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| << | < | > | >> |Indice3 Il cactus Le donne spinose 35 Il faggio La compassione e le anime in pena 63 Il ciliegio Prove tecniche di fioritura 91 Il tiglio L'ombra e il trauma 115 Il pino L'immortalità (tentativi di) 147 Gli agrumi Il mistero del viaggio 175 L'olivo Il tormentato suono della democrazia 201 La quercia e il leccio La forza della vita e la maledizione della forza 229 Il fico L'eredità del desiderio 155 Il grano La natura umana, tra centro e periferia 289 L'officina |
| << | < | > | >> |Pagina 3Si rigirava tra le mani il vaso: - Che meravigliose spine -. Lo erano eccome: aculei neri affilati, arroganti, prepotenti. Sí, era contenta, amava partire, anzi, forse mi amava solo quando partivamo. Piaceva anche a me partire, certo con moderazione. Sulla strada, avevamo l'impressione di essere una coppia fatta per viaggiare, per godere delle sfumature dell'orizzonte, pianure e colline, ombre e luci, sprazzi di cielo e temporali, i nostri sguardi sempre concentrati su qualcosa: nuvole burrascose, campi di grano, ciliegi in fiore, faggi in foliage, pagine di libro e coccinelle. Quegli sguardi - diceva lei - erano cosí intensi che potevano scoppiare e illuminare il cielo: - Hai presente le onde magnetiche, le aurore boreali, hai presente? No, non avevo presente, ma eravamo contenti: la Copiapoa cinerea, la città già svuotata, la macchina pronta, olio controllato, due settimane in giro con la mia Citroën 10, da Caserta a Roma, poi da lí Flaminia, gola del Furlo, Marche, Romagna e chissà dove. Era il 10 agosto 1987. [...] Quando rubammo le piante, io la Copiapoa cinerea e Antonino una particolarissima (per gli abbondanti fiori) Orchis italica, ci mettemmo subito in macchina - addio esercitazione - ma strada facendo rimanemmo bloccati in un ingorgo sulla via Marina, uno dei tanti, uno dei soliti. Caldo e fila interminabile. Scoprimmo alla fine che c'era un pazzo sdraiato per terra, ricordo imprecazioni e smadonnamenti, e ricordo che Antonino cambiò umore. Repentinamente. Ora il suo viso cupo gettava ombra dappertutto, pure l'orchidea era diventata scura. Per carità, Antonino era bizzarro e faceva cose strane, ma quella volta fu diverso. Mi disse che di notte si svegliava e annotava sul diario: «Sveglio alle tre di notte», aveva pagine e pagine di diario con la stessa frase: «Sveglio alle tre di notte». Mi disse che aveva paura della notte e aveva paura della non-notte. Amava le piante perché vivono senza sapere di vivere. Mi disse che fissava spesso il vuoto: - Alla fine della vita, cosa ti ricorderai? Tutta la vita? Ma quando mai, la memoria se ne sarà già bella che andata, ti rimarrà il vuoto -. Mi disse ancora che Kafka, solo lui, aveva capito tutto: - La vita è un incubo. Un attimo e ti svegli insetto. Leggilo Kafka, in un certo senso è rassicurante sapere che siamo su questa roccia, immersi nel vuoto cosmico, e la vita è un accidente, moriremo, qualcuno ci piangerà, ma per poco, poi continuerà a vivere e poi anche lui morirà. Ti passano molte fisime se leggi Kafka, badi all'essenziale. Poi guardò la mia Copiapoa cinerea: - Nelle piante grasse, - disse, - forse c'è il senso della vita, non come questa orchidea, - e incredibile, con la bocca ne strappò prima i sepali superiori e poi i petali inferiori. - Eh no, cazzo, - dissi, - dài, non la rompere.
Troppo tardi: con freddezza e lentezza - piú che esplodere sembrava dovesse
implodere - distrusse un po' di fiori, ma continuando a parlare: - La bellezza
stimola la voglia di esistere, crea aspettative, e le aspettative creano
delusioni: non puoi mantenere alte le aspettative, perché piú
in alto sei, piú vedi il vuoto sotto di te. Voglio dire, guarda la
Copiapoa cinerea.
Uno sforzo continuo, accumulare e trattenere acqua. La domanda è: perché vuole
vivere? La risposta non c'è, nemmeno il senso della vita c'è. Però
non fa bene dirlo, quindi non lo diciamo, soprattutto alle
fidanzate, - e pensai: mo come faccio a regalare 'sta pianta
grassa a Sara? Me la tira dietro.
Sí, Antonino si presentava alle feste sciatto e mezzo ubriaco, però adesso è uno dei massimi botanici europei. Si è sposato, ha divorziato, e ha una figlia, Bianca. Insegna Botanica, ha dato un nome a certi muschi che conosce solo lui, strani come lui, cresciuti in posti umidi, bui e desolati. I suoi studi, importanti e ben quotati, sono pubblicati su «Nature» e su «Plant Biotechnology Journal». Quando torno a Caserta e lo incontro finisce sempre che gli chiedo lumi sulle piante. Scegliamo ogni volta lo stesso bar, in una via appartata, con tavoli in ombra, in cui vanno perlopiú gli amanti. Ci sediamo e parliamo di tutto. Un giorno gli ho chiesto delle cactacee, diciamo che mi era rimasto il pensiero: - Ma scusa, poi alla fine hai capito perché vogliono vivere? - È complicato, - mi ha risposto. - Sai cosa credo? Che è vera la leggenda, te la ricordi? Ce la raccontò il prof di Botanica che mo so' passati più di trent'anni: c'erano due amanti in fuga, inseguiti dai genitori che non volevano che si sposassero. Gli amanti pregano un dio e questo li trasforma in cactus: cosí staranno sempre insieme, protetti, perché vivono con niente, non hanno bisogno d'acqua, di cibo e quindi niente li può spaventare. Sono indipendenti dal contesto, o forse indipendenti per via del contesto: una forma di resistenza. Vabbè, il sogno di tutti gli amanti. Comunque, agli studenti piace, 'sta metafora. - Mi sembrano incredibili cedimenti al romanticismo, - ho detto, e intanto guardavo due ragazzi che di nascosto, sotto il tavolo, si accarezzavano le mani.
- Cioè, - ha continuato, - il cactus è la vita minima
che diventa massima in ambienti ostili. Perché? Non si
sa. In alcuni luoghi ci sono grandi esemplari di
Cereus
e di
Hylocereus
che continuano a vivere tranquillamente senza l'assistenza di nessuno, ma senza
riprodursi e diffondersi.
Mo, tu fai lo scrittore... e facci 'na bella metafora, va'...
A Sara, a suo tempo, avevo raccontato la storia dei due amanti che stanno insieme per sempre, anche perché temevo che me la tirasse dietro, la Copiapoa cinerea. Lei mi ascoltò col sopracciglio alto, poi, dopo due giorni passati in biblioteca, mi spiegò il particolare ciclo fotosintetico dei cactus, detto CAM. - Sopravvivono nei deserti, nelle steppe alpine, nelle foreste tropicali, assorbono acqua e la accumulano nel tessuto spugnoso e per questo prendono varie forme, piccoli bottoni, sotterranei o giganteschi, del tipo a colonna o a candelabro. E le spine, guarda, sono sicura che a qualcosa servono. Uno dice: sono spinose, come se fosse un disvalore, e invece... [...] Tempo cinque giorni e Sara l'ha chiamato. Ha detto che si è informata e ha trovato uno studio bellissimo sui cactus crestati che era proprio di Antonino: - Cioè, tu saresti uno dei migliori botanici d'Europa e, cavolo, - ha detto, - non ti è mai venuto in mente di trasformare questi studi in una cosa pratica? Cioè, sai che facciamo ora? Facciamo un giardino di cactus crestati al centro dell'ospedale, cosí raduniamo tutte le persone col cancro, come noi, che soffrono, che sono vulnerabili ma hanno le stesse caratteristiche dei cactus crestati, sono mostruosamente belle. - Ma non si può fare, - ha risposto Antonino, - è complicato. Era amareggiato, pensava di iniziare una storia con Sara e si è ritrovato con un giardino da costruire. - Ma che complicato, - ha detto lei. - Sei il miglior botanico d'Europa, se non ci buttiamo adesso, quando ci buttiamo?
Poi gli ha spiegato la sua idea, che suonava piú o meno
cosf: - Noi siamo i primi pazienti a sperimentare la terapia
adattiva, cioè, in sintesi, dobbiamo convivere con il cancro. Cos'è il cancro?
Cellule egoiste che sfuggono alle leggi biologiche della comunità, perché la
vita multicellulare ha sviluppato molti sistemi che stabiliscono e rafforzano
la cooperazione cellulare, i controlli sulla proliferazione
cellulare, per esempio, o l'uso delle risorse e la morte cellulare. Diciamo che
non sempre queste leggi funzionano e
dunque alcune cellule crescono per i fatti loro. Sono cellule
che non vogliono morire né adattarsi, e vedi, alla fine, il
conflitto è sempre lo stesso, tra comunità e singolo. Ora,
tu mi dici che c'è un parallelismo tra le cellule dei cactus
crestati e il cancro, vero? Bene, nella terapia tradizionale aggrediamo il
tumore ma creiamo anche una pressione
selettiva. Maggiore è la dose chemioterapica, piú forte è
la pressione di selezione, per cui, se una cellula sfugge ai
farmaci, è perché sarà piú resistente e aggressiva, ed ecco
le recidive. Noi invece vogliamo convivere con il cancro,
non eliminarlo, mantenerlo, diciamo cosí, di dimensioni gestibili. Fare in modo
che le cellule sensibili abbiano
la meglio su quelle resistenti. Il tumore crescerà ma cercheremo di mantenerlo
nelle dimensioni gestibili, giusto?
Lo trasformeremo in un mostro piú governabile e non in
un mostro pericoloso. Giusto? Giusto! Allora dimmi tu,
quale esempio migliore dei cactus crestati? Sono la premessa emotiva
all'approccio terapeutico adattivo. Incarnano l'idea che le forme tumorali
possono portare a una maggiore vulnerabilità, come la maggiore suscettibilità
alle infezioni che hanno i cactus crestati, ma con una cura adattiva è possibile
sopravvivere, anche se alcune cellule prosperano comunque. Quindi, la visione
dei cactus ci permette di immergerci nel paradosso della, chiamiamola cosí,
bellezza mostruosa. Le cellule del cancro sono
una manifestazione della creatività e della resilienza della
vita, anche se il loro successo cellulare può ucciderci. La
domanda diventa: come tenere sotto controllo il cancro?
E sí, anche consentendogli di svolgere alcuni aspetti della sua natura mostruosa
e nello stesso tempo mantenere in vita i pazienti e la loro qualità di vita piú
alta? Risposta: con un giardino di cactus crestati! Che dici? Vabbè,
poi chiamiamo uno scrittore che conosco e gliela facciamo
scrivere questa cosa. Ah, il titolo però glielo do io:
Infinite forme bellissime.
E cosí siamo arrivati al 2019, e trentadue anni dopo quel 1987 eccomi di nuovo con una pianta grassa, non la Copiapoa cinerea ma un piccolo cactus crestato, la faccia da scemo per la contentezza: ho appena inaugurato con un bel discorso il primo giardino di cactus crestati nel bel mezzo di un ospedale. Sara ha preteso delle telecamere di sorveglianza. - Non vorrei, - ha detto, - che qualche cretino rubasse le piante. - Eh, - abbiamo risposto in coro io e Antonino, abbassando la testa. La figlia di Antonino, Bianca, ha partecipato anche lei: è uscita dalla sua camera, e ha postato un paio di storie su Instagram sulla bellezza mostruosa dei cactus. È venuta un sacco di gente.
I pazienti restano ammaliati dai cactus crestati, ma non solo i pazienti,
tutti i visitatori. Loro guardano i cactus e i cactus guardano loro, piante e
umani si parlano, si dicono a vicenda: ti vedo e so che hai lottato e so che
lotterai e so che le persone ti aiuteranno a lottare.
Poi un giorno abbiamo festeggiato uno dei traguardi sperati. La nuova terapia pareva funzionare, sia per Antonino sia per Sara. Un po' abbiamo bevuto, un po' ci siamo rilassati, un po' Antonino ha ripreso certe sue piante di canapa, che in questi anni ha continuato a far crescere (a chilometro zero, diceva) e loro due hanno fumato (io no, so' contro), insomma i discorsi piano piano hanno preso la tipica piega: che cos'è la vita, perché a volte vogliamo morire e non vivere e perché quando la morte è vicina vogliamo vivere e non morire, e cos'è l'amore, perché lo desideriamo tanto quando non c'è e poi ci rompiamo quando c'è, la comunità e l'individuo, se Kafka alla fine, guardando il buio cosí a fondo, aveva capito tutto e altro ancora, e sono sicuro che, anche a causa dell'allegria, dell'alcol e di queste particolarissime foglie di canapa che solo Antonino riesce a far crescere cosí bene, piú che ragionamenti logici sia venuta fuori una serie di affermazioni, non credo degne del finale di un racconto, qualunque esso sia. Insomma niente di risolutivo, meno che mai consolante. Diciamo che Sara ha raccontato di Kafka: - Nelle sue storie, - ha detto, - a parte che sono comiche, ma c'è il buio e c'è una piccola luce, chissà perché ci concentriamo solo sul buio, in fondo l'insetto in cui si trasforma Gregor Samsa altro non era che un coleottero con le elitre e, insomma, aveva le ali e non lo sapeva. | << | < | > | >> |Pagina 115La maggior parte dei pini che vediamo sono domestici, come cani e gatti. Ci siamo abituati alla loro presenza, spesso sono scenografici, non c'è foto di panorama che non contempli un pino. Corriamo su un'autostrada? Ci distraiamo perché in lontananza sul crinale di una collina c'è una serie di pini, snelli, aristocratici. Da bambino pensavo fossero soldati sull'attenti che vegliavano su di noi, poi ho cominciato a pensare che no, in realtà i pini non si curano di noi, perché sono lenti e noi ci muoviamo troppo velocemente per loro. Questi alberi con la chioma a ombrello, oppure ampia e fessurata, appartengono alla famiglia delle Pinacee e al genere Pinus e sono stati tra i primi ad apparire sulla terra. Le gimnosperme (alberi senza fiori e frutti) hanno dominato il nostro piccolo puntino blu, e fatto un egregio lavoro per milioni di anni, fino a che, centocinquanta-centoventi milioni di anni fa, hanno lentamente ceduto posto e spazio alle angiosperme (alberi con fiori e frutti). Sono conifere con riproduzione sessuata. Ogni albero produce pigne di entrambi i sessi: coni maschili in cui si trova il polline (ma cosí discreti, tanto piccoli che per notarli devi essere o un botanico appassionato, o un allergico) e grosse pigne femminili (e quelle, che siamo o non siamo botanici o allergici, invece le conosciamo tutti). Il processo riproduttivo comincia quando i coni maschili spargono polline al vento: la maggior parte muore strada facendo, mentre qualche granulo sarà catturato da una minuscola goccia vischiosa che si trova sulla superficie della pigna, e spinto all'interno per l'atto sessuale. Il più sembra fatto, e invece no. Il sesso nelle conifere si fa lentamente. Queste piante che stanno qui da tanto tempo e che hanno tanto tempo si concedono il lusso più grande di tutti: sprecarlo. Spesso la fecondazione e la crescita possono durare anni. Quando finalmente les jeux sont faits, la pigna femminile cade dall'albero, le scaglie irte si aprono per rilasciare i semi nudi, cioè i pinoli: quelli che non verranno mangiati o abbrustoliti, germineranno e metteranno radici. Le varie specie di pino (marittimo, domestico, montano) grazie agli aghi sempreverdi evocano l'immortalità, e il loro profumo ricorda una dea benevola. Non per niente, in epoca arcaica, in Grecia, erano consacrati a Rea, la grande madre, e siccome le conifere sono tra noi da molto tempo, sono sorti decine di miti (pagani e romani e in tutto il mondo, dalle Alpi al monte Fuji), e feste soprattutto: celebrano la potenza, la fecondità, l'esuberanza, ma piú spesso la purezza e l'immortalità. [...] All'esame di Botanica sistematica ebbi un po' di problemi, confusi un pino con un larice mentre Antonino dimostrava di essere uno specialista, riuscendo a unire precisione e suggestione. - Alcuni pini, - disse, parlando di conifere, - come quelli dai coni setolosi (una sottosezione del genere Pinus), vivono millenni. Con la chioma piccola e il (meraviglioso, incantevole, sacrale) tronco contorto, annodato, avviluppato, sono in grado di assorbire e inglobare tutto, anche fulmini e frane. Crescono pochi millimetri all'anno e il piú vecchio, Matusalemme, ha un'età di quattromilaottocento e passa anni. Perdono rami e sviluppano una chioma molto sottile. Ma vivono a lungo. Nascondono un segreto, indubbiamente, e i botanici stanno cercando di capire come mai le cellule, man mano che invecchiano, pur continuando a dividersi con lo stesso vigore degli alberi giovani, non producano mutazioni pericolose (o meglio, queste mutazioni vengono isolate). Forse c'entrano la resina e le altre sostanze chimiche che fungono da fattori protettivi, di sicuro c'è qualcosa nei pini che rallenta la senescenza: quando l'albero ha subito un trauma, usa la resina per irrorare le ferite, una specie di antisettico naturale, e alcune conifere, come il pino giallo, contengono nel durame, cioè nella parte legnosa interna non piú vitale del tronco, fino all'ottantasei per cento di resina. Naturalmente non è che mi ricordi tutto il discorso di Antonino in sede di esame (e poi ogni volta che ricordiamo reinventiamo, l'ho già detto), col tempo ho letto tanti suoi studi e quindi ora immagino che parte di questi studi li abbia anticipati in quell'occasione. La maggior parte del legno è composta da materia morta (durame) e l'attività cellulare è limitata agli strati piú esterni del tronco: sotto la corteccia troviamo un tessuto, il floema, che trasporta gli zuccheri dalle foglie alle radici. Il floema viene formato e rinnovato da un altro tessuto, il cambio cribro-vascolare. Il cambio produce floema sulla superficie esterna e lo xilema su quella interna. Lo xilema è il tessuto che porta i nutrienti dalle radici alle foglie e alle altre parti dell'albero, tuttavia questa funzione importante viene svolta soprattutto a morte avvenuta: le cellule morte infatti formano i canali ascendenti. Nel pino la crescita del cambio cribro-vascolare è pressappoco la stessa, sia negli alberi vecchi sia in quelli giovani. Cosí è anche per il polline e i semi, quelli prodotti da alberi giovani hanno la stessa vitalità di quelli anziani. Certo, se uno vede i vecchi pini, con la corteccia fessurata e le ferite del tempo, può lasciarsi ingannare dall'aspetto funereo - e invece, incredibile a dirsi, alcuni esemplari di oltre tremilasettecento anni hanno cominciato, in risposta al riscaldamento della zona in cui crescevano, a svilupparsi con piú velocità degli alberi giovani. Il professore disse (questo, invece, me lo ricordo benissimo): - Il suo collega che si chiama quasi come lei, quello che ha confuso il pino con il larice, - mi cercò con lo sguardo e mi indicò: ero seduto in fondo alla sala per assistere all'esame di Antonino, - ha preso diciotto, a stento, lei invece merita trenta e lode. Poi, quando stavamo per andare via, il professore ci disse: - Comunque, è vero che l'età media di noi Sapiens è aumentata molto. Nel Paleolitico era attorno ai trentacinque anni e fino al 1900 in Europa è stato cosí. Oggi siamo arrivati quasi a ottanta. Si potrebbe dire che stiamo imparando dai pini? Per niente, - sottolineò compiaciuto, - moriamo di meno perché si muore meno da giovani: migliore alimentazione, antibiotici, igiene personale, sanità pubblica e buoni protocolli nei reparti di ostetricia. Moriamo di meno, dunque, e non perché la senescenza sia in calo. Non riusciamo a fare come i pini, disse, però ci proveremo: meno male che nel futuro sarò morto, sennò la voglia di vivere in eterno ci farà passare un sacco di guai. [...] Anni dopo ho cominciato a ragionare di disordine col mio amico astrofisico Amedeo Balbi. Non discutevamo del disordine naturale ma, diciamo cosí, del concetto ontologico di disordine. Io cercavo una teoria razionale che spiegasse l'inevitabilità del disordine e placasse l'ansia: l'entropia era tra queste. Il fatto è che tutti parlano di entropia usando sempre gli stessi esempi, tipo le camere che si disordinano e le frittate che non diventano uova, ma Amedeo Balbi, che come me soffriva quelle semplificazioni, un giorno si mise a tavolino ed elaborò un esempio non stantio. Mettiamo sei atomi (di un gas, per esempio) in una scatola divisa a metà, una parte sinistra e una destra, mi disse. All'inizio il nostro universo aveva un'entropia piú bassa. Che significa? Significa che i nostri sei atomi erano posizionati solo da un lato della scatola, diciamo quella sinistra. Però questa configurazione è molto ma molto labile, e poco per volta gli atomi hanno cominciato a occupare anche l'altro lato della scatola, quello destro. L'entropia calcola le configurazioni piú probabili. Se abbiamo sei atomi, fermo restando che il sistema non cambi, c'è una sola possibilità per avere tutti gli atomi nella parte sinistra. Se invece voglio mettere un atomo a destra e cinque a sinistra, allora le possibilità saranno sei (a rotazione, prendo un qualsiasi atomo a sinistra e lo passo a destra). La configurazione piú probabile è quella che mi dà tre atomi a destra e tre a sinistra: ci sono infatti venti modi diversi per realizzare questa configurazione. Quindi, se guardo la scatola con i sei atomi in un qualunque istante, avrò piú possibilità (venti modi) di vedere tre atomi a destra e tre a sinistra, rispetto a quella (un modo) di trovarli tutti a destra o tutti a sinistra. I sistemi tendono a evolvere dalle configurazioni particolari, cioè con tutte le particelle da un lato, a quelle generiche, con le particelle mescolate: l'entropia cresce. Se ci sono piú probabilità (infinitamente di piú) di vedere l'entropia aumentare anziché diminuire, vuol dire che si procede (sempre) da un sistema a bassa entropia a uno a piú alta. Cioè, abbiamo la sensazione che la freccia del tempo proceda dal passato (le particelle tutte da un lato o, per usare un esempio abusato, un uovo) al futuro (le particelle distribuite uniformemente, dunque un uovo rotto, un sistema a entropia piú alta). Ci sono piú probabilità che accada: è una legge fisica, da cui, empiricamente, ricaviamo la differenza tra passato e futuro. La vita emerge in uno stadio di entropia intermedia, né troppo ordine né troppo disordine, però andiamo verso il disordine, è una legge, quindi... nella sostanza nulla è eterno, né io né te, né la terra, né il sistema solare, nemmeno l'universo. [...] Paolo, uno dei figli di Vittorio, si era allontanato dalla comunità, con grande dispiacere del padre. Tuttavia la pecorella smarrita non si era del tutto distaccata: aveva ripreso la vecchia passione del padre, quella per i viaggi astrali, anzi, l'aveva portata avanti, ora seguiva il programma Gateway, una specie di allenamento per concentrare le onde cerebrali in modo da alterare la coscienza e sfuggire ai vincoli del tempo e dello spazio. Una cosa nata negli anni Ottanta, abbastanza seria visto che il maggior ente interessato era la Cia: come assistere a eventi reali con il solo potere della mente? - Insomma, mia figlia e Paolo hanno fatto amicizia e si sono messi a viaggiare nell'etere con l'obiettivo di attraversare l'ologramma dell'universo... - Ma che stai a di'? Antonino si è preso la briga di spiegarmi come - secondo Paolo - era possibile usare le onde cerebrali per uscire dal proprio corpo e incontrare le onde cerebrali di un altro, e ritrovarsi come corpi astrali in un luogo stabilito prima, e piú spiegava il programma Gateway piú ripetevo: ma che stai a di'? Finché a un certo punto Antonino si è innervosito, ha alzato gli occhi al cielo quasi maledicendo la santa modernità: - Mia figlia e Paolo sostengono che i corpi sono il maggior impaccio alla conoscenza, visto anche il patriarcato... - Che fanno i corpi? - Il patriarcato! - ha ripetuto Antonino. - Il patriarcato corrompe i corpi, quindi se loro si incontrano in spirito, in proiezione astrale o come cazzo si chiama 'sta roba, fanno due cose: a) la rivoluzione, b) sconfiggono il tempo, l'energia può essere immortale. - Ma è una cosa da ricchioni? - Loro sono oltre, post-ricchioni, sono post-human. - Post-human? - Eh sí! Queste sono le nuove tendenze, mica la movida... Comunque, pare funzioni. - Funziona? - Funziona, un paio di volte si sono riusciti a incontrare. - E dove? - Sotto il pino, hai capito quale? Dice che il segnale per capire se stanno sognando la stessa cosa oppure davvero si sono incontrati era togliersi le scarpe e passeggiare sugli aghi di pino, che poi è una cosa che ho sempre fatto fare a mia figlia, fin da quando era piccola. - Anch'io l'ho fatto. Pineta di Castel Volturno?
- Certo, e quale sennò.
Strane le cose. Il pensiero umano, poi, ancora di più. L'ultima volta che ho passeggiato sotto la pineta di Castel Volturno ero giovane e stavo con un gruppo di amici, c'era anche Vittorio nell'ultima fase, quando era obeso e triste, e mi ricordo che mi tolsi le scarpe, per me un automatismo, e anche lui lo fece, anzi, lo facemmo tutti. Poi io provai il solito piacere, e provo piacere quando il tempo si dilata e anche i miei occhi, pronti ad accogliere e registrare qualunque cosa. Dev'essere stato allora che dissi: - Qualunque strada si possa intraprendere per la felicità, questa passa obbligatoriamente per una pineta; qualunque opera urbanistica, architettonica, artistica, poetica, narrativa, scientifica eccetera, deve contenere (spesso metaforicamente, a volte concretamente), una pineta da attraversare e un mare da raggiungere. Si, forse, ogni volta che si ricorda si ricostruisce -. [...] Esistono due tipi di memoria, quella volontaria (ricostruisco per filo e per segno come è andata: che poi è quello che sto facendo adesso), e quella involontaria, piú efficace: il segreto dei pini è lo stesso contenuto nella petite madeleine di Proust. Eccone un altro che aveva l'ossessione del tempo, e in tutti i modi cercava di recuperarlo. Spesso, ci dice Proust, sappiamo le cose, ma non le sentiamo. Marcel, il protagonista della Recherche, sapeva che la nonna era morta, ma non lo sentiva, finché un piccolo gesto (chinarsi per slacciare gli stivaletti) gli ha ricordato la nonna: solo allora ha sentito la sua morte. | << | < | > | >> |Pagina 175Suona, e suona benissimo per via del tronco nodoso. Se guardate il fusto delle piante piú vecchie (nessuna pianta in vecchiaia assume le spettacolari forme dell'olivo), potete notare delle creste, ecco, ogni cresta è il riflesso di una radice profonda: la radice va in cerca d'acqua e dunque si muove, e quel movimento, di rimando, si riflette sul tronco. Se la radice cresce, crescono anche le creste sul tronco. Se invece muore, le creste si fermano. Siccome la crescita è radiale e diseguale, il tronco risulta contorto e gibboso: per questo suona. Per ascoltare il suono basta andare al Museo dell'olio, a Castelnuovo di Farfa, al secondo piano c'è la «stanza oleofonica», un'opera di Gianandrea Gazzola: ha preso un albero di olivo col suo bellissimo tronco nodoso e lo ha messo a girare su una pedana. Poi ci ha sistemato intorno delle aste, sembrano puntine che toccano i solchi di un vinile e invece sfiorano le creste del tronco, e cosí l'olivo gira e suona. Poi uno dice: eh, l'avanguardia, chi la capisce. Quando i contadini hanno visitato il museo e si sono trovati davanti all'olivo che suonava, hanno pianto, alcuni a singhiozzi. Vecchi contadini con coppola e abiti pesanti, gente abituata da una vita a salire sull'albero, potarlo, rinforzarlo, spremere le olive, hanno ceduto davanti a quel tronco nodoso: era un vecchio amico che suonava, forse non voleva morire. [...] Quella mattina di marzo, vicino a Manduria, io in qualità di ispettore agrario presso il Mipaaf e Antonino in veste di botanico, con notevoli competenze in entomopatologia, fummo tra i primi a vedere le piante infette a causa del batterio di Xylella fastidiosa. Antonino disse: - È un disastro se perdiamo l'olivo. Non perdiamo solo una pianta, perdiamo la democrazia. - Non ho capito, professore, - fece un mio collega. - L'olivo, - disse Antonino, - è il risultato di uno splendido ma contorto adattamento, tra profondità e superficie, tra esterno e interno. Per questo suo sforzo, - aggiunse, dopo una lunga pausa, - ricorda un po' la complessità della democrazia. Poi si mise a fare una piccola lezione sull'olivo. Una pianta che racchiude simboli ancestrali: forza, coraggio, intelligenza, fedeltà. | << | < | > | >> |Pagina 155Come è avvenuto il passaggio dalla caccia e dalla raccolta all'agricoltura? Ci è convenuto? Le teorie abbondano, ma nessuna sembra risolutiva. C'è chi dice che i cacciatori-raccoglitori erano cosí bravi a cacciare e raccogliere che hanno fatto fuori gran parte della macro e microfauna, quindi bisognava pensare a un piano B, e i cereali erano li: enormi distese di cereali selvatici come quelle che attraversavo io nel 1973. Oppure c'entra la crescita demografica. Una donna stanziale può permettersi piú figli, non deve camminare per lunghe distanze (proteggendo i piccoli), e aspettare che il bambino sia autonomo (tre-quattro anni) per avere un secondo figlio. Quindi piú figli per gli stanziali, piú bocche da sfamare, piú semi da piantare ed ecco che, piano piano, abbiamo adottato alcune pratiche agricole. Anche se, pare, la densità demografica è aumentata, sí, ma dopo l'adozione dell'agricoltura. O è stata la religione. Vari riti si svolgevano dopo aver raccolto i cereali, cosí si sarebbe sviluppata l'usanza di piantare semi, raccogliere frutti e ringraziare gli dèi per rabbonirli. O c'entra la birra? Arrivata per un caso, la fermentazione occasionale della granella, si era scoperta buona, inebriante e allora, dài, prepariamo 'sto letto di semina per non perdere la bevanda. Altri parlano di trappola: le risorse naturali sono inaffidabili, perché non piantare qualche seme e garantirsi una scorta? Pianta oggi e pianta domani, a un certo punto si oltrepassa la soglia della dipendenza. Da allora non si poteva piú tornare indietro, e visto che eravamo in trappola, abbiamo fatto questo patto con i cereali, ci siamo raccontati una storia: noi ti piantiamo e tu ci sfami. Noi curiamo te e tu curi noi. Per convenzione si è stabilita la data dell'inizio della rivoluzione agricola intorno a diecimila anni fa. Ma è ovvio, non è avvenuto all'improvviso, nella sostanza quella data è una media. Alcuni siti agricoli che evidenziano la coltivazione del grano sono di molto precedenti quella data (trenta, ventimila anni fa). Di sicuro c'entra la fine dell'ultima glaciazione, avvenuta dodicimila anni fa. Quindi un aumento delle temperature medie di 4°C nell'arco di duemila anni, Optimum climatico che favori la diffusione dei cereali e la nascita dell'agricoltura. All'inizio c'era il farro selvatico (piccolo e medio), e anche l'orzo selvatico (non tanto diverso dalle distese sotto casa mia). Le graminacee crescevano in abbondanza e fornivano un discreto raccolto. Per un lungo periodo di tempo, tra l'11000 e l'8000 a.C. questo abbiamo fatto: chinato la schiena, cercato per terra, raccolto i semi del farro selvatico.
Poi tra il 7300 e il 5500 a.C. è successa una cosa, ed è lí
che si è concretizzato il patto tra uomo e cereale, un patto - mi sono detto
leggendo molti studi al riguardo - che devo cercare di riassumere perché è
questo il cuore del saggio che voglio assolutamente scrivere.
In questi ultimi anni ho partecipato a molti convegni e dibattiti sull'agricoltura. A un certo punto, mentre parlavo di questa o quella pratica, c'era sempre qualcuno che si alzava e gridava: - È innaturale -. E io gridavo appresso: - È l'agricoltura a essere innaturale -. Quando invece ero di buon umore, molto raramente, cercavo di spiegare il patto tra uomo e grano: se capiamo quel deal, allora possiamo definire meglio cosa è naturale e cosa non lo è. I cereali a maturità fanno quello che fanno tutte le piante: disperdono il seme. Lo possono fare grazie al rachide fragile, che si spezza e fa cadere per terra la cariosside. Per la pianta è fondamentale: se non si spezza, il seme non cade; se non cade, non si riproduce. Ma pensate al lavoro dei nostri avi, chini faccia a terra per raccogliere i semi. Col tempo qualcuno deve aver notato una varietà mutata, di quelle che non perdevano il seme. Quindi, quella pianta non si sarebbe mai riprodotta se non l'avessimo piantata: da lí il patto. Io ti pianto ogni stagione e ti garantisco la sopravvivenza, tu, a tua volta, non mi fai piú chinare per terra a raccogliere il seme e mi garantisci il cibo. Era, suppergiú, tra il 7300 e il 5500 a.C. quando, appunto, previo patto, è comparso il farro piccolo e medio con rachide rigido. A patto siglato, dopo un rodaggio fisiologico, siamo diventati definitivamente agricoltori (5500-4200 a.C.) e dall'Asia centrale ci siamo spostati in Europa meridionale e in Egitto. Pian piano abbiamo integrato o combattuto le comunità di cacciatori-raccoglitori e da lí il mondo è cambiato - tra l'altro, l'ascesa dei frumenti domesticati all'inizio è stata rallentata dal continuo, costante flusso di forme selvatiche che crescevano vicino a quelle domesticate. I primi agricoltori non praticavano forme di selezione drastica, probabilmente, e per molto tempo le varietà selvatiche e quelle coltivate non si sono fatte la guerra, si parlavano. Ma ci è convenuto? Cioè, spèzzati la schiena per pulire i campi, strappa le erbacce, togli le pietre, devia i torrenti per innaffiare il grano. E per cosa? Mangiare meglio, vivere di piú? Nemmeno per idea. Noi oggi guardiamo i cacciatori-raccoglitori con aristocratico disprezzo, gente che faceva una vitaccia o al contrario vivacchiava con scarsa considerazione di sé, tra caccia e fame cronica. Ma sbagliamo: non stavano cosí male, almeno rispetto ai primi agricoltori. Studiando i resti fossili dei cacciatori-raccoglitori e comparandoli con quelli degli agricoltori, si è visto che i cacciatori-raccoglitori vivevano piú a lungo, la loro aspettativa di vita arrivava fino a ventisei anni, mentre per i protoagricoltori non andava oltre i diciannove. E l'altezza? Fino a 1,75 metri per i maschi e 1,65 per le donne, nel caso dei cacciatori-raccoglitori. Mentre, se andiamo a vedere gli scheletri rinvenuti in Turchia e in Grecia, diciamo tremila anni dopo l'adozione dell'agricoltura, la media crolla, stiamo a 1,60 per i maschi e 1,50 per le donne: anche i profeti della mezzaluna fertile erano bassi. E ci credo, mentre i cacciatori-raccoglitori dedicavano al lavoro dalle dodici alle diciannove ore alla settimana, avevano una dieta varia, mangiavano ancora settantacinque specie di piante diverse (basta guardare alle attuali popolazioni di cacciatori-raccoglitori), gli agricoltori, invece, avevano ridotto la dieta a pochi alimenti e sviluppato un sacco di malattie, quasi assenti nei cacciatori-raccoglitori: rachitismo (poca vitamina D), scorbuto (assenza di vitamina C) e anemia (poco ferro). Consideriamo poi la stanzialità. Coltivare grano significa star fermi. Da lí è nata questa nostra abitudine di stare tutti insieme, un vizio che non ci siamo mai levati, tutti vicini vicini, attaccati (già, il problema del prossimo è la sua eccessiva prossimità), ci si sono messi pure gli animali, e vai con lebbra, tubercolosi, malaria e altre malattie infettive. La carie, per esempio, prima non c'era. Gli agricoltori mangiavano tanto amido, l'amido si trasforma in zucchero ed ecco la carie. E le donne? Prima cacciavano, infatti bisogna parlare di cacciatrici raccoglitrici, ma poi? Artrite, infiammazioni alle giunture, deformità alle dita dei piedi e alla zona lombare: per forza, ogni giorno a macinare a mano la granella. E le guerre per difendere il surplus di produzione o per conquistare altre terre perché la produzione non era sufficiente? Tutto comincia col patto. La nostra natura cambia col grano. Questa domesticazione ha creato indipendenza o dipendenza? Senz'altro ci siamo diffusi. Ai tempi dei cacciatori-raccoglitori eravamo, secondo alcuni calcoli ottimisti, dieci milioni di persone, secondo altri cinque milioni, fatto sta che il sistema caccia e raccolta poteva sostenere poche persone, insomma eravamo scimmie di periferia, abitavamo tutti a Torre Angela o a Marianella, e grazie alla domesticazione siamo diventati cittadini, siamo tanti e ovunque. Un vantaggio per me, perché ci sono, uno svantaggio per il mio prossimo perché vorrebbe che non ci fossi, soprattutto quando nei convegni tendo a litigare. Altro vantaggio? Siamo più sazi, e questo sí che è un beneficio. Abbiamo smesso di guardare per terra e dunque alzato gli occhi al cielo: tutte le prime comunità agricole, quelle che hanno domesticato alcune colture ricche di amido, appunto, gli Assiri, i Sumeri e i Babilonesi in Mesopotamia, quelle cinesi, i Maya e gli Inca in America centrale, sono state anche le prime comunità astronomiche. Però pure uno svantaggio: piú tecnologia piú rimedi, piú rimedi meno mortalità, meno mortalità ed eccoci a otto miliardi. Un patto ambiguo, non c'è niente da fare. Del resto, dal punto di vista simbolico, fino a poco tempo fa i contadini credevano che il grano ospitasse uno spirito, che poteva essere benefico o malefico. Lo raccontano un sacco di miti. Se riesco a scrivere questo saggio, mi dicevo, posso ragionare sulla storia dell'umanità, sul cammino dalla periferia che abitavamo e sul centro che oggi occupiamo, sul cielo che guardiamo, sulla bellezza e sulla conquista del cielo.
Mi ero quasi convinto, poi durante un dibattito uno ha
detto che non so quale pratica agricola è innaturale e io, invece di raccontare
del patto col grano e delle conseguenze,
mi sono innervosito e alla fine ho pensato: l'agricoltura è
la pratica piú innaturale che ci sia, perché se non l'avessimo inventata la
popolazione di certo sarebbe rimasta stabile, attorno a cinque-dieci milioni di
persone in tutto il mondo, e io questo tizio che mi contesta non l'avrei mai
incontrato.
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