Copertina
Autore Pier Paolo Pasolini
Titolo Ragazzi di vita
EdizioneGarzanti, Milano, 2005 [1955], Nuova biblioteca 25 , pag. 248, cop.fle., dim. 142x213x22 mm , Isbn 978-88-11-68328-5
LettoreGiorgia Pezzali, 2006
Classe narrativa italiana
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Pagina 7

1 Il Ferrobedò



                            E sotto er monumento de Mazzini...
                                              Canzone popolare



Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s'era alzato già alle cinque; ma mentre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare. Con una compagnia di maschi uguali a lui, tutti vestiti di bianco, scese giù alla chiesa della Divina Provvidenza, dove alle nove Don Pizzuto gli fece la comunione e alle undici il Vescovo lo cresimò. Il Riccetto però aveva una gran prescia di tagliare: da Monteverde giù alla stazione di Trastevere non si sentiva che un solo continuo rumore di macchine. Si sentivano i clacson e i motori che sprangavano su per le salite e le curve, empiendo la periferia già bruciata dal sole della prima mattina con un rombo assordante. Appena finito il sermoncino del Vescovo, Don Pizzuto e due tre chierici giovani portarono i ragazzi nel cortile del ricreatorio per fare le fotografie: il Vescovo camminava fra loro benedicendo i familiari dei ragazzi che s'inginocchiavano al suo passaggio. Il Riccetto si sentiva rodere, lì in mezzo, e si decise a piantare tutti: uscì per la chiesa vuota, ma sulla porta incontrò il compare che gli disse: «Aòh, addò vai?» «A casa vado,» fece il Riccetto, «tengo fame.» «Vie' a casa mia, no, a fijo de na mignotta,» gli gridò dietro il compare, «che ce sta er pranzo.» Ma il Riccetto non lo filò per niente e corse via sull'asfalto che bolliva al sole. Tutta Roma era un solo rombo: solo lì su in alto, c'era silenzio, ma era carico come una mina. Il Riccetto s'andò a cambiare.

Da Monteverde Vecchio ai Granatieri la strada è corta: basta passare il Prato, e tagliare tra le palazzine in costruzione intorno al viale dei Quattro Venti: valanghe d'immondezza, case non ancora finite e già in rovina, grandi sterri fangosi, scarpate piene di zozzeria. Via Abate Ugone era a due passi. La folla giù dalle stradine quiete e asfaltate di Monteverde Vecchio, scendeva tutta in direzione dei Grattacieli: già si vedevano anche i camion, colonne senza fine, miste a camionette, motociclette, autoblinde. Il Riccetto s'imbarcò tra la folla che si buttava verso i magazzini.

Il Ferrobedò lì sotto era come un immenso cortile, una prateria recintata, infossata in una valletta, della grandezza di una piazza o d'un mercato di bestiame: lungo il recinto rettangolare s'aprivano delle porte: da una parte erano collocate delle casette regolari di legno, dall'altra i magazzini. Il Riccetto col branco di gente attraversò il Ferrobedò quant'era lungo, in mezzo alla folla urlante, e giunse davanti a una delle casette. Ma lì c'erano quattro Tedeschi che non lasciavano passare. Accosto la porta c'era un tavolino rovesciato: il Riccetto se l'incollò e corse verso l'uscita. Appena fuori incontrò un giovanotto che gli disse: «Che stai a fa?» «Me lo porto a casa, me lo porto,» rispose il Riccetto. «Vie' con me, a fesso, che s'annamo a prenne la robba più mejo.»

«Mo vengo,» disse il Riccetto. Buttò il tavolino e un altro che passava di lì se lo prese.

Col giovanotto rientrò nel Ferrobedò e si spinse nei magazzini: lì presero un sacco di canapetti. Poi il giovane disse: «Vie' qqua a incollà li chiodi.» Così tra i canapetti, i chiodi e altre cose, il Riccetto si fece cinque viaggi di andata e ritorno a Donna Olimpia. Il sole spaccava i sassi, nel pieno del dopopranzo, ma il Ferrobedò continuava a esser pieno di gente che faceva a gara coi camion lanciati giù per Trastevere, Porta Portese, il Mattatoio, San Paolo, a rintronare l'aria infuocata. Al ritorno dal quinto viaggio il Riccetto e il giovanotto videro presso al recinto, tra due casette, un cavallo col carro. S'accostarono per vedere se si poteva tentare il colpaccio. Nel frattempo il Riccetto aveva scoperto in una casetta un deposito di armi e s'era messo un mitra a tracolla e due pistole alla cintola. Così armato fino ai denti montò in groppa al cavallo.

Ma venne un Tedesco e li cacciò via.

Mentre che il Riccetto viaggiava coi sacchi di canapetti su e giù da Donna Olimpia ai magazzini, Marcello stava cogli altri maschi nel caseggiato al Buon Pastore. La vasca formicolava di ragazzi che si facevano il bagno schiamazzando. Sui prati sporchi tutt'intorno altri giocavano con una palla.

Agnolo chiese: «Addò sta er Riccetto?»

«È ito a fasse 'a comunione, è ito,» gridò Marcello.

«L'animaccia sua!» disse Agnolo.

«Mo starà a pranzo dar compare suo,» aggiunse Marcello.

Lì su alla vasca del Buon Pastore non si sapeva ancora niente. Il sole batteva in silenzio sulla Madonna del Riposo, Casaletto e, dietro, Primavalle. Quando tornarono dal bagno passarono per il Prato, dove c'era un campo tedesco.

Essi si misero a osservare, ma passò di lì una motocicletta con la carrozzella, e il Tedesco sulla carrozzella urlò ai maschi: «Rausch, zona infetta.» Lì presso ci stava l'Ospedale Militare. «E a noi che ce frega?» gridò Marcello: la motocicletta intanto aveva rallentato, il Tedesco saltò giù dalla carrozzella e diede a Marcello una pizza che lo fece rivoltare dall'altra parte. Con la bocca tutta gonfia Marcello si voltò come una serpe e sbroccolando con i compagni giù per la scarpata, gli fece una pernacchia: nel fugge che fecero, ridendo e urlando, arrivarono diretti fino davanti al Casermone. Lì incontrarono degli altri compagni. «E che state a ffà?» dissero questi, tutti sporchi e sciammannati.

«Perché?» chiese Agnolo, «che c'è da fà?» «Annate ar Ferrobedò, si volete vede quarcosa.» Quelli c'andarono di fretta e appena arrivati si diressero subito in mezzo alla caciara verso l'officina meccanica. «Smontamo er motore,» gridò Agnolo. Marcello invece uscì dall'officina meccanica e si trovò solo in mezzo alla baraonda, davanti alla buca del catrame. Stava per caderci dentro, e affogarci come un indiano nelle sabbie mobili, quando fu fermato da uno strillo: «A Marcè, bada, a Marcè!» Era quel fijo de na mignotta del Riccetto con degli altri amici. Così andò in giro con loro. Entrarono in un magazzino e fecero man bassa di barattoli di grasso, di cinghie di torni e di ferraccio. Marcello ne portò a casa mezzo quintale e gettò la merce in un cortiletto, dove la madre non la potesse vedere subito. Era dal mattino che non rincasava: la madre lo menò. «Addò sei ito, disgrazziato», gli gridava crocchiandolo. «So' ito a famme er bagno, so' ito,» diceva Marcello ch'era un po' storcinato, e magro come un grillo, cercando di parare i colpi. Poi venne il fratello più grosso e vide nel cortiletto il deposito. «Fregnone,» gli gridò, «sta a rubbà sta mercanzia, sto fijo de na mignotta.» Così Marcello ridiscese al Ferrobedò col fratello, e questa volta portarono via da un vagone copertoni di automobile. Scendeva già la sera e il sole era più caldo che mai: già il Ferrobedò era più affollato d'una fiera, non ci si poteva più muovere. Ogni tanto qualcuno gridava: «Fuggi, fuggi, ce stanno li Tedeschi», per fare scappare gli altri e rubare tutto da solo.

Il giorno dopo il Riccetto e Marcello, che c'avevano preso gusto, scesero insieme alla Caciara, i Mercati Generali, che erano chiusi. Tutt'intorno girava una gran massa di gente e dei Tedeschi, che camminavano avanti e indietro sparando in aria. Ma più che i Tedeschi a impedire l'entrata e a rompere il c... erano gli Apai. La folla però cresceva sempre più, premeva contro i cancelli, baccajava, urlava, diceva i morti. Cominciò l'attacco e anche quei fetenti degli Italiani lasciarono perdere. Le strade intorno ai Mercati erano nere di gente, i Mercati vuoti come un cimitero, sotto un sole che li sgretolava: appena aperti i cancelli, si riempirono in un momento.

Ai Mercati Generali non c'era niente, manco un torso di cavolo. La folla si mise a girare pei magazzini, sotto le tettoie, negli spacci, ché non si voleva rassegnare a restare a mani vuote. Finalmente un gruppo di giovanotti scoprì una cantina che pareva piena: dalle inferriate si vedevano dei mucchi di copertoni e di tubolari, tele incerate, teloni, e, nelle scansie, delle forme di formaggio. La voce si sparse subito: cinque o seicento persone si scagliarono dietro il gruppo dei primi. La porta fu sfondata, e tutti si buttarono dentro, schiacciandosi. Il Riccetto e Marcello erano in mezzo. Vennero ingoiati per il risucchio della folla, quasi senza toccar terra coi piedi, attraverso la porta. Si scendeva giù per una scala a chiocciola: la folla di dietro spingeva, e delle donne urlavano mezze soffocate. La scaletta a chiocciola straboccava di gente. Una ringhiera di ferro, sottile, cedette, si spaccò, e una donna cadde giù urlando e sbatté la testa in fondo contro uno scalino. Quelli rimasti fuori continuavano a spingere. «È morta,» gridò un uomo in fondo alla cantina. «È morta,» si misero a strillare spaventate delle donne; non era possibile né entrare né uscire. Marcello continuava a scendere gli scalini. In fondo fece un salto scavalcando il cadavere, si precipitò dentro la cantina e riempì di copertoni la sporta insieme agli altri giovani che prendevano tutto quello che potevano. Il Riccetto era scomparso, forse era riuscito fuori. La folla si era dispersa. Marcello tornò a scavalcare la donna morta e corse verso casa.

Al Ponte Bianco c'era la milizia. Lo fermarono e gli presero la roba. Ma lui non si allontanò da lì e si mise in disparte avvilito con la sporta vuota. Dalla Caciara poco dopo salì al Ponte Bianco pure il Riccetto. «Mbè?» gli fece. «M'ero preso li copertoni e mo me l'hanno fregati,» rispose Marcello con la faccia nera. «Ma che stanno a fà sti cojoni, ma perché nun se fanno li c... sua!» gridò il Riccetto.

Dietro il Ponte Bianco non c'erano case ma tutta una immensa area da costruzione, in fondo alla quale, attorno al solco del viale dei Quattro Venti, profondo come un torrente, si stendeva calcinante Monteverde. Il Riccetto e Marcello si sedettero sotto il sole su un prato lì presso, nero e spelato, a guardare gli Apai che fregavano la gente. Dopo un po' però giunse al Ponte il gruppo dei giovanotti coi sacchi pieni di formaggi. Gli Apai fecero per fermarli, ma quelli li presero di petto, cominciarono a litigare di brutto con certe facce che gli Apai pensarono ch'era meglio lasciar perdere: lasciarono ai giovanotti la roba loro, e restituirono pure a Marcello e agli altri che s'erano accostati di brutto quello che gli avevano fregato. Saltando dalla soddisfazione e facendo i calcoli di quello che c'avrebbero guadagnato il Riccetto e Marcello presero la strada di Donna Olimpia, e pure tutti gli altri si dispersero. Al Ponte Bianco, con gli Apai, restò solo l'odore della zozzeria riscaldata dal sole.

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4 Ragazzi di vita



                            Il popolo è un grande selvaggio
                            nel seno della società.
                                                 L. Tolstoj



Amerigo era ubbriaco. «Scegnemo qua ar Forte,» fece al Caciotta, che l'ascoltava deferente. «Te presento n'amico mio,» disse poi questi, tanto per dire qualcosa. Amerigo alzò la mano come se fosse di piombo verso il Riccetto; teneva il bavero della giacca rialzato, la faccia era verde sotto i ricci impiastricciati di polvere, e i grossi occhi marroni che fissavano invetriti. Strinse la mano forte, senza parere, come se non ci fosse il minimo dubbio, tra loro, ch'erano tutt'e due dei dritti. Ma subito si scordò del Riccetto, e voltato verso il Caciotta disse: «Ha' ccapito?» Faceva il ragazzo serio, ma però il Caciotta, quello che intanto capiva era che con lui ci si poteva scherzare poco: da Farfarelli un giorno l'aveva visto che sollevava sei sedie legate con una mano, e ne aveva gonfiato a cazzotti e mandato all'ospedale più d'uno a Pietralata. «Ch'hai fatto?» disse il Caciotta, come da pari a pari, tra malandrini. «Mo parlamo,» fece Amerigo, tirandosi su meglio il bavero della giacca.

L'autobus si fermò al Forte di Pietralata; dal bar ancora aperto un riflesso di luce radeva la crosta d'asfalto della Tiburtina. Amerigo saltò giù dal predellino molleggiandosi sulle gambe, con un passetto da palestra, senza sfilare le mani dalla saccoccia dei calzoni. «Namo,» disse il Caciotta al Riccetto, che non si capacitava della piega che stavano prendendo le cose, e gli andarono appresso. «Se famo sto pezzo a ppiedi,» disse Amerigo incamminandosi, davanti alla caserma dei bersaglieri, verso Tiburtino. Come furono un po' più giù, strinse il Caciotta per un gomito; camminava mettendo un piede davanti all'altro con una faccia così cattiva che in qualsiasi parte del corpo uno lo toccava pareva che dovesse farsi male. Strascicava i passi, come un bocchissiere un po' groncio e invece, in quella camminata cascante, si vedeva ch'era pronto e svelto peggio d'una bestia. Col Caciotta e il Riccetto continuava a fare il ragazzo serio, che non pensa manco per niente alla forza che c'ha e alla reputazione di meglio guappo di Pietralata: aveva l'aria complice di uno che sta a trattare un affare con una persona pari a lui, che non si giobba. «Si venghi co' me,» disse al Caciotta, «poi te trovi contento.» «Indovve?» fece il Caciotta. Amerigo accennò con la testa avanti, verso Tiburtino. «Qqua,» fece, «da Fileni.» Il Caciotta non aveva sentito mai sto nome. Stette zitto. Amerigo continuò, facendo finta di credere che l'altro avesse capito: «Oggi è sabbato, annamo calli,» disse con voce spenta e un po' da donna, forse come sua madre, e sempre più giallo in faccia. «E nnamoce,» fece il Caciotta alla malandrina; tanto non c'era altro da fare, e lui ormai la prendeva come un divertimento.

Il Riccetto invece se ne stava indietro con gli occhi storti. Come furono all'imbocco di Tiburtino III disse: «Ve saluto, a moretti, io speso.» «Addò vai?» fece il Caciotta fermandosi. Pure Amerigo s'era fermato e guardava di traverso con le mani mezze infilate in saccoccia. «A dormì, li mortacci tua. Tengo un zonno che si fo' ancora du passi spiro!»

Amerigo gli si avvicinò, guardandolo con gli occhi che parevano insanguinati, come ridendo; rideva per la ragione che non era possibile fare qualche cosa contro quello che lui decideva.

«A moro,» disse a voce bassa e ancora calma, persuasiva, «già te 'ho detto, si è che venghi co' me, poi me devi da ringrazzià... Tu me nun me conosci...» Il Caciotta che lo conosceva guardava divertito, da una parte. Tanto sapeva che il Riccetto sarebbe andato con loro da questo Fileni.

«Tengo sonno te sto a ddì,» fece il Riccetto.

«Ma quale sonno, quale sonno,» fece Amerigo, ridendo sotto la fronte tutta corrugata, allegro sempre per quel pensiero che era assurdo non seguire i suoi consigli, «e nnamo!» Si mise una mano sul cuore: «Er Caciotta qqua te 'o può ddì, ve' Caciò? Io sso uno che nissuno può ddì niente de me, e si fo una promessa, a morè, stacce, che tutto ha d'annà come che dico io... Pecchè? 'N semo tutti amichi, qqua? Io te fo un favore, pe modo de ddì, e n'antra vorta tu 'o ffai a me, che, 'un se dovemo da dà na mano uno co l'antro?» S'era fatto solenne: a non stare con lui c'era da far capire che s'era balordi; ma al Riccetto gli rodeva quell'affare lì tra Amerigo e il Caciotta, che gli pareva da naso. Il Caciotta gurdava con una strana aria: «Fa un po' come te pare,» pareva che dicesse, «io nun me impiccio.» Il Riccetto alzò le spalle. «E chi te sta a ddì niente?» disse a Amerigo, «ch'hai raggione te: andatece te cor Caciotta in sto posto, che, c'avete bisogno de me c'avete?» Ma Amerigo non sapeva chi dei due tenesse in saccoccia la grana. Guardò il Riccetto con aria paziente e molto seria. Gli si fece sotto fino a mescolare il suo fiato che sapeva di vino con quello del Riccetto. Ma in quel momento si disegnarono due ombre, ben conosciute, contro l'ombra giallognola dei primi lotti di Tiburtino, che venivano giù verso la fontanella dove s'erano fermati.

«Li carubba,» fece il Caciotta. «Me conosciono,» continuò, «so' quelli che me volevano carcerà 'artra sera ar cinema de Tibburtino!».

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