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| << | < | > | >> |IndiceIX Introduzione ESTETICA DEL VUOTO I. Le fonti 5 Il vuoto nel taoismo 37 Il vuoto nel buddhismo II. Le forme 77 Il vuoto nel chanoyu 90 Il vuoto nel sumie 107 Il vuoto nello haiku 113 Il vuoto nell'ikebana 121 Il vuoto nei karesansui 127 Il vuoto nel teatro no |
| << | < | > | >> |Pagina IX«Estetica del vuoto» è denominazione problematica. Per poter cominciare ad entrare nel nodo di problemi che essa racchiude si potrebbe in prima approssimazione tentare di identificare l'estetica del vuoto con l'estetica orientale. Ma questo tentativo, più che semplificare, complicherebbe ulteriormente la questione, perché la stessa denominazione «estetica orientale» costituisce problema. Infatti non si può parlare di estetica orientale per il fatto, del tutto evidente, che «Oriente» designa una varietà di regioni, culture, tradizioni assai diverse, che comprende le tre grandi civiltà dell'Islam, dell'India e della Cina, ma anche quelle meno ampie, benché non meno importanti, del Giappone, della Corea, del Tibet, della Birmania e della Thailandia, ciascuna delle quali possiede una propria lingua, proprie tradizioni artistiche, nonché propri canoni estetici. Non solo: all'interno di ciascuna di queste civiltà si sono sviluppate vicende culturali e tradizioni artistiche tra loro assai diverse: basti ricordare a questo proposito l'immensa varietà di produzioni artistiche e di scuole estetiche sorte e sviluppatesi lungo la storia della sola civiltà indiana. Quando si parla di «Oriente» si dovrebbe quindi sempre specificare di quale «Oriente» si sta parlando e ci si sta occupando. Per quel che riguarda il presente lavoro, si intende soffermare l'attenzione su alcun aspetti e significati estetici presenti nella civiltà cinese e in quella giapponese. Tuttavia questa che, relativamente all'orizzonte denotato dal termine «Oriente» apparecome una delimitazione, a sua volta rappresenta in realtà un orizzonte talmente ampio da dover essere perlustrato da un'enorme schiera di opere generali e di lavori monografici. Ciò che indica l'ulteriore, necessaria, delimitazione della nostra ricerca è dato dagli aspetti aspetti e dai significati estetici che, sorti nell'ambito del taoismo classico, si sono in seguito mediati col buddhismo ed hanno concentrato il loro sviluppo nella scuola del buddhismo chan (in Cina) e zen (in Giappone). In secondo luogo non si può parlare, a rigor di termini, di estetica orientale perché, almeno nell'ambito della civiltà cinese e di quella giapponese, non si è mai avuta, come in Occidente, una disciplina spesso dotata anche di pretese scientifiche - chiamata «estetica». Solo di recente, in seguito a massicci processi di occidentalizzazione, si è avuto qualche tentativo di lavori definibili come contributi di «estetica» nel senso usato dalla tradizione filosofica occidentale. In generale si tratta tuttavia di riprese e di rielaborazioni di temi e problemi nati e cresciuti all'interno di questa tradizione, con particolare riguardo alla tradizione filosofica tedesca e con specifici riferimenti al pensiero di Kant, di Husserl e di Heidegger. Vi sono tuttavia ragioni più profonde per le quali l'estetica come specifica disciplina filosofica non è sorta all'interno della civiltà cinese e di quella giapponese. È da ricordare prima di tutto e in generale che entrambe queste civiltà non hanno mai posto né sviluppato quella differenza radicale tra teoria e pratica che ha invece segnato - in negativo e in positivo - pressoché tutta la cultura occidentale: per il pensiero cinese e, poi, per quello giapponese, ogni idea è già un'azione, ed ogni azione possiede in sé energia e valore spirituali. Parlare dunque di estetica nel senso di «teoria» o di «scienza del bello» non ha in questi orizzonti di pensiero alcun significato, perché in essi non è ritenuta reale una situazione in cui vi sia, da una parte, una bellezza da contemplare o da creare e, dall'altra, un soggetto che la contempla o la crea. Anzi, per il pensiero cinese e per quello giapponese, pragmatici e talvolta addirittura empirici, mai comunque metafisici, «bellezza» in generale come idea non esiste. Per essi possono esistere oggetti e situazioni, fatti o eventi connotabili, ma mai definibili, come belli a seconda del momento e delle circostanze: tuttavia anche questa denominazione «belli», benché relativa, mantiene ancora qualcosa di astratto come se un'unica categoria universale, quella di bellezza, fosse fatta valere di volta in volta a seconda dei diversi contesti e delle diverse occasioni. In realtà, per la cultura cinese e giapponese «bello» può essere per esempio anche qualcosa di oscuro, di malinconico e di indefinito - come nel caso dello yugen - senza che per questo si possa concludere che la bellezza coincide con l'oscurità, la malinconia e l'indefinito, e di conseguenza senza che si possa passare a formulare un'estetica della malinconia o dell'indefinito. Ciò significa in generale che, a differenza di quanto è avvenuto lungo quasi tutta la storia del pensiero occidentale, in Cina e in Giappone - almeno per quanto riguarda le tradizioni qui considerate - non si è mai sentito il bisogno di «sistemare» le esperienze in qualche teoria e, di riflesso, non si è mai avvertita la necessità di sistemare in qualche teoria estetica la pluralità delle esperienze estetiche. Questa assenza di teoria non è stata affatto considerata come una mancanza di teoria o come incapacità cronica di pensare in termini astratti e in forma sistematica e metodica: al contrario, si è sempre ritenuto che proprio i tentativi di elaborare teorie finiscano per limitare le esperienze abbassandone la qualità e diminuendone l'intensità. Per questo nello Zhuangzi è detto: «quando regna la virtù perfetta [...] gli uomini si amano l'un l'altro senza conoscere l'ideale dell'amore umanitario». Per questo nella Raccolta della Roccia Blu, crestomazia delle scritture zen, è detto: «Quando i sentimenti di giudizio della coscienza intellettuale terminano, solo allora potete vedere fino in fondo. E quando vedrete, allora, come nei tempi antichi, il cielo è cielo, la terra è terra, le montagne sono montagne, i fiumi sono fiumi». Non è qui il caso di indugiare a stabilire se abbia avuto ragione Hegel a considerare il pensiero orientale una forma di pensiero infantile, non ancora pienamente sviluppato, o se abbiano avuto ragione molti pensatori cinesi e giapponesi a considerare la passione per la teoria una malattia infantile che colpisce la vita dello spirito spesso con esiti anche letali. Di fatto il pensiero orientale, almeno per quanto riguarda quelle sue espressioni sedimentate nei testi taoisti classici e nei testi prodotti dalla tradizione del buddhismo chan e zen, mostra una radicata e costante diffidenza nei confronti delle pretese avanzate dall'impulso a fare teorie, e manifesta invece un'altrettanto radicata e costante predilezione per tutti quei modi e tutte quelle circostanze in grado di produrre un rapporto diretto con l'esperienza, privo di mediazioni intellettuali e culturali. Il rapporto con la realtà è quindi preferito al rapporto con i concetti, o almeno con quei concetti che pretendono di sostituirsi alla realtà. Questo tipo di rapporto, almeno per quanto riguarda la civiltà giapponese, ci sembra sia stato efficacemente messo a fuoco da uno dei maggiori esperti italiani di cultura giapponese: La civiltà giapponese è un ricettacolo di mezzi toni e sfumature, di spazi vuoti che non vanno subito colmati ma goduti come sono, di un'infinità di arti che hanno come scopo non il prodotto estetico ma l'atto che arricchisce il rapporto. Rapporto con le persone, rapporto con la natura, rapporto con le cose. In questa prospettiva, dunque, taoismo e buddhismo chan e zen non possono essere assunti e fatti valere come teorie o dottrine dalle quali vengano dedotte o alle quali vengano ricondotte particolari forme di esperienza estetica. Per vedere il nesso che li lega con alcune particulari forme di esperienza estetica è necessario abbandonare i tradizionali sentieri tracciati dai procedimenti di deduzione e induzione ed è necessario trovare la strada che conduca al nucleo centrale del taoismo e del buddhismo chan e zen, dal quale sorge e si irradia l'energia che genera e sviluppa tali forme di esperienza estetica. Questo nucleo centrale è dato dal vuoto. Non dal concetto di vuoto, ma dall' esperienza del vuoto. Ciò significa che alla base delle attività che accompagnano i processi formativi di alcune arti e che interessano la fruizione estetica delle forme da esse prodotte, non sta una teoria del vuoto, ma un'esperienza del vuoto: esperienza che è ottenibile solo mediante la pratica di un particolare tipo di meditazione. | << | < | > | >> |Pagina 5Il più celebre e chiaro riferimento al vuoto che la tradizione taoista ci ha insegnato è quello contenuto al capitolo XI del Daodejing: Si ha un bel riunire trenta raggi in un mozzo, l'utilità della vettura dipende da ciò che non c'è. Si ha un bel lavorare l'argilla per fare vasellame, l'utilità del vasellame dipende da ciò che non c'è. Si ha un bell'aprire porte e finestre per fare una casa, l'utilità della casa dipende da ciò che non c'è. Così, traendo partito da ciò che è, si utilizza quello che non c'è. | << | < | > | >> |Pagina 12Il problema del vuoto è affrontato dal taoismo classico non solo in termini di spazio, ma anche in termini di tempo: «Esaminando i pieni e i vuoti di questo mondo, la misura degli esseri è infinita; il loro tempo non ha termine; la loro condizione non ha permanenza; il loro principio e la loro fine non hanno durata». Ciò significa, evidentemente, che ogni cosa, sia essa un ente o un fatto culturale, essendo intessuta ed imbevuta di tempo, si consuma. Tuttavia la questione è più complessa di quanto questa prima ed elementare spiegazione possa far pensare. Innanzitutto è da ricordare che, come il vuoto spaziale non è pura assenza di spazio né spazialità assoluta, così, nel caso della temporalità, il vuoto temporale non è semplice assenza di tempo né temporalità assoluta, cioè tempo indefinito e indeterminato. Il vuoto temporale, come quello spaziale, ha una funzione dialettica: come lo spazio vuoto si dà solo in rapporto allo spazio pieno e viceversa, così il tempo vuoto, ossia quello che si potrebbe chiamare «tempo assente» - il quale si determina come «già stato» (passato) e come «non ancora» (futuro) - si dà solo in rapporto al tempo presente, e viceversa. Inoltre: come il vuoto spaziale è «trascendentale» perché interno a ciascuna cosa particolare ma anche perché funge da condizione di possibilità per la dislocazione di ogni cosa particolare, così pure il vuoto temporale, il tempo dell'«assenza», è trascendentale sia nel senso che appartiene a ciascuna cosa particolare, ma anche nel senso che è condizione di possibilità per la durata di ogni cosa particolare.| << | < | > | >> |Pagina 19«Egli pratica il Non-agire, e in questo caso non c'è nulla che non sia ben governato»; pertanto se, in generale, il non-agire del Dao ha conseguenze di carattere cosmologico perché fa sì che ogni cosa spontaneamente si faccia, il particolare non-agire del saggio ha conseguenze di carattere etico e politico, perché fa sì che ogni agire spontaneamente si compia: «Perciò un Santo ha detto: "Se io pratico il Non-agire, il popolo si trasforma da solo. Se io amo la quiete, il popolo si rettifica da solo. Se io mi astengo dall'attività, il popolo si arricchisce da solo. Se io sono senza desideri, il popolo tornerà da solo alla semplicità"». Alla Via del Cielo, al Dao universale la cui azione spontanea è «di non lottare e nondimeno saper vincere», corrisponde la particolare via (dao) del saggio che «sostiene il corso naturale dei diecimila esseri senza osare agire»; ma, per ottenere questo, è necessario che il saggio faccia il vuoto dentro di sé: «Colui che si applica allo studio aumenta ogni giorno. Colui che pratica la Via diminuisce ogni giorno. Diminuendo sempre di più, si arriva al Non-agire. Non agendo, non esiste niente che non si faccia». In definitiva ciò significa: per praticare il Dao è necessario il non agire, ma per praticare il non agire è necessario praticare il vuoto, far agire il vuoto.| << | < | > | >> |Pagina 37La funzione del vuoto nel buddhismo zen e nelle arti che ad esso, per via diretta o indiretta, si sono ispirate, è di primaria e fondamentale importanza, ma per poterne evidenziare le caratteristiche principali è necessario chiarire come e quanto il problema del vuoto sia presente ed agisca ancor prima nel buddhismo in generale. Il buddhismo, infatti, ben prima di coniugarsi, in Cina, con il taoismo, e di generare il buddhismo chan, aveva autonomamente sviluppato una serie di profonde riflessioni attorno all'idea e all'esperienza del vuoto. Il buddhismo chan in Cina e il suo equivalente zen in Giappone non faranno che focalizzare e far risaltare ai massimi livelli, soprattutto nella pratica e nelle arti, un aspetto già presente, e in modo rilevante, nell'insegnamento originale del Buddha e nei testi da esso derivati. Si potrebbe dire che la complessa serie di riflessioni che il buddhismo ha prodotto attorno al problema del vuoto è tutta condensata in questi brevi versi del Sutta Nipata: «Contempla il mondo come vacuità, o Mogharajan, sempre restando ammemorante» - così disse il Beato. Avendo distrutte la teoria di se stesso si giungerà a superare la morte; il dio della morte non vedrà colui che in tal modo contempli il mondo. È importante sottolineare in via preliminare che in questo passo, oltre al riferimento alla contemplazione del mondo come vacuità, vi sono anche altre due indicazioni che - come si vedrà più in particolare - sono decisive per comprendere il ruolo del vuoto nel buddhismo: da un lato, infatti, le parole «sempre restando rammemorante» alludono a quello stato di attenzione e di concentrazione che si ottiene nella pratica meditativa, e fissano in tal modo quel punto rilevante, come si è visto, anche per il taoismo - in base al quale la meditazione che produce il vuoto vale tanto e forse più di ogni teoria sul o del vuoto; dall'altro, il passo mette in rilievo che il cogliere il mondo come vacuità conduce al trionfo sulla morte o, almeno al trionfo sulla paura della morte: con ciò il buddhismo si presenta subito con una connotazione soteriologica più esplicita e radicale di quella taoista. Ai fini della nostra trattazione è ora di notevole importanza esplicitare i principali significati che si condensano in quel «contempla il mondo come vacuità». Tali significati vengono indicati, in forma più estesa, da un altro testo buddhista, il Majjhima Nikaya: Ecco, o monaco, un saputo nobile discepolo, sensibile a ciò che è nobile, sciente nella nobile dottrina, istruito nella nobile dottrina, sensibile a ciò che è santo, sciente nella santa dottrina, istruito nella santa dottrina, non considera la forma come se stesso, né se stesso come forma, né la forma in se stesso, né se stesso nella forma; non considera la sensazione come se stesso, né se stesso come sensazione, né la sensazione in se stesso, né se stesso nella sensazione; non considera la percezione come se stesso, né se stesso come percezione, né la percezione in se stesso, né se stesso nella percezione; non considera la concezione come se stesso, né se stesso come concezione, né la concezione in se stesso, né se stesso nella concezione; non considera la conscienza come se stesso, né se stesso come conscienza, né la conscienza in se stesso, né se stesso nella conscienza. Così dunque, o monaco, non sorge la credenza nella personalità. Ciò vuol dire, innanzitutto, che ogni forma materiale, così come ogni sensazione, ogni percezione ed ogni altro contenuto della coscienza, non ha natura propria: non si determina e non si definisce in modo autonomo come se possedesse un'identità ab-soluta, sciolta dal rapporto con ogni altro-da-sé. In altri termini: nessun elemento, sia fisico che psichico, sussiste in sé. Quest'idea della non-separatezza delle cose e dei fenomeni, così come dei contenuti della coscienza, è nei testi canonici buddhisti ribadita innumerevoli volte, ma trova la sua sistemazione compiuta nella teoria della coproduzione condizionata o della «originazione dipendente» (Pratityasamutpada, in sanscrito; Paticcasamuppada, in pali). | << | < | > | >> |Pagina 58Per ricordare l'importanza della pratica di meditazione nel buddhismo zen basta far presente che lo stesso termine «zen» è l'equivalente, in lingua giapponese, del termine cinese «chan», il quale a sua volta equivale al termine sanscrito «dhyana» e al corrispondente pali «jhana» i quali stanno per «meditazione». Ovviamente il buddhismo zen che influì in modo intenso ed esteso sulle arti ma anche sulla vita quotidiana del Giappone, non si riduce per questo a sostenere che la pura e semplice pratica meditativa sia sufficiente a far capire e a risolvere ogni problema, ma certamente fa di essa la base e il cardine per produrre l'equilibrio psicofisico necessario alla comprensione e alla soluzione dei problemi. A differenza del buddhismo delle origini e anche di quello proposto nella letteratura Prajñaparamita, il buddhismo zen insiste molto di più sul fatto che lo spazio della discussione speculativa va ridotto a favore di quello fornito dall'esperienza immediata, incentrato e concentrato nella pratica della meditazione. Sulla scia della tradizione prodotta dalle osservazioni buddhiste sul vuoto e sulla vacuità, anche il buddhismo zen propone un radicale «fare il vuoto» che tolga sostanzialità e permanenza agli oggetti, all'io, ai pensieri e perfino al pensiero del vuoto; tuttavia quelle del buddhismo zen, più che «osservazioni» e «riflessioni» sul vuoto, appaiono come testimonianze di esperienze del vuoto, Ciò che è stato notato a proposito dei Sutra da D.T. Suzuki - il più celebre tra i maggiori studiosi contemporanei di buddhismo zen - vale a maggior ragione per i discorsi dei maestri zen: «Quando i Sutra affermano che tutte le cose sono vuote, non-nate e al di là della causalità, l'affermazione non è il risultato di un ragionamento metafisico; è un'esperienza buddhista estremamente penetrante». Ciò non significa tuttavia che il buddhismo zen sia talmente ingenuo e «primitivo» da ignorare i livelli della discussione teorica e i modi dei ragionamenti dialettici; anzi, i testi che ci sono rimasti di questa grande scuola del buddhismo mahayana dimostrano casomai una conoscenza talmente profonda di questi livelli e di questi modi da poterne proporre il superamento, mostrando i limiti di un approccio esclusivamente teorico ai problemi. La consapevolezza di tali limiti appare concentrata in questo famoso passo di Hui Hai, grande maestro chan dell'VIII secolo d.C.: Su che cosa deve stabilirsi e dimorare la mente? Deve stabilirsi sul non-dimorare e là dimorare. Cos'è questo non-dimorare? Significa non lasciare che la mente dimori su nessuna cosa di nessun genere. E cosa significa questo? Dimorare su nulla significa che la mente non si fissa sul bene o sul male, sull'essere o sul non-essere, sul dentro o sul fuori o da qualche parte tra i due, sul vuoto o sul non-vuoto, sulla concentrazione o sulla distrazione. Questo dimorare su nulla è lo stato in cui essa deve dimorare; di coloro che lo raggiungono si dice che hanno la mente che non dimora; in altre parole, hanno la mente di Buddha. | << | < | > | >> |Pagina 77Se è vero che «l'uso artistico del vuoto è osservabile in quasi tutte le forme artistiche dell'Estremo oriente», vi è però un luogo in cui il vuoto sembra concentrare e mettere in massima evidenza la sua presenza e la sua funzione: questo luogo è il sukiya, la stanza da tè. Il vuoto che in questo luogo si celebra, oltre che fisico ed estetico, è morale e mentale. Esso si fa sentire già mentre si attraversa il piccolo giardino antistante percorrendo un sentiero di pietre in rilievo (roji) che porta alla piccola costruzione in legno dove si svolge la cerimonia del tè: innanzitutto la struttura del sentiero a «passi perduti» è quella che più e meglio esalta la presenza del vuoto in quanto elimina la contiguità tra le pietre ponendole a distanza variabile una dall'altra; il passaggio su di esse risulta quindi simile a quello sui sassi emergenti di un torrente dove è necessario porre attenzione ai movimenti in rapporto alla presenza e all'azione del vuoto: in secondo luogo l' asimmetria sia orizzontale - prodotta dalla distanza variata delle pietre una dall'altra -, che verticale - prodotta dai diversi livelli delle pietre -, costringe il corpo a dimenticare ritmi e movimenti del camminare usuale e, con ciò, modifica al tempo stesso i consueti modi di percepire spazio e tempo. Il passaggio del roji è già un'esperienza di purificazione e, quindi, un modo in cui il vuoto comincia a manifestarsi; comincia, letteralmente, a «farsi sentire». | << | < | > | >> |Pagina 90Nel sukiya, sulla parete di fondo del tokonoma, è quasi sempre appeso un kakemono o un makimono, ossia un rotolo, verticale o orizzontale, di seta o di carta, sul quale è tracciata una calligrafia o dipinta una pittura ad inchiostro. La tecnica usata per la calligrafia o per il dipinto è quella del sumie (cinese: shui-mo): inchiostro e acqua. Non si tratta di una mera decorazione o di una esibizione di bellezza fine a se stessa, ma di un'ulteriore occasione di meditazione sulla funzione del vuoto, in sintonia ed in armonia, dunque, con le analoghe occasioni incontrate finora: il percorso del roji, il gioco dei chiari/scuri del sukiya, i suoni del bollitore, i gesti del maestro, il contatto con la ciotola. Per poter cogliere la funzione del vuoto attivata da una calligrafia o da un dipinto non è sufficiente considerare l'evidente dialettica tra lo scuro dei segni tracciati e lo sfondo chiaro e spoglio della parete, ma è necessario «entrare» nel kakemono o nel makimono, esaminarne da vicino e dall'interno i principali procedimenti tecnici e i peculiari effetti estetici.
È innanzi tutto da ricordare che, contrariamente a quanto è avvenuto
in Occidente, in Cina e in Giappone scrittura e pittura sono state da sempre
due tecniche intrinsecamente connesse, dal punto di vista tecnico ma anche da
quello semantico. La scrittura cinese uscì dalla fase dell'incisione già dal
secolo XVI a.C., com'è testimoniato dalla presenza di una specie di penna ad
inchiostro raffigurata sulla superficie di un bronzo del periodo Shang. È
tuttavia con l'introduzione dell'uso del pennello - prima con punta di fibra
(213 a.c.), poi con punta di setole animali (206 a.c.) - che essa trova il suo
strumento peculiare e si avvicina sempre di più alla pittura, al punto che
identici diventano non solo gli strumenti (pennelli, inchiostri, carte e sete)
ma anche lo spazio fisico e i movimenti compositivi: è proprio tale
avvicinamento, mai tradito nei millenni da allora fino ad oggi, che costituisce
il decisivo passaggio dalla
graphé
alla
kalligraphía.
È l'elemento pittorico e, in particolare, l'uso del pennello
(pi
o
yu)
che decide, una volta per sempre, il fatto che le superfici sulle quali scrivere -
siano esse ancora strisce di bambù o, già dal 105 d.C., strisce di carta - non
siano più da «graffiare», ma da «sfiorare», da «accarezzare»: dal momento in
cui, per scrivere, si cominciò ad usare il pennello, ossia a
dipingere
i caratteri (e non a «scriverli»), la scrittura dovette necessariamente
diventare «bella scrittura»,
kalligraphía,
o non essere del tutto. Anche per questo, per questa esigenza di bellezza, per
questa necessità di perfezione, la scrittura cinese, fino a tempi recenti, è
stata per secoli appannaggio di una ristretta élite di letterati: non fu solo il
costo dell'inchiostro, dei pennelli e della carta a produrre tale privilegio, ma
soprattutto la calma, la concentrazione, l'impegno continuo, quindi, in
definitiva, il
tempo
richiesto per scrivere.
«Scrivere» si identificò, molto più che in Occidente, con «scrivere-bene» con
«bella scrittura», per cui i requisiti per scrivere dovevano essere assai
simili, se non identici, a quelli per dipingere: non a caso in cinese pittura e
scrittura sono unite da uno stesso concetto espresso dal termine
xie;
non a caso il radicale di «pennello» - formato dalla stilizzazione di una mano
che impugna un pennello - è alla base del carattere che designa «libro»
(shu);
non a caso la più antica raccolta di libri che si conosceva aveva nome «Foresta
di pennelli». Non solo: a rimarcare la profonda affinità tra calligrafia e
pittura sta il fatto che assai spesso nello spazio bianco di un dipinto sono
tracciati i caratteri di un testo. A questo proposito è stato acutamente
osservato che testo e dipinto sono entrambe pitture non solo per affinità
formale, ma perché identici sono: gli strumenti usati, lo spazio fisico e i
movimenti.
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