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| << | < | > | >> |IndiceUNITI alla meta 7 Chi sbaglia, paga 20 Credere nei sogni 31 Come in un film 40 Un'apparizione misteriosa 51 Sfida da Jock 60 Mighty Keira 67 Immaginazione senza limiti 77 Uno a zero per i Rebels! 81 Soyen Shaku 88 La matematica è un'opinione 94 Sorpresa in libreria 105 Guardare al futuro 110 Una storia di lettere e bidelli noiosi 117 Confessione 125 Trionfi di gruppo 132 Problemi di blog 138 Spaccagambe! 141 Aggressione a Gates! 148 Papà era un Ribelle 156 Un incontro inaspettato 164 Rivelazioni 175 Ribelli e Guerrieri 182 Il racconto di Diego 191 Secondo tempo 207 Verso i playoff 209 Dal blog di Gates |
| << | < | > | >> |Pagina 7Dal blog di Gates, sabato 14 gennaio 2012: Il bello dei Rebels è che non si arrendono mai. Per questo sono la mia squadra.
La Mastiff League è arrivata alla partita piú attesa
del girone di andata e, anche se finora noi Rebels non
abbiamo mai vinto un incontro, rimedieremo proprio questo
pomeriggio. Alle quattro infatti affronteremo la squadra
piú forte della Lega e forse dell'intera Irlanda del Nord:
i Warriors del coach Chambers e del velocissimo estremo
Diego Ackley. Io e Diego siamo amici da molti anni, ma
devo avvisarlo: anche se i Warriors sono ancora imbattuti...
daremo loro filo da torcere! I Rebels questa volta vinceranno!
- Tra due minuti vi voglio tutti in campo! Nello spogliatoio c'era puzza di calzini sporchi e paura. Persino il coach Chambers, un omone di quasi due metri con le braccia grosse come tronchi d'albero, sembrava preoccupato. «È solo un po' di tensione, - decise Diego Ackley, infilandosi la maglia viola scuro dei Warriors. - È normale prima di una partita». Dopotutto non c'era nessun motivo per essere preoccupati: i Warriors erano saldamente in testa al campionato, mentre i Rebels, i loro avversari di quel giorno, ristagnavano da tempo immemorabile in fondo alla classifica. In teoria, il risultato dell'incontro era già scontato. Eppure Diego sentiva quell'elettricità cosí familiare che gli faceva tremare i polpacci e pizzicava i muscoli della schiena. Davanti agli occhi si susseguivano immagini confuse di quello che lo aspettava tra poco: mischie, viluppi di braccia e gambe, placcaggi che lo avrebbero scaraventato a terra con violenza. E poi corse a perdifiato, il pallone stretto al petto, verso quella linea bianca segnata a fondo campo: la meta. - Forza, - chiamò di nuovo il coach. - È il momento. Muoversi! Diego si alzò in piedi, saltellando sul posto per sgranchirsi le gambe. A quasi tredici anni, era un ragazzo alto per la sua età, ma non aveva certo la struttura fisica di un pilone. I piloni erano giocatori pesanti, pancia e muscoli imponenti, veri e proprie colonne fatte per tenere la posizione nei corpo a corpo. Diego invece era un estremo. Il suo compito era proteggere l'ultima linea di difesa, correre piú degli altri in fase di contrattacco, calciare piú lontano. E non farsi prendere mai. - Diamoci dentro, - esclamò il suo amico Seamus, che giocava come ala ed era un ragazzo alto e snello con il naso ricurvo come quello di un rapace. - Non possiamo certo farci battere dai Rebels! - Soprattutto non possiamo farci sconfiggere da Gates! - ribatté Diego. - Altrimenti hai idea di che testa ci farebbe a furia di chiacchiere? Scoppiarono a ridere entrambi, si scambiarono una pacca sulle spalle e corsero fuori dallo spogliatoio. Il pallido sole invernale costrinse Diego a strizzare gli occhi per abituarli alla luce grigia e lattiginosa. Quel giorno i Warriors giocavano fuori casa, e lo stadio non aveva veri e propri spalti ma semplici panchine sistemate in piú file subito oltre la recinzione del campo. Diego cercò di identificare con lo sguardo suo fratello Alvin tra il pubblico, ma una voce lo distrasse costringendolo a concentrarsi subito sulla partita. - Allora, sei pronto? - Diego si voltò sorridendo. Il suo amico Gates era vestito con la divisa a righe bianche e rosse dei Rebels, e sembrava affogare in una maglia troppo grande almeno di due taglie. Aveva capelli corti sparati sulla testa e occhiali storti sul naso. Allungò un braccio ossuto verso Diego e il ragazzo gli strinse la mano con convinzione. Per i successivi cinquanta minuti, Gates sarebbe stato un avversario: l'ala dei Rebels. Ma era sempre e comunque il suo migliore amico. - Preparati, - lo minacciò Diego. - Segnerò almeno cinque mete oggi. E noi Warriors vi stracceremo. - Voglio proprio vedere, - ridacchiò l'altro. - Ho già pronto un fantastico articolo da pubblicare sul mio blog. Si intitola: I Rebels trionfano!
Diego gli strizzò l'occhio e trotterellò verso i compagni
già in posizione. Si accorse che tutto il nervosismo di poco
prima si era sciolto come neve al sole. Adesso si sentiva
calmo e concentrato. Ed era impaziente di iniziare a giocare.
Poco piú di un'ora dopo, Diego aveva segnato ben sei mete, e i Warriors stavano sconfiggendo i Rebels per 50 a 3. Piú che una partita, era stato un massacro. L'arbitro fischiò la fine dell'incontro e gli spettatori si scatenarono tra grida e applausi. Diego si sforzò di ignorare le ragazzine che strillavano il suo nome, si fece lanciare un asciugamano dalla panchina e lo usò per strofinarsi il viso sudato e i capelli che gli pendevano sulla fronte come liane. Si sentiva tutto indolenzito: nell'ultimo placcaggio i Rebels lo avevano atterrato duramente, anche se questo non era bastato per fermarlo. Gli allenatori delle due squadre stavano radunando i giocatori per la classica stretta di mano finale, e Diego ne approfittò per riprendere fiato. Vide Gates seduto per terra, ansimante. L'amico si era tolto la maglia e si stava asciugando senza entusiasmo il torace pallido e magrolino. Non appena si accorse di lui, la sua bocca si allargò in un sorriso luminoso. - Bella partita. Diego scoppiò in una risata. - Vi abbiamo dato una bella lezione! Cos'è che volevi scrivere sul tuo blog? - Bah, avete avuto solo fortuna, - commentò Gates. - Nella partita di ritorno non riuscirete a contare tutti i nostri punti! - Forse perché rimarrete a zero, quattrocchi! - si intromise una voce. Era Blocco McKinley, il pilone dei Warriors. Aveva capelli rossi, un viso tondo come una luna piena e un fisico massiccio. Accanto a lui c'era Clyde Halloran, che sfoggiava un sorriso arrogante. Le spalle larghe tendevano la stoffa della maglia viola dei Warriors e gli occhi scintillavano come zaffiri. Clyde aveva capelli neri tagliati cortissimi e tutte le ragazze della scuola impazzivano per lui. «Chissà cosa ci trovano» pensò Diego. Secondo lui era solo uno sbruffone. - È bello che tu abbia ancora voglia di scherzare, Gates, - disse Clyde, - visto che voi Rebels avete fatto l'ennesima figuraccia. Siete proprio una squadra di sfigati. A dispetto del fisico gracile, Gates non si tirava mai indietro quando si trattava di rispondere alle provocazioni. - Meglio sfigati che... - Stava per sfoderare una delle sue famose frecciatine quando Diego lo bloccò con un gesto. Voleva evitare che la discussione si trasformasse in rissa. - Lascia perdere, amico, - disse. - Non ne vale proprio la pena. Gates sbuffò e si allontanò a grandi passi. Diego invece si fermò un istante per allacciarsi le scarpe. Notò che dalla parte opposta dello stadio stava entrando in campo il suo fratellino. Alvin aveva solo dieci anni ed era la persona a cui lui voleva piú bene al mondo. Aveva gli occhi verdi di mamma Virginia, e gli stessi capelli castani di Diego che entrambi avevano ereditato dal papà. Solo che Alvin era molto piú magro del fratello maggiore e aveva la pelle cosí pallida da sembrare trasparente come alabastro. Indossava un paio di pantaloni di velluto nero e grosse scarpe ortopediche, e stava raggiungendo Gates con un gran sorriso stampato in volto, salutandolo e sbracciandosi. Come sempre, Diego non poté fare a meno di notare che camminava zoppicando, con una buffa andatura dondolante. Alvin era nato con la gamba destra molto piú corta della sinistra. «Ipoplasia femorale congenita», cosí l'avevano chiamata i medici. Erano parole che Diego aveva imparato molti anni prima, ripetendole sulla lingua come fossero una formula magica. Ipoplasia femorale. Congenita. Fin da quando era piccolissimo Alvin non aveva fatto altro che entrare e uscire dagli ospedali, si era sottoposto a interventi lunghi e dolorosi, ma nonostante tutto aveva sempre continuato a zoppicare. Diego era contento che venisse ad assistere alle partite dei Warriors. In un certo senso, quando era in campo, cercava di correre per tutti e due. Alle sue spalle, udí Clyde che iniziava a ridacchiare. - Guarda come zoppica quel piccoletto! Sembra quasi che galoppi. Diego restò paralizzato sul posto, come se gli avessero rovesciato sulla testa una secchiata d'acqua gelida. Nessuno, nessuno poteva permettersi di insultare suo fratello Alvin. Clyde era figlio unico, viveva in una villona con piscina subito fuori città e arrivava alle partite a bordo della spider rosso fiammante del padre avvocato. Anche Blocco era figlio unico, e sua mamma lo viziava in ogni modo: l'anno prima gli aveva persino regalato l'abbonamento per seguire le partite dell'Irlanda al Sei Nazioni. Cosa potevano saperne loro di Alvin e della sua malattia? Non avevano mai visto la madre di Diego piangere in silenzio, quando pensava che nessuno la stesse guardando. E non avevano mai visto il padre di Diego, un colosso imponente come una montagna, prendere a pugni la porta della cucina in un impeto di rabbia quando aveva saputo che anche l'ultima operazione non aveva avuto l'esito sperato. Ma Diego conosceva tutte queste cose, e ogni volta che rientrava a casa i suoi occhi correvano lungo la porta fino al bozzo lasciato dal pugno di suo padre. - Il piccoletto sta andando a salutare Gates, - commentò Blocco, tutto allegro. - Certo che insieme fanno proprio una bella coppia. Il quattrocchi e lo storpio! - Proprio cosí, - confermò Clyde. - Lo sfigato e l'handicappato! Diego era un ragazzo tranquillo, e di solito rifletteva a lungo sulle sue azioni. Ma anche lui aveva un punto debole, un grilletto nascosto in grado di farlo esplodere come un fucile a pallettoni. Senza avere la minima idea di ciò che stava facendo, Clyde aveva appena preso il fucile-Diego e aveva fatto fuoco. Questa volta, il ragazzo agí senza pensare. Con le guance rosse di rabbia, superò di corsa i pochi metri che lo separavano da Clyde e si lanciò su di lui. Lo colpi con forza alla mascella, da sotto in su, abbattendosi sul suo mento con il palmo della mano. Clyde si ritrovò a terra prima ancora di capire cosa stesse succedendo. - Non provare mai piú a prendere in giro mio fratello, vigliacco! - sibilò Diego, inginocchiandosi sopra di lui e sferrandogli un pugno alla bocca dello stomaco. - Lo zoppo... è tuo fratello? - Clyde provò a divincolarsi mentre Blocco assisteva alla scena immobile, troppo stupito per reagire. I due contendenti presero a rotolare sul terreno, stretti in un abbraccio. Clyde riuscí a fare leva con le gambe per catapultare Diego in avanti, ma il ragazzo non diminuí la foga del suo attacco e colpi l'avversario con un altro pugno. La zuffa aveva attirato l'attenzione di alcuni giocatori che si precipitarono verso di loro. C'erano anche Gates e Alvin. E il coach Chambers. Diego si rialzò di scatto, allontanandosi disgustato da Clyde. Ma cosa pensava di fare? Aveva attaccato un compagno, lo aveva preso a pugni davanti a tutti. Clyde stava sanguinando, aveva un labbro spaccato e un occhio pesto. - Volete spiegarmi cosa cavolo sta succedendo? - sbraitò il coach Chambers. L'allenatore dei Warriors era davvero furibondo: lo si capiva dal fatto che i suoi capelli, sempre ben pettinati, gli cadevano a ciocche sulla fronte alta. Il coach si ergeva sui ragazzi con la gentilezza di un vulcano in eruzione. - Diego ha colpito Clyde senza motivo, - rispose Blocco. - Io e Clyde stavamo chiacchierando tra di noi, salutavamo il pubblico prima di rientrare negli spogliatoi, quando lui... - Non è vero! - sbottò Gates. - Sono sicuro che... In quel momento Diego capi che, per discolparsi, avrebbe dovuto raccontare a tutti le porcherie dette da Clyde. Poteva solo immaginare quanto avrebbe sofferto Alvin sentendo quegli insulti: già adesso il ragazzino lo guardava incredulo, con occhi grandi come piattini da tè. Diego senti Clyde alle sue spalle, il suo fiato caldo che gli sibilava all'orecchio: - Non azzardarti a dire al coach che stavamo prendendo in giro l'handicappato. Altrimenti ti giuro che a scuola gli renderò la vita davvero, davvero impossibile. Diego si voltò di scatto, pronto a colpirlo di nuovo, ma vide la scintilla negli occhi di Clyde. Non scherzava. Lui e Blocco erano davvero cosí vigliacchi, avrebbero aspettato che Diego non fosse nelle vicinanze per poi raggiungere Alvin e fargliela pagare. Non poteva essere sempre accanto al fratellino, e non poteva permettere che quei due bulli lo umiliassero. Alvin aveva già abbastanza problemi. Era suo dovere difenderlo. A qualunque costo. - Diego, vuoi spiegarmi perché hai attaccato Clyde? - gli domandò l'allenatore. - Non è proprio da te. Voglio sapere cos'è successo. - È come le ha detto Blocco, coach, - intervenne Clyde. - Diego si è avvicinato e mi ha preso a pugni senza un motivo. E senza darmi la possibilità di difendermi. Forse era arrabbiato perché durante la partita l'ho ripreso. Ha giocato bene, ma troppe volte ha lasciato sguarnita la sua zona, senza motivo. Era vero. Oltre a svolgere i suoi compiti in attacco, Diego doveva aiutare i mediani e i tre-quarti quando erano in difficoltà. E in quello non era stato particolarmente brillante. Clyde avanzò baldanzoso, con l'aria di chi ha finalmente trovato un'ottima scusa per giustificarsi. Diego si limitò a stringere i denti e a stare in silenzio. Adesso la cosa importante era proteggere Alvin. Ormai aveva preso la sua decisione. - È la verità? - gli domandò il coach. Diego non rispose subito. Guardò Chambers con gli occhi lucidi. Sapeva cosa stava rischiando, conosceva bene l'allenatore e la sua disciplina ferrea. Diceva sempre: «Il rugby è uno sport duro, ma non è uno sport violento. In campo non c'è spazio per la rabbia o per i colpi di testa». Se Diego non forniva in fretta una buona spiegazione, il coach non avrebbe avuto scelta. Chambers restò per un lungo minuto sospeso sopra di lui, con le spalle cosí ampie da oscurare la luce del pomeriggio e il mento che vibrava per la frustrazione. Diego tenne duro, si sforzò di restare immobile, immaginò che il suo corpo fosse fatto di pietra. Come quello di una statua. Cosí forte da non sentire nessun dolore. - E va bene, Diego, - sospirò il coach alla fine. - Conosci le mie regole: la violenza non è tollerata, mai e in nessun caso. Perciò sei fuori dalla mia squadra. Togliti la maglia dei Warriors. Diego riuscí a non cedere neanche in quel momento. Lo faceva per Alvin, e suo fratello era piú importante di qualunque cosa, anche della sua squadra. Gli altri Warriors invece si guardavano a occhi spalancati, colpiti dalla severità di quella condanna. Ma Chambers non aveva ancora terminato. - Spero che un giorno potrai spiegarmi questa tua follia, - esclamò l'allenatore con un'espressione preoccupata. - Me lo auguro davvero. | << | < | |