|
|
| << | < | > | >> |Pagina 9I've been through the desert on a horse with no name It felt good to be out of the rain In the desert you can remember your name 'cause there ain't no one for to give you no pain. America, A Horse with No Name Algeria, Deserto del Tanezrouft. Maggio 2005. Avevo quarantadue anni, e avevo fatto l'ennesima cazzata. Trecentocinquantasei chili di moto, con almeno altri venti di bagaglio, erano fermi sul ciglio della pista Reggane-Gao, in mezzo al Tanezrouft, la parte più inospitale del deserto del Sahara. Vicino alla moto c'ero io. Erano le tre e mezzo del pomeriggio e il sole era a picco. Il motore aveva iniziato a perdere colpi qualche chilometro prima e io avevo fatto finta di niente: cosa vuoi che sia, sarà solo un po' ingolfato per il caldo. Come tutte le altre stramaledette volte, dopo aver preso una decisione, i dubbi e le perplessità erano state respinte dal mio cervello come flutti contro un molo: semplicemente, avevo escluso la possibilità che qualcosa si stesse per rompere. Poi, fatalmente, il motore si era fermato. Mentre stavo seduto in terra, appoggiato al fianco della vecchia Harley-Davidson FLHR che mi aveva portato fin li e che come ultimo regalo mi offriva un mezzo metro quadrato di ombra, mi ritornò in mente lo sguardo sarcastico del giovane algerino all'ultimo rifornimento di benzina, probabilmente a un milione di chilometri da dove mi trovavo io allora. «Voulez-vous aller à Gao? Avec cette moto là?» Sì, cazzo, ci vado con quest'arnese qui, e allora? Mentre la schiena incassava una dose supplementare di calore dai due grossi cilindri surriscaldati, i miei occhi erano stregati dall'immensità dell'orizzonte e dal colore cobalto del cielo. Il silenzio era totale e solo ogni tanto qualche improvvisa folata di vento infuocato faceva sentire il suo fischio in lontananza. Il mio cervello era andato in blocco da almeno mezzora, da quando cioè mi ero reso conto che non avevo alcuna possibilità di far ripartire la moto. Mentre osservavo in lontananza una nuvola che perdeva i pezzi come un enorme bastoncino di zucchero filato, mi sentivo stranamente sereno. Era come se non me ne fregasse più di niente: qualcosa mi diceva che forse ero arrivato alla fine, ma il cervello non sembrava essersene ancora reso conto. Senza distogliere lo sguardo dalla linea dell'orizzonte che separava un mare di sabbia rossa e gialla da un infinito cielo azzurro, tirai fuori dal taschino della camicia quello che un tempo doveva essere stato un fazzoletto. Mentre lo aprivo per avvolgermelo al collo, qualcosa cadde sulla sabbia. Raccolsi da terra una piccola foto in bianco e nero che, chissà come, era finita tra le pieghe del fazzoletto. Era una mia vecchia foto da bambino, la preferita di mia figlia piccola. Mentre i polpastrelli ne avvertivano subito la consistenza liscia da una parte e un po' più ruvida dall'altra, ricordai il bacio che mi aveva dato prima di partire: «Papà, ti ho fatto una sorpresa, ma l'ho nascosta bene». La conoscevo a memoria quella foto sgualcita e un po' consumata sugli angoli, fin nelle più piccole pieghe che il tempo le aveva inferto. Erano come le rughe sulla faccia di un vecchio e facevano ormai parte di lei, tanto che non mi sarebbe più piaciuta senza. Era una di quelle vecchie foto con il bordo bianco e merlato, che adesso non si fanno più. Anche il contrasto del bianco e nero era diverso da quelle di oggi, ma dovevi stare fermo mentre te le scattavano e la Rollei del nonno ci metteva un paio di secondi a impressionare la pellicola. Troppi per me. Era la foto di un bambino di sei anni, la frangetta con uno strano taglio di sbieco proprio in mezzo alla fronte. Gli occhi erano castani come i capelli e lo sguardo serio. Cavolo, come si fa ad avere uno sguardo così serio a sei anni? Un soffio di vento mi portò un po' di sollievo facendo sventolare leggermente la camicia zuppa di sudore. Il bambino della foto mi guardò ancora da sotto quella ridicola frangia che aveva cercato di tagliarsi da solo. Fissai quegli occhi scuri che mi rispondevano con uno sguardo di sfida da sotto le ciglia, mentre le mie labbra s'increspavano in un sorriso: ti hanno lavato, pettinato e ti hanno pure infilato la camicia bianca inamidata, eh? Lo so che non volevi e hai tentato di scappare e probabilmente la situazione si è conclusa con un paio di sberle della mamma ma, nonostante tutto, sei riuscito lo stesso a combinarne qualcuna delle tue. Il grido di una poiana mi fece alzare gli occhi, stretti come fessure nel sole abbagliante. In lontananza vedevo il rapace stagliarsi contro il cielo mentre perlustrava pigramente la zona in cerca di prede, compiendo grandi cerchi concentrici nell'aria rovente. Tra le mie mani sporche di grasso e di lubrificante, il bambino continuava a fissarmi: me la ricordo bene, sai, quella volta, e lo so perché la foto è venuta un po' mossa. Stare fermo tre secondi per una foto era davvero troppo. Per uno come me. | << | < | > | >> |Pagina 41Θ vero, avevo già posseduto la piccola Harley SST 125, ma si trattava solo di un assaggio. Come potrei dimenticare il momento in cui vidi quella che sarebbe stata la mia prima autentica Harley-Davidson?Credo che fosse la metà degli anni Novanta e mi trovavo vicino a uno dei più assurdi luna park che avessi mai visto, nella periferia ovest di Milano. Dopo che i miei figli mi avevano costretto a provare un numero imprecisato di attrazioni, avevo negoziato una tregua ed ero uscito per qualche minuto per farmi una birra al bar di fronte, quando una vetrina attrasse la mia attenzione. Non si trattava certo di una concessionaria, anzi non sembrava neppure un vero e proprio negozio di moto. All'interno della vetrina, una quantità di motociclette di diverse marche (e anche qualche auto americana anni Settanta) erano abbandonate senza il minimo ordine. Pareva una via di mezzo tra un piccolo museo e l'officina di un gruppo di appassionati che si trovano li ogni domenica per aggiustarsi le moto e ascoltare pezzi di Stevie Ray Vaughan. Ma tutto ciò era subito passato in secondo piano: nel mezzo della vetrina era sistemata una grossa Harley-Davidson nera. Capivo che non era un modello di serie e qualcosa di miracoloso aveva reso quella moto un oggetto unico. Rimasi di fronte a quella vetrina diversi minuti con un sorriso ebete stampato sulla faccia. La cosa che mi aveva colpito era la sua linea incredibilmente femminile. Il posteriore era molto largo, con grandi borse rigide che parevano dilagare in mezzo al negozio. Gli scarichi cromati con i finali fish-tail sembravano correre rasoterra lungo la linea di galleggiamento di quella che mi pareva una corazzata più che una motocicletta. Poi all'improvviso le linee della moto si stringevano come la vita di una danzatrice di flamenco per concentrarsi su una sottile sella di pelle nera, lunga e curva, che consentiva a malapena il posto per le chiappe del guidatore. Dopo la sella, il profilo si allargava di nuovo con il serbatoio da diciotto litri, meravigliosamente rotondeggiante. Il colore nero e compatto con poche cromature, era molto elegante e lanciava riflessi scuri. Il serbatoio era ornato da un semplice stemma, il famoso bar and shield (la barra e lo scudo), simbolo della Harley-Davidson Motorcycle Inc. con le scritte in rosso, arancio e nero. Questo incredibile equilibrio di forme rotonde e femminili terminava con un manubrio bikini-bar, esageratamente largo, ma che incorniciava il fanale cromato con uno stile old school. Non era un oggetto del desiderio, era puro desiderio sotto forma di motocicletta. Era la moto che chiunque avrebbe desiderato ed era li davanti a me. Esisteva, non era solo il prodotto della mia mente. Mi resi conto che da alcuni minuti stavo sussurrando tra me: «Cazzo, com'è bella». Entrai nell'officina dove un vecchio stereo suonava High dei Lighthouse Family. Dovetti chiamare un po' di volte per far comparire dalla penombra uno dei due soci che, con l'aria piuttosto incazzata, stava immergendo pezzi metallici in un mastello di benzina. Asciugandosi le mani mi chiese cosa volevo. Con il mento indicai la moto in vetrina e chiesi: «Quella è in vendita o cosa?» Il meccanico abbozzò un sorriso e rispose: «Ah, la nostra vecchia Harley... A giudicare da come la guardi deve aver rubato un altro cuore, o sbaglio?» Ero già geloso di quella moto e provai una piccola fitta di dolore mentre il meccanico diceva la nostra: che cavolo, quella era già la mia moto. «Diciamo che la mettiamo lì come specchietto per le allodole: sai quanta gente viene a chiederci di lei?» Continuò osservandomi di sottecchi e dirigendosi verso la vetrina. Io lo seguii e iniziai mentalmente a prepararmi a una delusione: di certo non era in vendita o costava davvero troppo o forse un cliente l'aveva mollata lì disperato perché era una moto bastarda come quella del Geometra. «Sai che modello è?» mi chiese per saggiare la mia conoscenza dell'argomento. «No, a dire il vero sono molti anni che non guido più Harley-Davidson. Ho una Guzzi V7 Special del 1971 che non perde un colpo. Sono appena tornato da un lungo giro sul Delta del Po...» aggiunsi, per fargli capire che in fondo non aveva di fronte un pivello. «Ah, abbiamo un guzzista, allora», disse il meccanico con una punta di rispetto in più nel tono di voce, «... un guzzista che si appresta a tradire la sua amata, o sbaglio?» Avrei voluto rispondergli che erano cazzi miei, ma se c'è una cosa cui non so resistere sono i meccanici che ti sanno leggere nel pensiero. Nel corso degli anni sono diventato un teorico di meccanici e credo di averne conosciuti alcuni davvero unici. Sono giunto alla conclusione che i veri meccanici, come i barman, devono essere soprattutto filosofi, psicologi e maestri di vita. Quando li trovate non dovete lasciarveli scappare, ma la prima regola è che con loro non dovete mai mentire: vi beccherebbero subito e fareste una figura di merda. Ma quel che è peggio: perdereste per sempre il loro rispetto. Preferii sorridere e lasciare in sospeso quello che il meccanico aveva già capito, forse prima di me. «Questa era un'Electra-Glide Sport: come vedi è stata trasformata abbastanza profondamente, ma con un certo gusto. Le Electra-Sport nascono con un terrificante cruscotto per gli strumenti, in perfetto stile Fiat Panda. Eccolo qua, tanto per intenderci.» E così dicendo estrasse da una scatola un enorme oggetto elettronico composto da tachimetro e contagiri, tutto nero e pieno di spie, luci e lancette. La cosa più brutta era il fatto che fosse di plastica e che dovesse essere montato proprio sul fanale anteriore che, al contrario, era un'autentica opera d'arte. «Il cliente ha subito installato il faro nacelle della vecchia Electra-Glide anni Settanta», disse indicandomi il gioiello cromato che racchiudeva il grosso fanale. «Θ bellissimo», commentai, mentre accarezzavo la curva del serbatoio. «Be' sì, diciamo che è una moto che ha una grande personalità.» «Ma quindi è in vendita?» chiesi ancora. Il meccanico, per la prima volta, s'incupì leggermente. «Vorrei saperlo anch'io, cazzo. Θ di un giornalista che è sempre in giro per il mondo che me l'ha mollata qui due mesi fa dicendo che sarebbe passato a riprendersela a breve. Poi, qualche tempo dopo, mi ha telefonato dicendo che si trovava in India e che aveva bisogno di soldi. Mi disse di metterla in vendita, solo che è caduta la linea e non sono riuscito a sapere quanto voleva realizzare. Da quel momento non sono più riuscito a sentirlo, anche se so che è tornato in città per qualche giorno e poi è ripartito per il Sudamerica. Non che mi dispiaccia tenermela, ma per lo meno vorrei sapere che cosa farmene.» Quella storia aveva contribuito ulteriormente ad aumentare il fascino di quella moto, ma al tempo stesso la stava allontanando da me. Qualcosa mi diceva che non sarei riuscito ad averla. Come temevo, il meccanico sparò un prezzo incredibilmente alto che non avevo alcuna possibilità di negoziare, visto che il misterioso proprietario era irreperibile. Diedi ancora un lungo sguardo alla moto e me ne uscii in strada per raggiungere i miei figli e la tata che mi aspettavano al luna park. La mia testa era ancora rapita da quelle cromature e da quelle linee sinuose e seducenti. Pagai senza battere ciglio tre enormi frappé (uno anche per la tata) mezzora prima della cena e due palloni di zucchero filato delle dimensioni di un lampadario. Pietro, entrando in macchina, spalmò il suo sulla tappezzeria e io mi limitai a dire che sono cose che capitano. In quel momento, credo, mi accorsi che mi ero completamente innamorato di quella maledetta moto. E la mia vita stava già cambiando. | << | < | > | >> |Pagina 78Al Milano Chapter ebbi la conferma che la moto era un formidabile amplificatore di sensazioni e che poteva modificare il comportamento e le reazioni di chiunque.L'età media dei soci era oltre i trent'anni, ma erano molti quelli che superavano ampiamente i cinquanta. Il problema è che molti si consideravano autentici depositari della conoscenza e del puro spirito biker: una roba da lasciarti secco. I vecchi amici di Talamo, poi, costituivano una vera setta indipendente, che frequentava poco il chapter e se ne stava per conto proprio partecipando a pochi e selezionati raduni con una certa aria di sufficienza. Tra i soci H.O.G. vi era una grande attenzione verso i dettagli apparentemente più insignificanti. Ad esempio, le pezze curve (dette «a banana ») da portare sulla schiena e sul petto non erano tutte uguali: alcune riportavano la dicitura Milano Chapter su due scritte sovrapposte, mentre le più recenti le avevano una di seguito all'altra. Per anni non mi sono neppure accorto di questa differenza, che poi ho capito essere un elemento di grande prestigio per alcuni e cruccio inconsolabile per altri, che per un soffio avevano ricevuto già la nuova pezza priva di qualsiasi fascino ed erano costretti a portare cucita sulla schiena quell'ignominia mischiandosi con i nuovi soci. Le uniche patch che davano una certa valutazione della scorza del motociclista potevano forse essere quelle dell'H.O.G. Inverno, ma anche qui l'inganno era a portata di mano: pare che alcuni vecchi soci raggiungessero in macchina il Moe's di Rimini (meta finale dell'H.O.G. Inverno) per ritirare la pezza annuale del run e festeggiare insieme ai biker che, invece, avevano portato i loro culi fin li sfidando le intemperie in moto. Ma il problema non si poneva, visto che innumerevoli altre pezze venivano distribuite ai mai sazi soci H.O.G.: dall'ABC del Touring alle pezze dei raduni ufficiali H.O.G., da quelle dei raduni promossi dai chapter alle pins degli stessi chapter, fino a paradossi come la pezza LIFE MEMBER, che si poteva acquistare spendendo l'equivalente di mezzo milione di lire.
Una roba che rasentava il ridicolo. Il chapter era un'orgia di
stemmini: alcuni soci avevano ricoperto i giubbotti con un numero tale di
medagliette metalliche che sembravano citofoni.
Nonostante tutto, mi sembrava che le cose positive fossero superiori a quelle negative, così decisi di provarci. Nel giro di sei mesi ottenni le pezze di socio effettivo e iniziai la mia vita nella H.O.G. In effetti il chapter era divertente anche perché offriva una fauna molto interessante. Guidare una motocicletta d'élite e farlo in un gruppo numeroso, facendosi precedere da un rombo di tuono, può modificare i vostri comportamenti. Il potere aggregante delle motociclette è noto; dai tempi delle prime Indian e delle antiche Harley-Davidson degli anni Trenta, i motociclisti hanno sempre cercato di riunirsi in club e associazioni per condividere la loro passione. I club più antichi (lo Yonkers MC, il San Francisco MC e il New Jersey MC risalgono ai primi del Novecento) si divisero subito in due famiglie: quelli d'ispirazione sportiva e quelli che sostenevano il marchio di una casa motociclistica. Lo scopo era riunire persone che avevano in comune l'hobby della motocicletta e creare un'identità di gruppo e la Harley ci riuscì subito benissimo. Data la caratterizzazione familiare della H.O.G., molti soci partecipavano ai run con le loro mogli o fidanzate, una cosa che mi ha sempre riempito d'invidia. Non solo Giovanna era totalmente indifferente a questa mia lancinante passione, ma ne subivo anche il biasimo e la disapprovazione quando al mattino alle sei e un quarto la sveglia suonava per ricordarmi che dovevo alzarmi, ricoprirmi di diciotto strati di lana e goretex, accendere la moto nel silenzio assoluto del cortile e riunirmi a un gruppo di squilibrati già al quarto caffè, con lo scopo di andare a Monza a fare un pranzo di beneficenza. Il silenzio accusatorio e la riprovazione mi perseguitavano per un paio di settimane e proprio quando iniziavano a scemare, arrivava il momento di un nuovo run. Fu proprio la mia perseveranza a farmi capire che forse non si trattava di un semplice hobby, ma qualcosa di più. Comunque anche Giovanna qualche volta si è lasciata andare. In occasione di un giro all'Elba stavamo per attraccare a Portoferraio e tutto il chapter era già a bordo delle proprie moto all'interno del traghetto, caschi allacciati, zip chiuse, occhiali sul naso. Le ragazze sul sellino sorridevano, mentre ci aspettava un weekend nuovo di zecca da passare sulle curve delle piccole stradine dell'isola, sotto un bellissimo sole primaverile. Finalmente il portellone del traghetto si aprì e quasi nello stesso istante più di cento Harley-Davidson accesero i loro motori. Mentre cento pulsanti dello starter venivano premuti, l'emozione di quel rombo amplificato dalle pareti metalliche della nave fu veramente forte. In mezzo alle gambe di ognuno dei piloti si scatenò un controllato processo fisico che prevedeva una serie rigorosa di contatti elettrici, reazioni chimiche e movimenti meccanici, che si concludeva con l'esplosione della miscela d'aria e benzina che dava energia ai due pistoni, disposti a 45 gradi l'uno rispetto all'altro. I gas di scarico venivano immediatamente espulsi dal movimento alternato dei cilindri e attraversavano i collettori e le marmitte, portando con sé il fragore dello scoppio che si trasformava in un tuono a noi familiare: la musica delle nostre moto. Mentre tutto ciò accadeva attorno a me, ingranai la prima tenendo la frizione tirata con la mano sinistra, aumentando con la destra il numero di giri. I grossi fanali illuminavano le paratie del traghetto mentre i lampi rossi delle luci di posizione e dei freni rendevano l'atmosfera calda come un piccolo angolo d'inferno rumoroso, in fondo al quale si vedeva l'uscita verso il giorno. Giovanna mi strinse i fianchi e appoggiò la testa sulle mie spalle sussurrando: «Accelera, accelera dai, fammi sentire di più...» Senza bisogno di girarmi immaginavo l'espressione del suo viso, con gli occhi chiusi e un mezzo sorriso che avevo imparato a riconoscere tante altre volte. Non risposi, non ce n'era bisogno. Lasciai che in quell'istante la vera protagonista fosse la mia moto. | << | < | > | >> |Pagina 120Resto sempre affascinato da questo modo di andare in moto, da questa passione per l'avventura in sella alle due ruote, unita al continuo tentativo di migliorare le proprie prestazioni e di superare i propri limiti.
La parte più interessante dell'intervista è stata quando Michael mi ha
elencato i punti del loro Archivio di Saggezza, frutto
dell'esperienza e della fatica di tanti motociclisti. Ne riporto alcuni, tra i
più significativi: chissà se potranno essere utili per
qualcuno che si sente un Iron Butt
in pectore.
Conoscete i vostri limiti e pianificate il viaggio basandovi su questi: se non avete mai fatto più di 500 km al giorno, non progettatene 1000. Le velocità alte e le lunghe distanze non hanno nulla in comune. Di certo vi affaticherete di più per il vento; poi, se vi va bene, vi dovrete fermare di più per i rifornimenti, se vi va male per le multe o per altro. Lasciate a casa stimolanti di ogni genere: quando sentite il bisogno di qualcuna di quelle schifezze, quello è il momento di fermarvi. Preparate bene la moto prima del viaggio: gomme, candele, olio. Non fate lavori importanti sul motore subito prima di un lungo viaggio: anche i migliori meccanici possono fare cazzate. Imparate a fare le valigie: poca roba e ben accessibile, senza smontare tutto. Fatelo presente a vostra moglie, se viaggia con voi. Cercate stratagemmi per evitare la noia (già il fatto di scegliere un percorso panoramico aiuta molto). Volete vivere? State lontani dai camion: quando vi viene la tentazione di farvi «rimorchiare» da un TIR, pensate a come ci si può trovare infilati sotto il suo paraurti posteriore. Abbonatevi a un servizio di assistenza stradale internazionale (Europe Assistance, Mondial, eccetera). Sappiate quando fermarvi: quei dieci chilometri in più potrebbero costarvi cari. Ci sono alcuni sintomi tipo: «non riesco a mantenere la velocità costante», «perché mi dimentico di abbassare gli abbaglianti?» e il peggiore di tutti «chiudo gli occhi, ma solo per due secondi...» Non mangiate schifezze: evitate cotechino e sambuca a favore di carboidrati e acqua. Mettetevi la giacca da pioggia prima che piova. Io non ci sono mai riuscito, ma per lo meno c'è l'effetto positivo che, quando mi infilo il K-Way, subito esce il sole.
Portate un kit di attrezzi (e magari sappiateli anche usare). Oltre alle
chiavi inglesi: cavo acceleratore, candele, cavi per batteria, nastro
isolante, pila, filo isolato, un flacone di Fast, un tubetto (per succhiare la
benzina). Infilate da qualche parte una mezza bottiglia d'acqua,
aspirina e pastiglie per il mal di testa. A qualche amico suggerirei
anche una scorta di profilattici.
Quindi, ragazzi, rimbocchiamoci le maniche e facciamogliela vedere a chi dice che l'arlista è un fighetto da aperitivo. Io non sono uno dei migliori clienti delle concessionarie Harley, visto che mi aggiro da tempo immemorabile sulla stessa Road King comprata usata: a dire il vero, l'unico dipendente Harley-Davidson che mi vede ogni tanto è il vecchio Max, insostituibile magazziniere di via Niccolini, che riesce sempre a scovare per me qualche pezzo di ricambio usato. Anche se non sono la persona meglio informata sui prezzi delle moto, so che per comprarsi una Electra-Glide Standard bisogna scucire una cifra vicina ai ventimila euro. Dopo aver speso questi soldi, non è facile fare la vita dell' easy rider e mi riferisco a cose neanche troppo hard, tipo scegliere un albergo anche se non ha il garage o decidere di lasciare la moto fuori se piove o nevica. Non raccontiamoci palle, ragazzi, con ventimila euro sotto il culo è difficile parlare di libertà, alla faccia di tutti i Ride Free che si sprecano nel mondo Harley. Si viaggia invece con grande apprensione, al pensiero delle innumerevoli mensilità che ci stiamo portando sotto le chiappe, rischiando di diventare schiavi di quella che paradossalmente dovrebbe essere la nostra freedom machine. Il risultato è che l'arlista medio propende per essere un motociclista «timido» alimentando il trito luogo comune del fighetto a due cilindri, quando invece la cosa paradossale è che le nostre Harley sono molto affidabili, robuste e adatte a un uso quotidiano senza troppe remore. Sono convinto che non si dovrebbe badare troppo alle magagne della nostra Harley e lasciarla invecchiare in pace. Sapete che vi dico? Personalmente sono felice che, con la sua età, la mia moto sia meno appetibile delle sue sorelline fresche di fabbrica; anzi, ogni anno che passa, mi sento più tranquillo. Il nostro amico Marc Gutmann, che abbiamo menzionato all'inizio del capitolo, gira il mondo su una sorprendente enduro di marca sconosciuta, con il motore ben oliato e gli pneumatici sempre in ordine, ma di un colore a dir poco approssimativo e tutta imbrattata. Ci ha detto che la cosa che lo rende più sereno è il fatto di averla pagata 1500 dollari. Se non è libertà questa... | << | < | > | >> |Pagina 134Oggi partiamo per Srebrenica, abbiamo una missione da compiere.Nelle borse delle nostre moto c'è un piccolo fascicolo, poco più di venti pagine, dove abbiamo raccolto i pensieri di tantissime persone che non vogliono dimenticare l'eccidio di Srebrenica, avvenuto l'11 luglio del 2005. Mentre cerchiamo la strada verso la Serbia, notiamo molti manifesti che sembrano reclamizzare capi di abbigliamento su cui campeggia il nome Srebrenica. Sono immagini assolutamente identiche alle pubblicità di abbigliamento giovane che si vedono anche in Italia, ma guardando meglio ci rendiamo conto che si tratta di scioccanti immagini di morte. Giubbotto di jeans stone washed - capo d'abbigliamento casual - marca Diesel - Reperto numero 265894, trovato a Srebrenica, in una fossa comune. Maglietta Forty Niners - taglia media - diciotto, venti anni - puro cotone. Reperto n. 265895. Trovato a Srebrenica, in una fossa comune.
Scarpe da jogging Adidas - numero 41 - colori moda - Reperto n.
265869, trovato a Srebrenica, in una fossa comune.
I ragazzi che oggi potrebbero indossarli allora avevano otto o dieci anni. Quelli che li indossavano allora, oggi non ci sono più. Il tragitto verso Srebrenica si snoda nella Repubblica Serba, o meglio la Repubblica Srpska, una regione interna alla Bosnia-Erzegovina, abitata per lo più da serbi (i cosiddetti serbi di Bosnia, di religione ortodossa, tradizionalmente nazionalisti). Θ tra questa gente che uomini come Mladzić e Karadić, i carnefici di Srebrenica, riuscirono ad arruolare le truppe paramilitari che nel corso della guerra si macchiarono di atroci delitti. La strada si snoda tra campagne e colline che ricordano la nostra Toscana o il Monferrato, con cascine perse nel verde e boschi lussureggianti: una delle ricchezze principali della Bosnia è infatti l'acqua, che consente addirittura di esportare ai Paesi limitrofi l'energia idroelettrica. Le curve sono talmente piacevoli che ci facciamo prendere la mano e iniziamo a piegare come se fossimo sulla Serravalle ma, dietro il classico cartello, ecco la macchina della polizia, per giunta dotata di un rudimentale autovelox. Senza tanti complimenti mi fanno vedere che sul display compare 65 km/h, in un tratto dove vige il limite dei quaranta. C'è poco da discutere e i poliziotti iniziano a scribacchiare un lungo verbale per eccesso di velocità. Durante i minuti seguenti, il Depia e io abbiamo pensato le peggiori cose: dall'esborso di cifre spropositate per salvarci dalla gattabuia alla confisca dei nostri passaporti e ci vedevamo già seduti su scomode panchine a fare ore di anticamera presso remote stazioni di polizia serba che puzzano di cavolo e caffè vecchio. Insomma, eravamo pronti a tutto, quando finalmente il poliziotto mi consegna la multa con aria seria e mi spara li un: «Roberto, Roberto... cinque euro!» Ma non è l'unico episodio poliziesco in Serbia: verso sera, infatti, siamo stati ancora protagonisti di un incontro ma questa volta con sviluppi meno comici. Dopo esserci beccati un'oretta di pioggia torrenziale, ci eravamo fermati sul ciglio della strada per asciugarci. Proprio di fronte a noi si apriva una valle bellissima, con un piccolo cimitero cristiano e io stavo scattando qualche foto al panorama, includendo nell'immagine parte delle tombe. Anche se sembra uno scherzo, in Bosnia non è facile fare foto senza che ci scappi dentro qualche cimitero. All'improvviso un'auto della polizia si ferma davanti a noi. La porta si apre e un agente, senza scendere, mi fa segno di avvicinarmi. «Perché tu fai foto a cimitero?» Si fa capire il poliziotto, con aria molto aggressiva. Io cerco di spiegare che il mio interesse era rivolto al panorama, ma il poliziotto non è convinto e sembra che non aspetti altro che un gesto di stizza del Depia per scendere dall'auto con aria - questa volta veramente - minacciosa. L'agente inizia a inveire contro di noi che non sappiamo più cosa dire e iniziamo a essere piuttosto preoccupati. Ci trovavamo molto lontani da tutto, in un paese abitato da gente - i serbi di Bosnia - abituata a ricevere accuse di strage e che deve essere piuttosto suscettibile su cimiteri e rovine di guerra. In quel momento i serbi erano rappresentati da due poliziotti che avevano voglia di attaccare briga. Ho preso da parte l'agente, che stava fronteggiando a muso duro il Depia, e gli ho fatto vedere come si cancellavano le foto. Le ho eliminate di fronte a lui; cosa cavolo poteva fregarmene: ero pronto a regalargli pure la macchina fotografica se avesse voluto. Ma per fortuna gli agenti si sono placati e, sgommando sul ghiaietto, si sono allontanati borbottando e scuotendo la testa. Poco dopo siamo ripartiti senza parlare: qualcosa mi diceva che questa volta ci era andata bene. La strada per Srebrenica entra nella Repubblica Srpska, cioè la zona della Bosnia-Erzegovina a maggioranza serba, che ha occupato molti territori che prima della guerra civile erano abitati da mussulmani. Alcune di queste enclavi erano Srebrenica e Potocari. Incontriamo molti mezzi dell'EUFOR, che pattugliano la zona. Sono tedeschi, francesi ma anche italiani. La stradina che porta a Srebrenica si snoda in mezzo al territorio serbo, tra villaggi completamente distrutti alternati a paesi neppure sfiorati da una granata. Ci viene detto che, con precisione chirurgica, solo le case e i paesi abitati dai mussulmani sono state distrutti mentre quelli dei serbi e degli ortodossi non hanno subito nemmeno un graffio. Raggiungiamo il cimitero: ci sono centinaia di lapidi verdi (il colore dell'Islam) allineate su un campo con la terra appena smossa. Le date di nascita ci fanno comprendere con sgomento che molti avevano soltanto quindici o sedici anni, quelle di morte sono sempre uguali, luglio 1995. Sono i resti delle persone trovate nelle fosse comuni, di cui è disseminata la zona, e sono solo una parte di quello che è stato definito un genocidio. A ricordarcelo, una fila di cartelloni lunga più di cento metri, con la lista di tutti i morti e i dispersi di Srebrenica e Potocari. Sono oltre 8500 nomi. Ci metto qualche minuto solamente per passare davanti a tutti: mi ricorda il muro dei veterani del Vietnam, a Washington. Il Depia filma tutto e mi fa delle domande, per documentare la nostra missione. Ma non riesco a rispondere. Cammino senza fermarmi mentre le tombe sembrano non finire mai. Mi guardo attorno. Il mio amico è lontanissimo e io sono solo un puntino in mezzo a questo campo verde. Dietro il grande cimitero c'è una vecchia fabbrica di pile ormai dismessa. Nel 1995 era la base dei caschi blu olandesi, trecento uomini con armi leggere, spediti dall'ONU a presidiare l'enclave di Srebrenica e Potocari. L'edificio è in disuso e adibito a memoriale. Tutto è chiuso e silenzioso. All'inizio il guardiano non ci vuole fare entrare, ma poi cerchiamo di convincerlo, con la nostra telecamera e il nostro piccolo libretto di pensieri, impolverato come noi. Arriva una ragazza sui venticinque anni, c'è un cagnolino con lei che saltella instancabile. Sembra l'unico essere allegro nel giro di un milione di chilometri. Entriamo nel capannone buio e deserto mentre la ragazza accarezza il cane e ci parla in un inglese preciso e semplice. L'immenso interno della fabbrica di pile è triste e polveroso. Su un muro campeggia una scritta in stile vetero-sovietico inneggiante a Tito e risalente a molti anni prima della strage. La ragazza ci spiega che, dieci anni fa, le truppe paramilitari di Mladzić e Karadić - serbi di Bosnia - avevano accerchiato l'intera zona minacciando di uccidere tutti gli abitanti di Srebrenica e Potocari. Circa cinquemila persone fuggirono dalla cittadina e si presentarono ai cancelli della base dei caschi blu, chiedendo asilo. Altri duemila non si fidarono e preferirono cercare la via di fuga attraverso le colline con l'obiettivo quasi impossibile di raggiungere Tuzla, dove c'era un'altra base ONU, ma anche per loro l'impresa si rivelò ardua e in gran parte non riuscirono a salvarsi. Durante giorni interminabili, cinquemila persone vissero l'una vicino all'altra all'interno di questo enorme capannone. Nacquero bambini, vecchi morirono, intere famiglie divisero il poco cibo e l'acqua a disposizione sperando e pregando. Poi i caschi blu olandesi, paralizzati dalla burocrazia e incapaci di gestire l'enormità della situazione, inspiegabilmente aprirono i cancelli della fabbrica e consegnarono i rifugiati nelle mani dei serbi. Poco dopo le truppe paramilitari serbe uccisero oltre 8500 uomini, selezionando quelli di età compresa tra i sedici e i sessanta anni. L'eccidio durò una settimana. Tra le persone uccise c'erano anche il padre e il fratello della ragazza. Molti responsabili della strage sono tuttora latitanti. Abbiamo ascoltato le parole di quella ragazza. Stavamo impalati con la nostra piccola telecamera e tra le mani il nostro fascicolo pieno dei pensieri di tantissime persone che vivono in Italia e che forse non avevano idea di ciò che l'uomo è riuscito a fare qui, pochi anni fa. Pensieri che parlano di pace e speranza, di amicizia e di affetto, di futuro e di bambini: cose che qui sembrano terribilmente fuori luogo. Lasciamo il nostro fascicolo in un angolo di questa enorme fabbrica; una fiammella di amore tra grandi muri silenziosi e sporchi, destinati per sempre a riecheggiare la paura e il dolore di quei giorni. Usciamo mentre le nostre moto sono parcheggiate vicino a una vecchia scritta UN (United Nations), dipinta su un blocco di cemento. Per quella ragazza, il significato è United Nothing. Sta piovendo e anche piuttosto forte. Tutto è ancora più grigio, più triste. Senza parlare accendiamo i nostri motori e in quel rombo c'è tutto il nostro desiderio di casa, di famiglia, di ritorno, di cose belle, di luce, di «basta, basta, basta». Ingraniamo sonoramente la prima e ci allontaniamo da quel piccolo villaggio sotto una pioggia torrenziale che ci pizzica il volto e ci inzuppa i jeans. Non ci preoccupiamo di coprirci e, con la mente altrove, lasciamo che le braccia e le gambe seguano gli automatismi della guida sulle curve di questa piccola strada di montagna. Come spesso capita quando guido la mia Harley, una canzone si impadronisce del mio cervello e non mi lascia più per tutto il viaggio. Questa volta è Blowin' in the Wind di Bob Dylan e, mentre il suo motivo continua a martellarmi in testa, mi pongo anch'io una domanda: chissà quando, sotto questo grigio cielo di Bosnia stufo di piangere potrà finalmente tornare il sereno? La risposta, amico mio, si è persa nel vento. La risposta si è persa nel vento. | << | < | > | >> |Pagina 170Ci sono due tipi di motociclisti: quelli che cercano di capire come funzionano le proprie moto e quelli che si rifiutano di farlo. I due approcci sono sintomo di due diversi stili di vita.Paradossalmente, fino a che tutto funziona a dovere, i primi, conoscendo il funzionamento del motore e avendo la responsabilità di farlo marciare bene o all'occorrenza di ripararlo, saranno sempre molto più preoccupati di quelli che, invece, affrontano con totale incoscienza qualsiasi tipo di viaggio. Ma tutto s'inverte quando salta fuori un problema. Il guasto pone i due tipi di motociclisti in uno stato d'animo opposto: determinati e tranquilli i primi e disperatamente agitati i secondi. Più di una volta mi è capitato di veder giungere il carro attrezzi all'officina per una moto nuova che non ne voleva sapere di partire solo perché il rubinetto della benzina era chiuso, il serbatoio era vuoto o c'era una pipetta della candela staccata. Questione di approccio: non bisogna avere paura di sporcarsi le mani. Lascia giù il telefonino e prendi una chiave da mezzo pollice, infilatela in tasca, accovacciati a terra e inizia a osservare la tua moto da un altro punto di vista. Uno dei blocchi più tipici di chi si rifiuta di effettuare una riparazione con le proprie mani è la convinzione di non avere gli attrezzi giusti. A volte questo può essere vero, ma spesso è soltanto un pretesto per non provarci. Un set di bussole e chiavi in pollici da tenere in una piccola borsa può risolvere l'ottanta percento dei guasti di una Harley-Davidson a carburatore. Un buon maestro è fondamentale per il rimanente venti. | << | < | > | >> |Pagina 179In definitiva, la cosa più incredibile è che in tutti questi anni ho continuato a considerare la mia Road King come la più bella moto che fosse mai stata costruita.Ogni tanto mi capita di scorrere vecchi album di foto dove rivedo le versioni della mia prima Harley. Una parola sola: un vero tamarro. Avevo ricoperto il mio ferro di ogni genere di stronzate, tanto che nel mio primo viaggio in Africa avevo perfino una bandierina italiana che sventolava sul paraborse. Ricordo interi pomeriggi passati a trafficare con nastro isolante e filo elettrico per far funzionare due laser azzurri e l'indianino illuminato sul parafango anteriore (senza nulla togliere alla Indian che resta una delle mie moto preferite). Dopo ore di olio di gomito per lucidare cromature e la lente d'ingrandimento per trovare il posto per l'ultimo adesivo, la mia moto ricordava una di quelle Ape Piaggio che si vedono a Capri, ci mancava solo la calamita NON CORRERE, PENSA A NOI. Era naturale: avevo l'entusiasmo del neofita e avevo trasformato la Road King nella sua versione Abarth. Ma un giorno ho capito che ne avevo abbastanza. Poco per volta ho iniziato a spogliarla di tutto, prima timidamente, poi con sempre maggior determinazione. Via i due fanali spot anteriori, via le frecce, via le gomme bianche. Fuori dalla finestra i paracalore cromati, le lucine, gli specchietti e gli adesivi. Via termometri e indicatori e via pure i silenziatori, sostituiti da due tubi vuoti e neri come il peccato. Ma non bastava ancora: il vortice mi aveva catturato e non potevo più tornare indietro. Ero preda di un'ansia irrefrenabile e sapevo che mi sarei fermato solo quando fossi riuscito a fare uscire la sua vera anima, consapevole che anche la mia doveva essere messa a nudo. Così continuai a buttare via tutto, non solo dalla vecchia Road King, ma anche dalle mie idee sul mondo biker. Insieme al larghissimo manubrio bikini-bar e alle cromature, scomparivano a poco a poco anche le antiche passioni e le vanità da quattro soldi come le bizzarre pezze sul gilè, fossero quelle dell'Elefantentreffen o i 100.000 H.O.G. miles faticosamente guadagnati. Qualcosa nel profondo del mio cuore mi diceva che né io né lei avevamo più bisogno di alcun tipo di decorazione. Ormai insofferente verso fronzoli e accessori, e al tempo stesso nauseato da miti patinati e superficiali, ero attratto da ferri vecchi e neri, con rantolanti motori Shovelhead, che trafilavano olio come antiche ferite di guerra. Moto scostanti di cui si erano perse le origini, dal rombo basso e sinistro come una maledizione, visto che alla base dell'idea delle Harley-Davidson c'è sempre qualcosa di drammatico e pericoloso. Moto bastarde e illegali, ma dotate di una grande personalità. Iniziavo a capire che avevo imboccato una strada senza ritorno e che niente sarebbe stato più come prima. Ed è così che nel corso degli anni mi sono ritrovato a frequentare gente che li c'era già arrivata prima: vecchi meccanici scorbutici e motociclisti incorruttibili, gente che condivide una passione profonda e un'anima sovversiva che fa fatica a starsene tranquilla. E la moto è il loro modo di lasciarla libera, quando non ce la fanno più. Mentre spogliavo la moto, come per incanto, anch'io avevo perso tutte le protezioni: quelle contro il vento e la pioggia ma anche quelle previste dalle leggi e dalle convenzioni. Avevo dato l'addio alla H.O.G. e alla mediocre uscita domenicale bell'e pronta, avevo perso per strada le tiepide mail quotidiane e le patch commerciali da cucirsi sul gilè, insieme al riguardo che i concessionari riservavano a un buon cliente. Non avevo più niente di tutto ciò, ma ero felice perché avevo ritrovato qualcosa di molto importante. Viaggio su una moto del '98 di cui conosco ogni fremito e ogni reazione, e di cui mi fido come di me stesso. La mia Harley, ragazzi: una macchina di sopravvivenza. | << | < | |