesse a Bagheria, ma nella città capitale, nella splendida e misera Palermo di quegli anni, di sempre». Bagheria o Palermo? La motivazione però concorda con quella ufficiale: contrasti di idee. C'è un'altra spiegazione possibile: era consuetudine registrare all'anagrafe nei primi giorni dell'anno nuovo i nati gli ultimi giorni del vecchio, per procrastinare di un anno il richiamo alle armi. Espedienti che si rivelerà efficace di lì a pochi anni, per i nati alla fine degli anni 1899 e 1900, ma inefficace per Guttuso; il servizio militare prestato a Milano segnerà comunque un'impronta decisiva nella sua formazione di uomo e di pittore. Del resto, che i siciliani odiassero in modo particolare la leva è un fatto noto. Racconta per esempio Pietro Consagra, anche lui siciliano e per un tratto amico di Guttuso, che i giovani isolani rifiutavano il cibo, fino allo sfinimento, per farsi riformare o si davano alla macchia: «meglio il tracoma o la malaria chi fare il soldato». Chissà se le idee liberali di casa Guttuso erano in sintonia con questo odio per la leva? Idee liberali che giungevano «per li rami» dal nonno paterno, don Ciro Guttuso, al seguito di Garibaldi. I miei nonni paterni e mio zio erano protestanti anzi battisti, perché fra i Mille si faceva propaganda in favore del protestantesimo. Venivano da Torre Pellice, un villaggio piemontese, dove c'era un forte insediamento protestante. Queste isole religiose, per così dire, ci sono anche in Sicilia: Protestanti, Greco—ortodossi e così via. Sono delle comunità chiuse e autonome. C'è una comunità lombarda, insediatasi nell'isola da qualche secolo, così chiusa e autonoma che non permette che i propri cavalli - i San fratelloni — si mescolino con altri cavalli. Gli insediamenti protestani in Sicilia risalgono a dopo il 1860, alla campagna garibaldina. Bisogna tener conto che i garibaldini combattevano contro Roma e il Papato, il che favoriva le tendenze anticattoliche. Lo zampino di Garibaldi arriva fino al nome del futuro pittore, Renato, imposto dal padre, anche lui ammiratore di Garibaldi, per ricordare Matteo Renato Imbriani, patriota napoletano e garibaldino. Quanto a nonno Ciro, agrimensore povero, in un paese di contadini poveri, sosteneva idee di riscatto sociale, per sé e per gli altri. Garibaldi lo aveva designato a comandare le squadre di Bagheria, e in tale veste partecipò alla presa di Palermo, arrivando fino a Milazzo. L'obiettivo dei garibaldini era di arrivare a Roma, ma Garibaldi non si decideva mai, così si rassegnarono a tornare a casa. Mio nonno trasmise a mio padre non solo il mestiere di agrimensore, ma anche le sue idee politiche, le sue tendenze liberali. | << | < | > | >> |Pagina 254Contrasti: Guttuso dipinge la Vucciria, trionfo della sicilitudine, agli antipodi, nel nordico idilio di Velate, in compagnia del cane Puskin, scorte di whisky e sigarette.Un visitatore d'eccezione, Domenico Porzio, ci permette di entrare nell'officina del mago: Prima di portare la Vucceria sulla tela ha disegnato per un mese con il soccorso di centinaia di fotografie da lui stesso fatte a Palermo; poi è passato ai collages e solo a fine settembre ha cominciato a dipingere. E ha ripreso tutto dal vero. Il pesce spada è arrivato dalla Sicilia, il macellaio di Velate gli ha prestato più volte il mezzo bue squartato che appeso a un gancio lui freneticamente illuminava, ricopiava, colorava. I suoi due aiutanti-segretari, i fidatissimi Rocco e Marcobi, hanno avuto un gran daffare a comprare polipi e gamberi, cernie e spadole dai pescivendoli della zona «Ha voluto – mi dice Marcobi – anche un pezzo di marmo slabbrato, marmo da pescivendolo. «Lo studio per un mese si è trasformato in un mercato: Guttuso su e giù per la scaletta, dipingeva con alle spalle quintali di pesce e di verdura, forme di pecorino, ceste di uova, polli spennati, rotoli di mortadella. Ora tutto il deperibile è stato eliminato o consumato». Leonardo, che amava la luce di quei luoghi, sosteneva la pittura essere cosa mentale: le cose del mondo sono occasioni per suscitare nella mente del pittore il processo della creazione. Le cose del mondo sono anche fotografie, disegni, quadri, ritagli da riviste, derrate dei mercati varesotti, o addirittura, secondo altre testimonianze — che alimentano la leggenda del lusso da satrapo orientale — gamberi polipi e cernie spediti appositamente da Palermo. Guttuso definisce modestamente il quadro come «una grande natura morta, con in mezzo un cunicolo entro cui la gente scorre e si inoltra». La prima «uscita» del grande telero è a Palermo, come è giusto, dove viene esposto tra il dicembre 1974 e il gennaio 1975 alla Galleria «La Tavolozza». Guttuso, come farebbe un regista di successo in occasione dell'uscita del nuovo film nelle sale, rilascia interviste, ricche di particolari sui procedimenti di «costruzione» del quadro, sulle intenzioni d'artista, offre chiavi di lettura, illuminazioni: Chi conosce la «Vucciria», questo straordinario avvallamento urbano nel quale si incastrano e si accavallano le mille botteghe del mercato di Palermo, sa in quale intrico di vicoli, di piazzette, di rocicchi, di scalinate, esso si articoli; sa l'importanza che hanno il vocio, il frastuono, gli odori, il brulichio della gente. Come fare per raffigurare qualcosa, almeno, di tutto ciò, nelle due dimensioni di una tela? Dopo molte esitazioni ho scelto una misura quadrata, tre metri per tre metri. Ho eseguito il primo disegno d'insieme il 20 luglio e ho continuato a disegnare e dipingere opere di contorno: studi se si vuole, nati più per trasformare un fervore immaginativo in azione, e partire dall'azione per affrontare il quadro, che è stato dipinto dal 1 ottobre al 6 novembre 1974. Disponevo di un gran numero di fotografie, fatte da me e dall'amico Ninni Mineo. Me ne sono servito, ma come per «ripassare» un testo, che però si andava strutturando in senso opposto ai suggerimenti che ricevevo dalle foto. Il quadro infatti non è una «immagine», e neppure una serie di immagini. E una sintesi di elementi oggettivi, definibili, di cose e persone: una grande natura morta, con in mezzo un cunicolo entro cui la gente scorre e si incontra. E vuole essere, soprattutto, un segno di gratitudine, a livello delle mie forze, per il grande debito di gratitudine che ho nei confronti della mia città. Gratitudine, come abbiamo visto, ricambiata con l'acquisto dell'opera da parte dell'Università di Palermo. La Vucciria diventa subito l'emblema della pittura di Guttuso, fino alla definitiva etichetta di «capolavoro» apposta da Cesare Brandi: «il grande quadro della Vucciria, uno dei capolavori della pittura di questo secolo». In effetti il grande quadro appare come il frutto estremo di quel dipingere la realtà degli oggetti, il «vero», che è la chiave intepretativa di un lungo tratto della carriera di Guttuso. È la chiave che offre Sciascia per comprendere la pittura di Guttuso nella sua interezza: Le cose sono fissate sulla tela o sul foglio da una divorante impazienza. Gli spaghetti, le uova al tegamino, la fetta d'anguria devono essere, subito dopo, mangiati; il vino deve essere, subito dopo, bevuto. Si tratta di veri spaghetti, di vere uova, di vera anguria, di vero vino; anche se il segno non li riproduce ma li inventa. Si tratta insomma di vera fame. E su questa linea si sviluppa il lungo articolo di Goffredo Parise sul «Corriere della Sera», che cristallizza una volta per tutte la Vucciria come il capolavoro popolare «italiano» di Guttuso: La vucciria è come molti sanno, un mercato a Palermo, una specie di souk, non si sa se più arabo o italiano, dunque italianissimo per convenzione internazionale. Guttuso ha dipinto, anzi costruito o ricostruito il mercato, e ci ha dato il suo più bel quadro italiano: mostrando o dimostrando con il sentimento dell'arte come la convenzione internazionale coincida con la realtà del nostro paese. L'articolo prosegue in forma di dialogo tra il quadro e Parise stesso: «Le cose che tu hai visto [...] erano vive o morte «Erano... erano fresche, ma non propriamente vive, anzi morte. Se così si può dire. Insomma una grande natura morta». «E gli uomini erano vivi o morti?» «Erano vivi, ma ho avuto la sensazione, in mezzo a tanta natura morta, a tanta luce e tanto sangue, che il loro destino, come il destino di quel bue appeso o di quel coniglio o di quei pesci spada e di tutte quelle verdure, così belle e colorate e fresche ed estive, nel pieno della bella stagione, è di corrompersi e morire. Insomma tutto ciò che ho visto, così bello, e colorato e vivente, tende inarrestabilmente alla morte». «Cos'altro hai visto dentro il quadro, non fuori il quadro?» «Ho notato nello splendore abbacinante di tanta luce italiana e mediterranea, che sembra fatta per viver eternamente, ma evidentemente così non è, ho notato l'assenza del socialismo; intendo dei simboli del socialismo. Guttuso ha dipinto tanti quadri, di cui alcuni molto grandi, che erano epici e celebrativi. Molti hanno chiamato quei quadri: realismo socialista. [...] Perfino nei Funerali di Togliatti che è un funerale e dunque un soggetto triste, l'ideologia politica che si vede nel quadro mediante i suoi simboli è la vita futura. In questa frutta e carne e pesce che invece sono pieni di luce e di sole, c'è al contrario, la celebrazione della morte. [...] Ma per esempio in Guernica di Picasso o nei pescatori di Antibes a cui mi viene spontaneo pensare per equivalenza guardando la Vucciria, ci sono molte cose che non si vedono e che pure il quadro esprime. Per esempio Guernica significa per il mondo la guerra di Spagna e un bombardamento nazista. Eppure non si vede né l'una né l'altro». «Picasso non era italiano. Era spagnolo e francese. In entrambi questi paesi, le cose non sono soltanto le cose, ma qualcos'altro al di fuori delle cose. Cioè un'idea delle cose. Sono il pensiero e la cultura di quei paesi». «Allora significa che la cultura e il pensiero del nostro paese sono gli aranci che ho visto, i limoni, il pesce spada, le mozzarelle, il coniglio e gli uomini e le donne?» «Esattamente» «Ma questo non è un pensiero: sono semplicemente uomini e cose». «In una parola l'Italia come è». «Ora ho capito l'Italia come è. Forse per questo il quadro mi è parso il capolavoro di Guttuso». Non tutti in quegli anni Settanta erano disposti ad accettare questo modo di intendere la pittura; Guttuso continuava a scontrarsi con la moda della modernità, del tutto ostile. Moda della modernità che Calvesi batte in breccia, con l'aiuto di un ossimoro, attualità dell'anacronismo: Guttuso ha dipinto questa voceria-scannatoio, quest'esplosiva confusione, scalpiccio, intruglio, queste cascate o quasi montagne russe di natura morta, con un impegno la cui attualità è nell'anacronismo. [...] Quella che chiamiamo anacronistica attualità di Guttuso si coglie a ontrasto con certo freddo delle più recenti sperimentazioni in arte [...] soprattutto a confronto del mortuario «iperrealismo» di importazione americana, che è «iper» in pelle, nella pelle lucida come di smalto fotografico, o iscurita e quasi grinzosa, due aspetti dell'imbalsamazione. Guttuso tutto al contrario, non si ferma all'epidermide [...] ma anzi passa da parte a parte questi oggetti di realtà, con l'affondo del croma, li proietta nel favoloso, nel popolare, nel caleidoscopico, nell'allarmante, quasi a ricongiungersi con le posticce allegrie dei «pupi», con una storia visionaria e la fosca soavità della sua terra, con l'infantilismo dei carretti, con lo stupro del sole e del sangue. Oggi che non ogni passione è spenta, ma è spenta quella polemica «realismo contro iperrealismo», siamo ancora presi da un senso di vertigine, una perdita dell'equilibrio davanti a quell'ondeggiamento, ribaltamento della stretta via, fra le bancarelle, che sale e scende allo stesso tempo; e i nostri sensi eccitati avvertono i brusii, gli scoppi, le grida di questo sinestesico dipinto, mezzombra di una abbagliante estate palermitana dipinta al sole declinante dell'autunno, a Velate nebbiosa. | << | < | > | >> |Pagina 265Spes contra spemNel 1656 Diego Velazquez dipinge Las Meninas; ritrae se stesso, nell'atelier, di fronte alla grande tela, appoggiata al cavalletto, di cui noi vediamo solo il retro. Il soggetto del dipinto sono le damigelle d'onore dell'Infanta Margherita, «las meninas». Ma è davvero così? Se si osserva con attenzione la scena si precipita nell'abisso: il gioco degli sguardi, le sottili corrrispondenze tra i personaggi, lo smarrimento nello spettatore che guarda ed è guardato, è se stesso che guarda ma anche una coppia, la coppia reale di Filippo IV e sua moglie, riflessa nello specchio di fronte. Siamo, nello stesso tempo, all'interno e all'esterno della scena, sotto il fuoco dello sguardo calmo e indagatore di Velazquez davanti alla sua tela; una vertigine, da cui emergiamo con la convinzione che lo studio del pittore, nell'Alcazar del palazzo dei reali di Spagna, è una scena di teatro, una rappresentazione enigmatica. Picasso è uno degli infiniti spettatori e artisti affascinati dall'enigma, e ci ha lasciato una serie di variazioni su Las Meninas. Un secolo prima, nel 1855, in occasione della grande Esposizione universale di Parigi, Gustave Courbet espone, in un padiglione personale – non al Salon dal quale era stato rifiutato – quella che diverrà una delle sue tele più famose: Studio dell'artista – Allegoria reale, interno del mio studio che ha determinato sette anni della mia vita artistica e morale. Il soggetto del quadro è duplice: la visita di un eterogeneo gruppo di personaggi all'atelier dell'artista e la seduta di posa di una modella nuda. L'organizzazione dello spazio ricorda Las Meninas dell'adorato Velazquez. Ma il quadro che sta dipingendo Courbet nel suo studio è un paesaggio, non un nudo, e la folla dei visitatori non sembra comportarsi secondo le regole della buona educazione borghese. Inoltre è difficile inquadrare questa composizione in un genere tradizionale, conforme ai dettami dell'accademia; del resto è proprio nelle intenzioni di Courbet rompere questa lettura per generi. Non si tratta di un quadro storico, anche se la folla e la posa dei personaggi lo suggeriscono; non è una natura morta in un interno, anche se grande è la cura con cui sono definiti gli arnesi e le suppellettili del pittore, e un cranio riposa sulla sedia al centro; non è soltanto un autoritratto o una galleria di ritratti, nè una pittura di paesaggio; non è un nudo... Un enigma. A cominciare dal sottotitolo, che pare un ossimoro, allegoria reale. Un ossimoro che esprime alla perfezione l'ambiguità del quadro, immerso in una atmosfera onirica e simbolica, dove i personaggi sembrano ignorarsi l'un l'altro, e allo stesso tempo perfettamente reale, quasi familiare nelle pose rilassate, a proprio agio nello audio. Esiste una lettera di Courbet all'amico Champfleury che potrebbe aiutarci a scoprire i significati del quadro: il paesaggio è quello della terra natale di Courbet, la modella nuda è l'energia matrice che assiste gli artisti; a destra «la gente che vive della vita», cioe «la gente che mi aiuta e mi sostiene nella mia idea e partecipa alla mia azione», gli amici dell'artista tra cui lo stesso Champfleury, Proudhon e Baudelaire seduto e assorto nella lettura; a sinistra «la gente che vive della morte» vittima delle passioni e schiava delle necessità materiali, una donna che allatta, un bracconiere, un rivendugliolo di stoffe «il mondo intero viene a farsi dipingere da me». Ma la chiusa della lettera non è incoraggiante: «C'est passablement mystérieux [...] devinera qui pourra». Un enigma, lo scioglierà chi potrà. Tra l'estate e l'autunno del 1982 a Velate, al termine di un intenso lavoro di preparazione testimoniato da disegni, schizzi, bozzetti, Guttuso dipinge un grande quadro di 3,5 metri di larghezza per tre d'altezza. Il soggetto è enigmatico; del resto il titolo del quadro cambierà in corso d'opera, da Le tre età della vita a Spes contra spem. Courbet è fra i maestri più amati da Guttuso, in particolare proprio lo Studio dell'artista. Amore di lunga data. Nel 1935 dipinge Donna dalle calze bianche, da Courbet; nei saggi, raccolti nel 1972 con il titolo Il mestiere di pittore, scrive a proposito di Courbet: la sua pittura è il segno di una umanità completa, in cui le idee e il fare sono una cosa sola. Non c'è bisogno infatti di «volere» esprimere idee, di «incollarle sulla tela». È al contrario necessario essere in una situazione di verità e di libertà di fronte alle cose stesse, sentirsi parte di esse. Solo in questo caso le idee emergono dalle cose, dalla densità e dalla semplicità con cui sono raffigurate. Lo spazio in cui svolge la scena di Spes contra spem è lo studio del pittore, come in Velazquez e in Courbet. Uno spazio affollato di personaggi, arredi, oggetti. Con un paesaggio che non è il quadro nel quadro, come in Courbet; al contrario è un protagonista importante, sembra entrare a forza dalla finestra spalancata. Del resto, «Paesaggi d'interno» chiamava Picasso la serie di dipinti del suo atelier nella villa «La Californie» a Cannes tra il 1955 e il 1956, dove le palme di un esuberante giardino mediterraneo entrano dalla finestra aperta. Questi atelier dipinti da Picasso sono anch'essi da iscrivere tra gli ascendenti di Spes contra Spem. Che potrebbe avere il sottotitolo di Courbet, «una allegoria reale». Ma un'allegoria, o anche un emblema, di che cosa? Nella stanza-atelier ci sono pennelli e tavolozza, sul tavolo, e un quadro sul suo cavalletto; uno spazio d'arredo moderno, sottolineato dallo stile della libreria e del divano in pelle nera. È uno spazio immaginato, sognato, che ha poco da spartire con l'atelier di Velate, o di Palazzo del Grillo, uno spazio scenico, come quello di Velazquez. Acutamente nota Crispolti, nello studio approfondito dedicato al dipinto: «spazio configurato per esibirvi, se non una azione, che il clima del dipinto sostanzialmente nega, certamente l'atteggiarsi di personaggi e il consistere di attrezzerie d'arredo». Una grande porta finestra sviluppa la fuga prospettica del pavimento in cotto, sul balcone, verso il mare e il cielo luminoso, contro i quali si staglia un glorioso nudo di donna. A sinistra e a destra gruppi di personaggi, ritratti di Vittorini, di Rocco Catalano, l'assistente che ebbe l'onore di un ritratto fin dal 1960, Nino Marcobi, assistente e compagno di partite a scopone a Velate. È di Picasso il quadro in primo piano, Donna in camicia seduta in poltrona del 1913, omaggio postumo al grande amico. Sono personaggi pirandelliani, in cerca d'autore sulla scena della memoria. Una bimba corre, trait d'union tra i due gruppi di personaggi, con un garofano rosso. Il soffitto sfuma in una architrave di mostri, i mostri della villa Palagonia.
Il tema dei personaggi raccolti in una stanza con «vista» non è nuovo in
Guttuso. Il 1970, ad esempio, è l'anno delle
Visite,
un polittico di dimensioni ragguardevoli, otto metri per due, suddiviso in
quattro stanze visitate da personaggi famosi, Dürer, Picasso, Marlène Dietrich,
Lin Piao. In
Spes contra spem,
tuttavia, il tono è mutato, la memoria degli incontri, reali o immaginati, fa
posto a un intento allegorico e una patina di malinconia si spande su tutta la
superficie, anche dove maggiore è la luce.
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