Autore Darwin Pastorin
CoautoreAndrea Bozzo
Titolo Storia d'Italia ai tempi del pallone
SottotitoloDal Grande Torino a Cristiano Ronaldo
EdizioneCasaSirio, Roma, 2018, eXtra , pag. 108, ill., cop.fle., dim. 14x21x1,2 cm , Isbn 978-88-99032-55-5
LettoreDavide Allodi, 2019
Classe sport , storia sociale , storia contemporanea d'Italia , paesi: Italia









 

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Indice


IL GRANDE TORINO - Superga                                6

HASSE JEPPSON - O' Banco e' Napule                       10

OMAR SIVORI - Gli anni del boom                          14

FULVO BERNARDINI - Complotti                             18

GIACINTO FACCHETTI - Il casto divo                       22

GIGI MERONI - La farfalla granata                        26

PIETRO ANASTASI - Il Sessantotto                         30

GIANNI RIVERA - L'onorevole                              34

GIGI RIVA - Il guerriero gentile                         38

JOSÉ ALTAFINI - Il calcio in Tv                          42

LUCIANO RE CECCONI - A mano armata                       46

PAOLO ROSSI - La doppia vita di Pablito                  50

ZICO - Non passa lo straniero                            54

SÓCRATES - Il Che del calcio                             58

PREBEN ELKJÆR LARSEN - Rivoluzione proletaria            62

DIEGO ARMANDO MARADONA - Un romanzo popolare             66

ARRIGO SACCHI - L'alchimista e il Cavaliere              70

VUJADIN BOŠKOV - Uno psicologo in panchina               74

ROBERTO BAGGIO - Il Divin Codino                         78

FRANCESCO TOTTI E ALESSANDRO DEL PIERO - Gemelli diversi 82

GIANLUIGI BUFFON - La solitudine dei numeri 1            88

MARIO BALOTELLI - Un italiano vero                       92

CRISTIANO RONALDO - Un marziano a Torino                 96

GIOVANNI ARPINO E PIER PAOLO PASOLINI - Grazie!         100


 

 

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IL GRANDE TORINO


SUPERGA

4 maggio 1949.

Un boato, lassù in collina.

Proprio là, dove c'è la Basilica di Superga. Più in alto esiste solo il cielo.

Le cinque della sera. Di una primavera che diventa un'ombra nera, lunga, devastante.

Si, un boato, non un semplice tuono, qualcosa brucia, è un incendio. Forse è soltanto un'allucinazione, ne abbiamo viste tante, troppe in tempi recenti. Cadevano le bombe su Torino, crollavano le case, morivano i figli.

Non è che...

Non può essere, figuriamoci.

Eppure, lo stanno dicendo in tanti, troppi. Un aereo, il Grande Torino...

Non scherziamo, non è più tempo di tragedie. E poi quelli sono gli Invincibili, i ragazzi in maglia granata che non si arrendono davanti a niente e nessuno. Eravamo appena usciti dall'incubo, ricominciavamo a sognare e rieccoci nel baratro della paura, del non sapere che dire e che fare, se non piangere e ancora piangere, piangere fino allo stordimento.

Ci guardiamo, giù in strada, ci stringiamo. I ragazzi granata non ci sono più, dice qualcuno. Sono scomparsi. Non può essere. Ancora lacrime. Nel rogo di un aereo in frantumi e della nostra riperduta utopia.

Eravamo convinti fosse finita. Dopo gli anni della guerra. Dei fratelli contro i fratelli. Di una faticosa rinascita. Avevamo rialzato la testa, dopo il sangue, la polvere, il dolore e la vergogna. I campioni del Toro ci facevano sentire orgogliosi di essere un popolo: quel pallone, che loro dominavano con maestria, correva assieme al nostro futuro e alle nostre speranze. Quel pallone riportava la felicità sui volti, nelle case, nella quotidianità. Felicità, potevamo dirlo ad alta voce. Potevamo gridarlo. Felicità. Senza più la follia, l'orrore, gli "eia eia, alalà".

Capitan Valentino e i suoi compagni stavano ricucendo una nazione. Anche grazie a loro eravamo tornati a parlare di gol e di democrazia e le uniche battaglie erano quelle del campionato, una squadra contro l'altra, e poi, al fischio finale, tutti insieme all'osteria. Vino robusto e salame del contadino.

Persino in Brasile, nell'estate del 1948, i frombolieri erano stati loro. I tiri micidiali di Gabetto, l'eleganza di Loik, la determinazione di Ossola e Maroso, le parate di Bacigalupo. Non avevano rivali per lo scudetto, erano imbattibili come il Real Madrid di Cristiano Ronaldo, il Barcellona di Lionel Messi e, in Italia, la Juventus di Conte e poi di Allegri. Vederli all'opera era una meraviglia: un'orchestra perfetta, un canto libero, un inno alla gioia, alla spavalderia e alla bellezza.

Il 4 maggio 1949, il Torino sta rientrando da Lisbona. Ha giocato un'amichevole in onore di Francisco Chico Ferreira, campione del Benfica, amico di Mazzola. E proprio Valentino, intervistato poco prima di salire sull'aereo per il quotidiano A Bola, confessa: "Sto male, non ero in condizione di giocare ma volevo portare l'abbraccio della nazionale italiana al valoroso capitano del Portogallo, Ferreira". I giocatori hanno voglia di tornare a casa. I membri dell'equipaggio hanno volti sorridenti e rassicuranti. Per loro è un onore ospitare giocatori così famosi, e così gentili. Firmano autografi e fanno volentieri quattro chiacchiere: non sembrano divi celebrati in tutti gli stadi.

"Benvenuti a bordo".

La guerra è finita da quattro anni e il 25 aprile si festeggia la Liberazione che, come scrisse Norberto Bobbio, ci aveva fatto "ritornare uomini".

Quel 4 maggio 1949, l'Italia faceva ancora i conti con il proprio passato, ma anche con quel vento nuovo chiamato Libertà. Una parola che negli anni bui del fascismo non si poteva nemmeno pensare, immaginare. La gente aveva ripreso una vita normale, malgrado i lutti e le cicatrici: poteva fermarsi al bar, scegliere il quotidiano da leggere, acquistare i romanzi degli autori americani, scoprire Hemingway senza doversi guardare alle spalle.

Quel 4 maggio 1949 tutto era ancora possibile, nel bene. Soltanto nel bene.

Ma, alle cinque della sera, il Grande Torino si ferma per sempre sulla collina.

I ragazzi granata non giocheranno più, non vinceranno più, resteranno giovani per sempre. Non invecchiare, capirai che consolazione. Non vedere i figli diventare grandi, crescere i nipoti. Valentino non vedrà mai Sandrino conquistare di tutto e di più con le maglie dell'Inter e della Nazionale. L'Italia si ritrova perduta, smarrita.

Quei ragazzi non avevano lasciato un segno solo in campo ma anche nel cuore di un Paese intero. Con loro potevamo tornare a essere d'esempio, nel mondo, venire additati per il nostro valore e per i nostri pregi. Essere campioni nel calcio come nella vita.

È così. Ci commuoveremo sempre alzando lo sguardo verso la collina, dove si staglia maestosa la Basilica di Superga, e vedremo Valentino che si rimbocca le maniche e urla: "Ragazzi, andiamo, è ora di vincere la partita".

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SÓCRATES


IL CHE DEL CALCIO

Beata Firenze, e fortunata. Tu che hai avuto la buona sorte di accogliere, nel 1984, il giocatore rivoluzionario, l'intellettuale che parlava al cuore degli umili e degli invisibili. L'uomo che, con le sue azioni fuori e dentro il prato verde, il suo coraggio e le sue parole, ha aiutato il Brasile a uscire dagli anni neri della dittatura per diventare una democrazia. Si, Firenze: molti ti hanno invidiata per essere stata la casa di Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira, da tutti conosciuto semplicemente come Sócrates. Così lo chiamò il padre, Raimundo, dopo aver letto La Repubblica di Platone. "È stato il giocatore più intelligente della storia del calcio brasiliano", sentenziò Pelé, uno che non regala niente a nessuno. Ma è stato di più: un uomo che conosceva l'alfabeto della solidarietà e della tolleranza. Diede vita, sotto il regime di João Baptista de Oliveira Figueiredo, alla Democracia Corinthiana: nella squadra di calcio del Corinthians, amata dal proletariato paulistano e paulista, vigeva il socialismo applicato al pallone: l'autogestione, i calciatori riuniti in assemblea decidevano la formazione, vietati i ritiri, libertà di pensare e di giocare. Quei coraggiosi portavano scritto sulle magliette e negli striscioni una parola a quel tempo vietata in tutto il Sudamerica: Democrazia. Fu una lotta dura, ma alla fine arrivarono le elezioni libere, grazie a quello spilungone con la barba e lo sguardo vivido, che colpiva la palla con il tacco, un gesto artistico, beffardo, spiazzante. Disse nel 1983, in un impeto romantico: "Vorrei morire di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il titolo". E gli accadde proprio così, il 4 dicembre 2011, contro il Palmeiras, il mio Palmeiras. I giocatori salutarono quel loro idolo, appena scomparso, con il pugno alzato.

Conobbi Sócrates nel gennaio del 1981, al Mundialito in Uruguay. Una competizione per Nazionali, trasmessa in Italia dalla Fininvest berluconiana. Il direttore di Tuttosport, Piercesare Baretti, mi chiese di seguire soprattutto la Seleçao (che arrivò seconda dietro i padroni di casa della Celeste).

Ricordo un caldo infernale, i mitra dei militari in ogni pertugio; erano le stagioni di un altro lugubre dittatore, in quell'America Latina ferita e offesa: Aparicio Méndez. Nella clandestinità agivano i guerriglieri Tupamaros. In ritiro c'era sempre aria di festa: con Léo Júnior al pandeiro, Zico a battere punizioni perfette, Toninho Cerezo a raccontare la bellezza del circo e la meraviglia dei clown. Poi, c'era lui: Sócrates, il filosofo, chiamato dottore perché laureato in medicina. Aveva sempre un libro in mano durante le ore di pausa. Mi fermai a parlare con lui, sotto la confortante ombra di un gigantesco albero. Gli dissi che ero nato in Brasile, ma che vivevo da tempo in Italia e che le sue idee sarebbero piaciute a Enrico Berlinguer, leader del Partito Comunista, un politico amato e stimato anche da tanti avversari. Lui mi raccontò delle cicatrici del Brasile, del tanto che c'era ancora da fare per i troppi poveri. Del bisogno assoluto di uguaglianza. Diceva che nessun brasiliano doveva essere escluso dalla felicità, "nessuno dovrà più camminare a testa bassa o portare le catene". Capisci, Firenze, la fortuna che hai avuto? E non importa se, sul campo, non è stato all'altezza delle aspettative. Nelle scuole e nei circoli operai portava la sua lotta e le sue parole, il suo esempio.

A un certo punto, sotto quell'albero, seduti su una panchina, il discorso scivolò su Antonio Gramsci. Lo adorava, aveva letto quasi tutte le sue opere. Mi chiese la cortesia di fargli avere le Lettere dal carcere, in italiano. Mi disse: "Sai, quel vostro piccolo uomo fu un gigante. Un gigante autentico".

Spedii il libro al suo indirizzo di casa. E provai a immaginarlo mentre leggeva, con commozione, con ammirazione, una lettera del 14 novembre 1927: Cara Giulia, ti voglio almeno inviare un saluto ogni volta chè mi è concesso scrivere. È trascorso un anno dal giorno del mio arresto e quasi un anno dal giorno in cui ti scrissi la prima lettera dal carcere. Sono molto cambiato in questo tempo: credo di essermi rafforzato e sistemato meglio. Lo stato d'animo che mi dominava quando ti scrissi questa prima lettera (non voglio neanche tentare di descrivertelo, perché ti farebbe orrore), ora mi fa un po' ridere.

Chiesero a Sócrates: "Quale italiano preferisce tra Gianni Rivera e Sandro Mazzola?". Sócrates sorrise, con un sorriso che raccoglieva tutti i sospiri e tutte le speranze dell'universo, e rispose: "Antonio Gramsci. È lui l'italiano che stimo di più".

Firenze: la mia invidia per te non avrà mai fine.

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DIEGO ARMANDO MARADONA


UN ROMANZO POPOLARE

Questo non è un capitolo.

Questo è un inno. Una lirica. Un atto di fede calcistica.

La mia dedica al giocatore più forte del mondo, al Borges della pelota: Diego Armando Maradona.

Io l'ho visto giocare. Ed è sempre stato un incantesimo, il calcio che diventava opera d'arte. Anche nei suoi momenti peggiori, Diego sapeva dominare il pallone. Rendere la polvere diamante. Al Napoli e a Napoli ha regalato un Sogno Infinito. Nel 1987, il primo scudetto della storia di una città diventata ancora più magica: danzavano persino le onde e le nuvole al richiamo di quello scugnizzo d'Argentina.

Io l'ho visto sorridere.

Il giorno in cui il Barcellona disse di sì alle richieste della società partenopea, Diego sentì nuove vibrazioni nel suo cuore fanciullo. Aveva ventiquattro anni, un sinistro perfetto, fu un magistrale colpo di mercato del presidente Corrado Ferlaino e del suo Richelieu, l'ex capitano Totonno Juliano. C'ero anch'io sull'aereo che portava Maradona da Barcellona a Roma; e poi la corsa in auto per ricevere l'abbraccio della sua nuova gente, stordita, incredula, impazzita. Dai tempi di Omar Sivori, la città-mondo non si scopriva così allegra: sì, e ora, dopo tanto, troppo tempo, tante, troppe illusioni, o' scudetto arriverà a regalare intense scariche di felicità.

Maradona venne presentato il 5 luglio 1984 in uno stadio San Paolo strapieno. Pochi minuti, un pallone lanciato al cielo, per una storia d'amore, passione e follia durata fino al 1991. Gli chiesi, in un'intervista esclusiva per Tuttosport, "Come farai a vincere la nostalgia per Buenos Aires e Barcellona?". Sorrise, a girasole: "Mi basterà aprire la finestra e guardare il mare di Napoli!".

Un giorno in cui pioveva forte al campo d'allenamento di Soccavo, un cronista giurò di avere visto, proprio con i suoi occhi, Diego in mezzo al prato, quasi immerso in quel fango, quando... ecco scendere una goccia più grossa delle altre e "Maradò... un due tre, palleggia `a goccia!".

Questo è il Mito. Più del famoso gol con la mano de Dios, più del gol più bello di sempre, quegli undici tocchi contro l'Inghilterra, al Mundial messicano dell'86, vinto soprattutto da lui, da quel ragazzo piccolo, tracagnotto, pieno di vizi e di nostalgie, ma capace con la palla di trasformarsi in un unico dio.

Aveva capito tutto Osvaldo Soriano quando, da Parigi, il 7 maggio 1979, scrisse al suo collega e sodale Giovanni Arpino: "Mi raccontano gli amici che in un piccolo club di Buenos Aires, Argentinos Juniors, si trova la salvezza del Torino. Si chiama Diego Armando Maradona, ha diciotto anni ed è, stando al parere dei giornalisti e dei miei stessi amici, il miglior giocatore (sebbene sia bassetto) degli ultimi trent'anni. Fa due gol per partita (la sua squadra fa pena ma lui è il migliore), ed è già nella selezione nazionale. Certo, tutte le grandi squadre, e il Barcellona, lo vogliono comprare; costa, credo, cinque milioni di dollari. Se il Torino possiede questa cifra di denaro è salvo. Dicono che accanto a lui Sivori è un omaccione. Dopo non si dica che non li avevo avvertiti. Un forte abbraccio".

Tutti i compagni parlano bene di lui. Da Garella a Ferrara, da Massimo Mauro a Carnevale, da Pecci a De Napoli. In attacco c'era la Ma-Gi-Ca: Maradona, Giordano e Careca. Il gol era sempre di casa. E Salvatore Bagni a fare da padre per quello scugnizzo che non conosceva il senso del tempo.

Io l'ho visto piangere.

Per rabbia, per dimenticanza, per un torto subito. Ma subito dopo l'ho visto reagire. Perché lui era El Diego, il ragazzo povero che palleggiava con le arance e i limoni, che promise al padre di diventare Campione del Mondo, che è così autentico anche nelle sue esagerazioni, nel suo voler sfidare, con una risata larga, il senso del ridicolo e del grottesco; lui è sempre stato così, nel bene e nel male, nella gloria e nella caduta: vero, assolutamente e assurdamente vero. Con tutti i suoi errori, le discutibili amicizie, le sue notti sbagliate: mai una volta con addosso una maschera, mai una volta a fingere di essere un altro, gentile e perfetto, moderato e modesto.

Una volta gli passai al telefono Luis Sepúlveda. Ero ad Asti per intervistare lo scrittore cileno, mi chiamò Bagni un attimo prima di raggiungere l'autore de Le rose di Atacama al ristorante, dove mi aspettava con la moglie Carmen: "Darwin, sono qui con Diego. Ti vuole salutare". Dico a Maradona che sto per parlare con Sepúlveda: "Passamelo! Sono un suo estimatore...". Vedevo Luis per la prima volta: "Mi scusi, ecco, mi creda, Maradona vorrebbe parlare con lei...". Mi guardò come si guarda un pazzo. Prese comunque il mio telefonino. E i due parlarono a lungo. Poi Sepúlveda disse alla moglie: "Era Maradona per davvero!". L'intervista poteva cominciare...

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CRISTIANO RONALDO


UN MARZIANO A TORINO

Torino 2844. Abbiamo ritrovato un documento straordinario. Il primo commento di un giornalista, un certo Darwin Pastorin, aveva più di sessant'anni a quel tempo, autore di post calcistici e letterari sul sito web Huffington Post, sul clamoroso annuncio dell'acquisto da parte della Juventus del campione portoghese Cristiano Ronaldo, stella del Real Madrid e considerato, con Lionel Messi del Barcellona, argentino suo contemporaneo, uno dei più forti calciatori di tutti i tempi. Ronaldo e Messi all'epoca vincevano tutto: a livello di club e a livello personale. Per Torino fu un'ondata di autentica follia. Siamo a luglio 2018 e quel cronista, ci sembra di origini venete, nato in Brasile (ma i dati sono molto confusi), così scriveva nel Primo Anno con Cristiano nel campionato del Bel Paese. Di sicuro non siamo davanti a un apocrifo. Leggiamo, dunque.


***



È tutto vero. Cristiano Ronaldo lascia il Real Madrid per diventare un giocatore della Juventus. È il "colpo del secolo", per quanto riguarda il calciomercato. Decisivo il blitz del presidente bianconero Andrea Agnelli a Kalamata, in Grecia: un volo privato, poche ore di trattativa, una stretta di mano, per chiudere l'affare che riporta il calcio italiano al centro dell'universo. Sono tornati gli anni Ottanta, quando da noi giocavano i migliori del Mundial dell'82, da Zoff a Scirea, da Tardelli a Pablito Rossi, Maradona Zico Platini, Falcão Léo Júnior Cerezo, e gli anni Novanta con Gullit-Rijkaard-Van Basten e il brasiliano Ronaldo all'Inter. Poi, le mete dei fuoriclasse sono diventate Spagna, Inghilterra e il PSG in Francia (che proprio ieri ha presentato Gigi Buffon). Il nostro campionato non era più considerato competitivo, tecnicamente ed economicamente. Il 2018 è stato rovinoso dal punto di vista dell'immagine: dopo sessant'anni, la nostra Nazionale non ha partecipato, per la seconda volta nella sua storia, a un Mondiale (nel 1958 in Svezia, ora in Russia). Ma, adesso, uno dei più forti calciatori di tutti i tempi, Pallone d'Oro (con l'argentino Lionel Messi) per eccellenza, riporta il calcio nostrano in cima a tutti i sogni e desideri. I numeri di CR7 sono impressionanti: nove stagioni al Real Madrid, quindici titoli conquistati, comprese quattro Champions League, miglior bomber di sempre della società, con 450 reti in 438 partite. Contratto di 30 milioni per quattro anni. 105 milioni al club madrileno.

La Juventus, sette scudetti di fila, vuole riprendersi l'Europa, quella Champions League per sette volte persa in finale. Una vera e propria "maledizione" calcistica. Cristiano Ronaldo avrà il compito di riportare a Torino quella che un tempo era la Coppa dei Campioni. Non sarà facile, ma con lui tutto è possibile. Il fuoriclasse, trentatré anni, lo ha promesso nella sua lettera ai tifosi del Real pensando a quelli della Vecchia Signora: "Grazie di tutto, ma ora vado a Torino per aprire un nuovo ciclo". I sostenitori bianconeri non vedono l'ora di abbracciarlo. Un feeling nato nell'ultima Champions, dopo il fantastico gol in rovesciata di CR7 allo Stadium: tutti in piedi ad applaudirlo e lui a battersi la mano sul cuore, per ringraziare. Cristiano, da quel momento in avanti, ha sempre avuto parole d'amore per la Juve. Andrea Agnelli, allora, non ha più avuto dubbi. E il colombiano Cuadrado non ha avuto problemi a cedergli la casacca numero 7. Che, ovviamente, sta già andando a ruba. La Torino bianconera vibra di entusiasmo e di calore. Sembra (quasi) di essere a Napoli nei giorni maradoniani.


***



Fin qui il commento di quel giornalista, di quel Darwin (chissà se per Charles). Era l'Italia del presidente Mattarella e dei governo di Cinque Stelle e Lega, autoproclamato "governo del cambiamento", schierato con tre punte: Salvini, Di Maio e Conte. Il Pd, con tutta la sinistra, era relegato all'opposizione. Matteo Renzi, ex segretario del Partito Democratico ed ex Presidente del Consiglio, avrebbe voluto essere il Cristiano Ronaldo della politica. Ma le cose erano andate molto diversamente. Era l'Italia dei ponti che crollavano, un'Italia profondamente divisa su tutto, spesso livida di rabbia. Il calcio era la passione popolare, sebbene quello in Tv, a pagamento e trasmesso da due piattaforme diverse, suscitasse rabbia, a volte più rabbia di tante altre questioni più importanti. Era l'Italia della mancanza di lavoro, di tanti sogni frantumati, di giovani costretti a partire, non più su una nave e con i pantaloni consunti, ma in aereo e con una, due lauree in tasca: sempre di emigrazione parliamo. Sempre a cercare altri orizzonti per stare bene. Non proprio per essere felici: perché la nostalgia per l'Italia è sempre un tormento, per qualsiasi generazione, per qualsiasi età. L'italiano che si divideva allo stadio era lo stesso che, sui social, sfogava la propria rabbia su tutto e per tutto, spesso senza avere alcuna competenza. Tutti filosofi, medici, architetti, esperti di questioni internazionali, di zanzare tigre, di pastiere napoletane, di faccende giuridiche. Vittime, non proprio innocenti, di fake-news e capaci di un sessismo volgare e idiota.

Un giornalista molto popolare in quel tempo, Enrico Mentana, per tutti questi "leoni da tastiera" inventò il neologismo webete. Ovviamente, l'universo dei social non era solo questo: si poteva avere, usandoli con cautela e intelligenza, una visione totale del mondo, con molte informazioni, molte inchieste, molte bugie svelate. Era possibile recuperare libri e lezioni e parole di molti perduti maestri. Era, comunque, l'Italia di quei nostri lontani connazionali. Oggi siamo migliorati in molto, non in tutto. Perché siamo fatti così. Nel bene e nel male. Italiani.

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