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| << | < | > | >> |IndiceBlaise Pascal: la vita • profilo storico-critico dell'autore e dell'opera • guida bibliografica V Prefazione XX PENSIERI Carte classificate I Ordine 5 II Vanità 7 III Miseria 19 IV Noia e qualità essenziali dell'uomo 27 V Ragioni degli effetti 28 VI Grandezza 35 VII Contraddizioni 39 VIII Divertimento 47 IX Filosofi 53 X Il bene supremo 55 XI A P.R. 57 XII Principio 62 XIII Sottomissione e uso della ragione 66 XIV Eccellenza di questo modo di provare Dio 70 XV Passaggio dalla conoscenza dell'uomo a Dio 72 XV BIS La natura è corrotta 82 XVI Falsità delle altre religioni 82 XVII Rendere la religione degna di amore 87 XVIII Fondamenti della religione e risposta alle obiezioni 88 XIX Che la legge era figurativa 94 XX Rabbinerie 107 XXI Perpetuità 109 XXII Prove di Mosè 113 XXIII Prove di Gesù Cristo 116 XXIV Profezie 123 XXV Figure particolari 130 XXVI Morale cristiana 131 XXVII Conclusione 137 Carte tagliate in attesa di classificazione Serie I 143 [...] MISCELLANEA Serie XX 218 [...] MIRACOLI Serie XXXII 306 [...] FRAMMENTI PERVENUTI DA FONTI DIVERSE DALLA PRIMA COPIA Serie XXXV-ESDRA 339 Pensieri soppressi 343 Altri frammenti autografi 365 Altri frammenti 393 APPENDICE «Vita di Pascal» di Gilberte Périer 407 Note 449 Tavola delle concordanze 499 |
| << | < | > | >> |Pagina VIILa vita e le opere«Ci fu un uomo che, a dodici anni, con delle aste e dei cerchi, creò la matematica; che, a sedici, fece il più erudito trattato sulle coniche che si fosse visto dall'antichità; che, a diciannove, riprodusse in una macchina una scienza che esiste solo nell'intelligenza; che, a ventitré, dimostrò i fenomeni della pesantezza dell'aria e distrusse uno dei grandi errori della fisica antica; che, all'età in cui gli altri uomini iniziano appena a nascere, avendo completato l'intero percorso delle scienze umane, si accorse della loro nullità e volse i propri pensieri verso la religione; che, da questo momento fino alla morte, giunto a trentanove anni, sempre malato e sofferente, fissò la lingua che parlarono Bossuet e Racine, fornì il modello della più perfetta comicità e del ragionamento più rigoroso; che infine, nelle brevi pause dei suoi mali, risolse in via teorica uno dei più difficili problemi di geometria, e mise sulla carta pensieri che stanno tra il divino e l'umano: questo genio terribile si chiamava Blaise Pascal». (Chateaubriand. Génie du Christianisme). | << | < | > | >> |Pagina XXVDovunque nei Pensieri la natura diventi un paesaggio per l'uomo, è subito chiaro che in essa si compie la suprema e decisiva epifania dell'abisso. Se, quando vuole incrinare la presunta oggettività dello sguardo, Pascal lo abbandona al relativismo, all'impossibilità di afferrare la caotica complessità del reale secondo principi unitari (l'anatomia dello sguardo), trattando la natura in quanto tale egli opera una sbrigativa semplificazione fenomenologica: «Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi regni» (fr. 290). Ridurre la natura agli elementi costitutivi significa la sua geometrizzazione: un gesto altamente simbolico di cancellazione. Il carattere più sicuro di questa realtà, che sembra costantemente osservata in una lontananza minacciosa, in una formidabile estraneità, è il suo silenzio: «l'univers muet» (fr. 184). Il silenzio è il limite estremo della corporeità, il sarcofago dentro il quale la materia sembra giacere in una calma immemore. Pascal ha sofferto in modo acuto questo silenzio della natura, che è poi speculare all'attenzione verso la parola che caratterizza le Scritture: come nessuna filosofia ha diritto di oggettivare Dio, così nessun paesaggio può parlare all'uomo. In entrambi i casi si consumerebbe l'idolatria creaturale. Il silenzio dunque non è solo un momento teologicamente derivato, né una tattica apologetica (per indurre al distacco, all' Abgeschiedenheit di Meister Eckhart), esso è il volto più autentico e necessario della natura. Descrivere Dio o descrivere la realtà sono forme diverse di un'unica follia. Il Dio dei filosofi è più che impossibile, è inutile. Così la scienza nel suo vano interrogare la natura: la natura è muta, in essa si manifesta l'orrore di ciò che non ha limite, a cui è vano rivolgersi. L'universo di Pascal, con i suoi corpi racchiusi dentro forme astratte, in una successione impercorribile, ha i tratti raggelati del cadavere. Ma ogni creatura è morta fuori dall'azione salvifica di Dio, dunque la natura è richiamo all'assoluta perdizione e metafora della colpa: «L'eterno silenzio di questi spazi infiniti mi atterrisce» (fr. 187). La natura è paesaggio, terra desolata, perché non è il luogo della parola (in questo Pascal è del tutto estraneo a quello che Foucault definisce come sapere classico: per lui ogni segno è insufficiente, alla vanità di ogni semiologia corrisponde perfettamente l'assurdità di ogni ermeneutica).| << | < | > | >> |Pagina 8Se ci pensiamo poco... Se ci pensiamo troppo, c'infatuiamo e ci ostiniamo. Quando consideriamo il lavoro subito dopo averlo fatto, ne siamo ancora coinvolti; se lasciamo passare troppo tempo, non lo riconosciamo più.
Così per i dipinti guardati da troppo lontano e da troppo
vicino. Non c'è che un solo punto giusto, gli altri sono
troppo vicini, troppo lontani, troppo in alto o troppo in
basso. Nell'arte della pittura spetterà alla prospettiva stabilirlo, ma nel
campo della verità e della morale a chi spetterà?
Il potere delle mosche, che vincono battaglie, impediscono alla nostra anima
di agire, mangiano il nostro corpo.
Vanità delle scienze.
Quando saremo afflitti, la scienza della realtà fuori di
noi non ci consolerà dell'ignoranza morale, ma la scienza
morale mi consolerà sempre dell'ignoranza delle scienze oggettive.
Condizione dell'uomo. Incostanza, noia, inquietudine. | << | < | > | >> |Pagina 18| << | < | > | >> |Pagina 74Sproporzione dell'uomo.
Che l'uomo contempli dunque l'intera natura nella sua
alta e piena maestà, distolga il suo sguardo dai bassi oggetti
che lo circondano. Osservi quella luce splendente messa
come una lampada eterna per illuminare l'universo, finché
la terra gli appaia come un punto a confronto con il vasto
giro descritto dall'astro, e si stupisca di come quello stesso
vasto giro non è che un filo fragilissimo rispetto a quello
percorso dagli astri che ruotano nel firmamento. Ma se la
nostra vista si ferma lì, che l'immaginazione vada oltre,
sarà lei a smettere di pensare prima che la natura smetta di
fornirle materia. L'intero mondo visibile non è che un
impercettibile segno nell'ampio seno della natura. Nessuna
idea vi si avvicina. Abbiamo un bel dilatare i nostri pensieri al di là degli
spazi immaginabili, a confronto della realtà
partoriremo dei semplici atomi. È una sfera infinita il cui
centro è dovunque e la circonferenza in nessun luogo. Che
la nostra immaginazione si perda in questo pensiero è in
fondo la più grande testimonianza sensibile dell'onnipotenza divina.
Dopo aver fatto ritorno a sé, l'uomo consideri ciò che è
rispetto a ciò che esiste, si veda smarrito in un angolo
dimenticato della natura, e da questa piccola cella dove si
trova, cioè l'universo, impari a dare il giusto valore alla terra, ai regni,
alle città e a se stesso.
Cos'è un uomo nell'infinito?
Ma per fornirgli un altro prodigio di uguale eccezionalità, esamini le cose
più impercettibili, come un acaro, che
pur nella piccolezza del suo corpo rivela parti incomparabilmente più piccole:
zampe con giunture, e vene nelle zampe, e sangue nelle vene, e umori nel sangue,
e gocce in questi umori, e vapori nelle gocce. Ma divida ancora queste ultime
cose, spinga al limite la sua capacità di pensare, e
l'ultimo oggetto a cui può arrivare sia per ora quello che
interessa il nostro discorso. Forse penserà che questa è la
cosa più piccola della natura.
Ma anche là dentro voglio che scorga un nuovo abisso.
Non voglio raffigurargli solo l'universo visibile, ma l'immensità della natura
racchiusa in questo minuscolo atomo.
Guardi che infinità di universi, ciascuno col suo firmamento, i suoi pianeti, la
sua terra, nelle stesse proporzioni del
mondo visibile. E animali su questa terra, e acari nei quali
ritroverà tutto ciò che ha trovato negli altri, e altri ancora
nei quali ritroverà le medesime cose, incessantemente e
senza tregua. Si perda in queste meraviglie stupefacenti
per la loro piccolezza come le altre per la loro grandezza.
Chi non proverà ammirazione per il fatto che il nostro corpo, poco fa
impercettibile in un universo a sua volta impercettibile in seno al tutto, sia
diventato ora un colosso, un
mondo o meglio un tutto davanti all'inarrivabile nulla? Chi
rifletterà in questo modo si spaventerà di se stesso, e considerandosi sospeso
alla massa che la natura gli ha dato tra i
due abissi dell'infinito e del nulla, tremerà alla vista di
queste meraviglie e penso che, mutando la curiosità in
ammirazione, sarà più disposto a contemplarle in silenzio
che a farne oggetto di una ricerca presuntuosa.
Ma alla fine, cos'è un uomo nella natura? Un nulla
davanti all'infinito, un tutto davanti al nulla, qualcosa di
mezzo tra il nulla e il tutto, infinitamente lontano dal comprendere gli
estremi. Il fine e il principio delle cose gli sono
inesorabilmente nascosti da un segreto impenetrabile.
Incapace al tempo stesso di vedere il nulla da dove è
tratto e l'infinito che lo sommerge, cosa potrà fare se non
cogliere qualche aspetto di ciò che sta a metà, disperando
eternamente di conoscerne il principio e la fine? Tutte le
cose sono uscite dal nulla e portate nell'infinito. Chi saprà
seguire questi incredibili passaggi? Solo il loro autore li
comprende. Nessun altro lo può fare.
Per non aver contemplato questi infiniti, gli uomini si
sono messi alla temeraria ricerca della natura, come se tra
loro e la natura ci fosse qualche proporzione.
È curioso che abbiano voluto comprendere i princìpi
delle cose per poi spingersi a conoscere tutto, con una presunzione infinita
quanto il suo oggetto. Poiché certamente
un simile progetto è possibile solo a patto di una presunzione o di una capacità
infinita, come quella della natura.
Quando si è studiato si capisce che, avendo la natura
impresso la propria immagine e quella del suo autore in tutte le cose, quasi
tutte partecipano della sua doppia infinità.
Per questo constatiamo che l'estensione della ricerca è infinita in tutte le
scienze, e così, per esempio, chi può dubitare che la geometria possa dispiegare
un'infinita infinità di proposizioni? Anche la moltitudine e la sottigliezza dei
loro princìpi sono infinite, perché chi non vede come quelli
che prendiamo per ultimi non si sostengono da soli, ma si
appoggiano ad altri i quali, appoggiandosi ad altri ancora,
non ne ammetteranno mai un ultimo definitivo?
Ma riguardo ai princìpi ultimi che appaiono alla ragione,
noi ci comportiamo come davanti alle cose corporee, quando chiamiamo
indivisibile quel punto oltre il quale i nostri
sensi non percepiscono altro, per quanto infinitamente
divisibile per sua natura.
Di questi due infiniti delle scienze, l'infinitamente grande è molto più
evidente, ed è per questo che poche persone hanno avuto la pretesa di conoscere
tutte le cose. «Parlerò di tutto», diceva Democrito.
Invece l'infinitamente piccolo è molto meno visibile.
Sono stati piuttosto i filosofi a pretendere di arrivarvi, e
qui tutti si sono arenati. Da questo hanno origine titoli
così comuni come:
I Princìpi delle cose, I Princìpi della filosofia,
e altri ugualmente pomposi, a dir la verità, benché meno appariscenti di questo
che abbaglia:
De omni scibili.
Un uomo che si mette alla finestra per vedere i passanti,
se io passo di là, posso dire che si è messo là per vedere me?
No, perché egli non pensa a me in particolare; ma colui che
ama qualcuno a causa della sua bellezza, lo ama? No, perché il vaiolo, che
ucciderà la bellezza senza uccidere la persona, non gliela farà più amare.
Ma se mi amano per la mia intelligenza, per la mia
memoria, amano davvero me? No, perché posso perdere
queste qualità senza perdere me stesso. Dov'è dunque questo io, se non si trova
nel corpo e neppure nell'anima? E
come amare il corpo o l'anima, se non per queste qualità,
che non sono ciò di cui è fatto l'io, dal momento che sono
caduche? Si può amare la sostanza dell'anima di una persona in modo astratto,
indipendentemente dalle sue qualità? Non è possibile e non sarebbe giusto.
Non amiamo dunque mai nessuno, ma solo le sue qualità.
Non prendiamoci più gioco dunque di quelli che si fanno
onorare a causa di cariche e di uffici, perché non si ama
nessuno se non per qualità prese a prestito.
Avrei volentieri impostato il discorso come segue: per
dimostrare la vanità di ogni condizione, dimostrare la
vanità delle vite comuni e poi la vanità delle vite filosofiche, scettiche,
stoiche; ma l'ordine non sarebbe rispettato.
Conosco un po' di cosa si tratta e come poche persone lo
capiscano. Nessuna scienza umana lo può mantenere. San
Tommaso non l'ha rispettato. La matematica lo mantiene,
ma pur nella sua profondità essa è inutile.
Quando leggiamo troppo velocemente o troppo adagio
non capiamo niente.
Non si deve misurare la virtù di un uomo dalla sua eccezionalità ma nel
quotidiano.
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