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| << | < | > | >> |IndicePrefazione dell'autore 5 1. Un classico precoce 9 2. Libri in armi 25 3. Politica del pudore 46 4. Parlare argentino 58 5. Marginalia 73 6. Pericolo: biblioteca 91 7. Seconda mano 107 8. Cartone dipinto e metafisica 132 9. Folle erudizione 150 |
| << | < | > | >> |Pagina 5PREFAZIONE DELL'AUTOREMalgrado la promessa del titolo, questo libro non è un romanzo di segreti e di spie. È un esperimento di lettura: un manuale di istruzioni per orientarsi (o smarrirsi a cuor leggero) in una letteratura. D'altra parte, nelle profondità della pratica silenziosa che chiamiamo leggere, non c'è forse l'illusione, il vizioso disegno, di intrattenere con un libro, un'opera o un autore quell'avventuroso rapporto di suspense - fatto di incursioni notturne, serrature forzate e codici trafugati - che conosciamo sotto il nome di spionaggio? Da molto tempo i libri non ci si presentano più con le pagine ancora intonse; i tagliacarte - difficile immaginare un oggetto più obsoleto - sopravvivono a stento come anacronistici souvenir di località turistiche fasulle. Ma leggere non è forse, non rimane sempre un lacerare, un introdursi, un irrompere in un ordine sereno e pago di sé, devoto al silenzio, protetto da porte socchiuse e persiane abbassate? E non è forse vero che il cognome Borges, oltre a designare lo scrittore più universalmente conosciuto della nostra letteratura, ha identificato per decenni una marca argentina di casseforti famosa per la sua efficacia nel proteggere tesori? Cercare in Jorge Luis Borges il fattore Borges, la proprietà specifica, l'impronta digitale, la molecola capace di far sì che Borges sia Borges e che, liberata attraverso la lettura, la traduzione, le molteplici forme di risonanza che da più di quarant'anni si affannano su di lui e sulla sua opera, rende a sua volta il mondo sempre più borgesiano: questo è stato lo scopo iniziale del libro. C'era la remota possibilità di non fallire? È evidente che non esiste un elemento Borges ma che ne esistono molti e che tutti sono fatalmente storici, limitati dalla cecità degli orizzonti di idee e di valori che nel tempo li hanno determinati. Eppure questo libro ha deciso di affrontare con coraggio la sua vocazione al fallimento ed è partito sulle tracce di alcuni di questi tratti distintivi, ricercandoli non solo nella lettera dei testi di Borges, dove consigliano di riesumarli le letture «serie», ma anche nella sua voce, nel suo corpo e nelle sue «maniere», e in quella specie di dimensione parallela, intima ed esibita insieme, privata e teatrale (interviste e cartoline, conferenze e lettere, registrazioni radiofoniche e oscuri opuscoli pubblicitari), nella quale si muoveva a suo agio, non esattamente l'individuo Borges, ma ciò che potremmo definire la sua figura: il Borges on stage, in cui convergono e si fondono un DNA letterario inconfondibile, una o molte biografie e un sofisticato dispositivo di messa in scena; tra i molti esempi, il Borges che esasperava i progressisti a forza di anacronismi indegni, quello che deludeva gli intellettuali consegnandosi ai riti della comunicazione di massa, quello che, con il solo influsso della sua immagine di grand'uomo della cultura patria, stregava un vasto pubblico che non lo aveva mai letto. Questo libro va e viene tra queste due dimensioni, esplorando la zona instabile in cui i segreti dell'intimità si lasciano contagiare dalle evidenze della sfera pubblica e l'effervescenza frivola della mondanità è temperata dal dato autosufficiente della letteratura. È forse qui che cominciano ad apparire i veri Borges inaspettati, capaci di tenere a distanza, di ridicolizzare o addirittura di confutare buona parte degli stereotipi con i quali siamo soliti etichettarlo. Forse così, di colpo, il timido e disinteressato topo di biblioteca si tramuterà in uno stratega tortuoso; l'anglofilo scenderà dalla sua torre d'avorio e si sporcherà le mani d'inchiostro nell'arena infuocata del giornalismo; lo scrittore d'élite abbraccerà la cultura imbastardita della divulgazione; e il paladino dell'originalità confesserà senza il minimo rossore di non essere altro che un consumato artista del furto. Forse così la lettura tornerà a regalarci la vertigine dell'effrazione. | << | < | > | >> |Pagina 91. UN CLASSICO PRECOCEA metà degli anni Venti, nel pieno furore delle avanguardie, Jorge Luis Borges ringiovanisce. Il fenomeno, già di per sé sorprendente se fosse solo fisico o morale, è per di più anagrafico, e almeno quattro testimonianze dell'epoca lo attestano: una pagina di Crítica, il quotidiano più diffuso del paese; un'altra di Martín Fierro, la rivista letteraria di moda in quegli anni; un compendio della poesia nazionale (Antología de la poesia argentina moderna) e una lettera personale ad Alfredo Bianchi, allora condirettore della rivista Nosotros. In tutte e quattro le occasioni, Borges dichiara di essere nato nel 1900. È una bugia di poco conto (era nato nel 1899), ma suona quattro volte falsa, frivola e soprattutto irrilevante: Borges è un giovane scrittore, non una soubrette, per togliersi gli anni. Eppure, intorno al 1926 o 1927, nel periodo in cui modifica furtivamente il suo passato, Borges possiede già tutti i requisiti che fanno di un giovane artista un vecchio precoce. Ha cancellato due errori di gioventù; ha pubblicato due libri di versi (Fervore di Buenos Aires, Luna di fronte), due raccolte di saggi (La misura della mia speranza, Inquisizioni), e dissemina la stampa di Buenos Aires di interventi mordaci, poesie e recensioni. Ha trascorso tutta l'adolescenza a Ginevra, dove ha studiato ed è diventato poliglotta, ma soprattutto è vissuto in Spagna, la patria che gli ha dato il suo primo maestro (Rafael Cansinos Assens) e gli ha fatto conoscere il primo assaggio di bohème letteraria e le prime baruffe di un movimento d'avanguardia (l'ultraismo). Dopo aver attraversato tutto questo, Borges a Buenos Aires è già un professionista del dernier cri. Darebbe il suo regno per una metafora; sintonizza le sofisticherie del pensiero europeo con la lingua intima dell'argentino; fa il verso a Berkeley, a Hegel, a Schopenhauer, e intanto scrive cordobesada bochinchera, bondà, incredulidà, esplicable. Detesta tutto ciò che è diretto: scrivere è inventare giri di frase preziosi, circonlocuzioni, mascherature sorprendenti: «La sua abilità nel condurre robuste greggi di versi transumanti...» E tuttavia, quando si tratta di guadagnare tempo, Borges bada a non eccedere. È discreto, sagace, di un'efficacia frugale. Ne ruba il giusto: un anno. Esattamente l'anno che gli serve per essere nato con il secolo. [...] Può darsi che, già a quel tempo, Borges cominci a pensare di essere qualcosa di diverso da un moderno. Forse sta già vedendo la propria modernità e ne sta prendendo le distanze; forse grazie a quel minimo distacco dal suo presente sta cominciando a uscire dalla chiusura che caratterizza l'avanguardia; e forse - fin troppo consapevole della propria attualità, ma già radicato nella terra di nessuno dove lo getta per la prima volta uno sguardo storico - ha un pentimento e decide di no, che non vuole staccarsene, e si aggrappa al segno più plateale del moderno - la cifra del secolo - come a una garanzia di predestinazione. Forse nascere, o rinascere, questa volta insieme al secolo, per Borges è un antidoto contro l'inaspettata fragilità, contro le debolezze, contro il tedio dell'essere moderno. Comunque sia, ciò che l'enfasi borgesiana rivela è che il problema sta in quell'anno: il 1899. Il 1899 era di troppo. Per Borges, che rispondeva puntualmente a ogni sollecitazione del Novecento, quell'anno doveva rappresentare un peso, un corpo estraneo. O un piccolo errore nel disegno divino. Se non fosse stato per quel 1899 sarebbe nato con il secolo. C'era arrivato così vicino! Eppure... Quel marchio, quell'anno di troppo, era ciò che ancora lo univa all'Ottocento: una sorta di pungiglione rimasto conficcato lì, nel territorio puro del passato, che in qualche modo continuava a «mettere in comunicazione» il Borges delle avanguardie, cosmopolita, frenetico di metafore e di stendardi, con una dimensione dell'esperienza e della cultura più provinciale e al tempo stesso più epica, più remota e più intima. Il 1899 è ciò che rimane in Borges di un secolo perduto. Di un mondo dove praticamente gli stessi personaggi sono protagonisti della storia patria e della sua genealogia familiare; di un mondo epico, in cui la pampa è un campo di battaglia e un angolo di suburbio lo scenario di un duello a coltellate; un mondo con tradizioni autosufficienti, senza dilemmi d'identità, sicuro di sé; un mondo detto, parlato o cantato, che accondiscende alla scrittura ma non sembra averne bisogno; un mondo quasi immobile, che non alza la voce e agisce controvoglia, rassicurato dalla sua stessa indolenza. È il mondo dell'Ottocento, il secolo «dei padri», il secolo criollo, che sta sparendo per sempre. Già nel 1925 Borges grida allo scandalo e accusa «il momento critico che tutti stiamo vivendo: quello del criollo che vuole descriollarsi per debellare questo secolo». Il «nemico» è il progresso; le recinzioni di filo spinato «incarcerano» la pampa, i gauchos si arrendono, destino del criollo è fatalmente l'esercito, il vagabondaggio o la furfanteria; «la nostra città si chiama Babele», una nuova mobilità manda all'aria «la visione lineare» di Buenos Aires: «la Repubblica ci diventa straniera, si perde». Michelet, storico della rivoluzione francese, diceva che ogni epoca sogna la successiva. Contraddicendo insieme l'idea e il suo ottimismo, Borges se ne lamenta: ogni secolo dimentica e perde il precedente. Forse è questa l'enfasi: una sorta di reazione, un po' maniacale, che si protegge da un dolore sostituendolo con un'euforia. Borges, accelerando l'oblio, nega l'esperienza della perdita (un secolo: tutto l'Ottocento) con un'improvvisa compulsione ad appropriarsi (di un anno, di tutto il Novecento). È un punto chiave e di notevole peso: Borges contempla l'Ottocento nel preciso momento in cui il secolo scompare, e proprio quando vi si affaccia, quando ne sperimenta l'attrazione e la vertigine, reagisce togliendosi un anno, cercando di estirpare la traccia che il secolo morente ha lasciato in lui. | << | < | > | >> |Pagina 32La grande opera borgesiana che va dalla fine degli anni Trenta alla metà degli anni Cinquanta sembra insistere in questa direzione. Libri come Finzioni, L'Aleph, o Altre inquisizioni pongono l'accento sugli aspetti più colti, meno «vitali», della letteratura: la riflessione, la speculazione, le prodezze tecniche o retoriche, la perfezione dello stile, l'erudizione... Figure di investigatori ridotte a puro ragionamento, biblioteche infinite, labirinti, paradossi filosofici, esotismi importati dall'Oriente: in apparenza, nulla di più lontano dal «mondo» (la vita, il presente, il qui e ora) del mondo del miglior Borges, che attraversa gli anni Sessanta come il prototipo dello scrittore «intellettuale», trincerato nella sua fortezza verbale, meno interessato a essere «un uomo, che una vasta e complessa letteratura», come lui stesso scrisse di Joyce, di Goethe e di Shakespeare. Per la cultura progressista che si andava configurando a metà degli anni Sessanta, dopo la caduta del peronismo e l'esperienza modernizzatrice di Frondizi, il caso Borges non poteva non rappresentare un problema. Che fare, in effetti, di un uomo che sembrava scrivere da un altro tempo e da un altro spazio, in una lingua pura come un diamante, racconti e saggi di un'autosufficienza intollerabile, ciechi e sordi alle cose più urgenti di questo mondo?| << | < | > | >> |Pagina 44La situazione «duello» è solo un esempio di questo tipo di evento peculiare, tipico di un genere, che conferisce un ordine alla letteratura di Borges e che sembra riunire alcune caratteristiche specifiche. Il duello presuppone, in primo luogo, un rapporto duale, l'incontro o lo scontro con un altro da sé; crea una situazione che è al tempo stesso unica e convenzionale: unica, perché l'avvenimento rende unica una vita, e convenzionale perché presuppone un codice, un insieme di regole, di formalità e di gesti che discendono da una tradizione, e che inscrivono quella particolare esistenza entro una serie infinita di destini analoghi; è una cesura, un momento di discontinuità, una specie di soglia che divide la vita in due; la sua funzione consiste nell'aprire un mondo dentro il mondo, o nel creare un tempo fuori del tempo; un duello è una sospensione del mondo e del tempo, un pezzo di vita strappato al contesto della vita, uno stato di eccezione che mette tra parentesi le leggi della normalità. «I fatti gravi sono fuori del tempo», scrive Borges in «Emma Zunz», «vuoi perché in essi il passato immediato rimane come separato dall'avvenire, vuoi perché non sembrano consecutive le parti che li compongono».In realtà, gli avvenimenti di questo tipo sono molto più di un motivo narrativo ricorrente, rappresentano qualcosa di più profondo e costitutivo che un semplice modo di raccontare le storie. Il duello - ma anche, ciascuno a suo modo, la battaglia, il delitto, la partita a scacchi e, soprattutto, il truco - è un po' come il microchip identificativo della narrativa di Borges, il suo codice genetico, l'impronta digitale. Il duello è, per Borges, il modello stesso del racconto: una situazione narrativa che declina in modo particolare il rapporto tra letteratura e vita. Perché la narrazione per Borges è esattamente questo: ciò che sospende la vita, ciò che sottrae alla vita. Una vita fuori dalla vita, un' altra vita nella vita, i cui codici annullano per un attimo le leggi comuni della vita. Ecco perché il duello in Borges è sempre un'estasi, anche - o soprattutto - quando il risultato è tragico. Questa sospensione del tempo e della vita è come una trance, un'allucinazione, e possiede la vertigine della festa. Se il duello è la versione in miniatura della narrazione, la narrazione, a sua volta, sembra riprodurre in scala ridotta la strana logica voluttuosa che governa una partita a truco. «I giocatori di truco vogliono allontanare gridando la vita», scrive Borges nel Carriego, alla fine degli anni Venti. «Quaranta carte - talismani di cartone dipinto, mitologia da due soldi, esorcismi - bastano per tenere a bada il vivere comune. Giocano dando le spalle alle transitate ore del mondo. La pubblica e urgente realtà, in cui tutti ci troviamo, sfiora il loro conciliabolo ma non vi penetra; il perimetro del tavolo è un altro paese [...]. I giocatori di truco vivono il loro mondo allucinato. [...] È un mondo angusto, lo so: fantasma di politica di parrocchia e di furfanterie, mondo inventato in definitiva da maghi di periferia e stregoni di sobborgo, ma non per questo meno capace di sostituirsi al mondo reale...» | << | < | > | >> |Pagina 92La prima biblioteca è quella del padre, nella casa di calle Serrano all'angolo con calle Guatemala, nel cuore di Palermo. Lì hanno sede e si dispiegano tutti i significati e le funzioni di un'istituzione che sarà una sorta di quartier generale della vita (e dell'opera) di Borges. Fisicamente è uno spazio chiuso, protetto, e la sua proprietà isolante risulta rafforzata da una seconda parete virtuale costituita dagli scaffali carichi di libri. È uno spazio solitario, liberato da ogni socialità, dove le complicate interazioni umane possono essere sostituite dalla manipolazione arbitraria di oggetti relativamente inanimati (i libri). E al tempo stesso, in quanto territorio d'asilo per chi rifugge la strada, «i destini vernacoli e violenti» che si dipanano dietro l'inferriata con le lance, è anche il centro immobile dell'universo, il punto strategico a partire dal quale è possibile accedere a un repertorio infinito di mondi possibili. Uno spazio aleph.La biblioteca paterna è la fonte di tutte le letture di Borges bambino. O meglio, di tutte le letture di Borges in assoluto, perché la lista dei libri che lo scrittore divora nel primo decennio del secolo è più o meno la stessa che lo accompagnerà per tutta la vita. Lì si trovano Huckleberry Finn di Mark Twain («il primo romanzo che lessi fino alla fine»), I primi uomini sulla Luna di H.G. Wells, i racconti e le poesie di Edgar Allan Poe, L'isola del tesoro di Stevenson, Dickens, il Don Chisciotte, Lewis Carroll, Le mille e una notte nella traduzione di Burton, la poesia di Shelley, Keats e Swinburne, i libri sulla mitologia greca e scandinava e, nella sezione dedicata alla letteratura criolla, Facundo di Sarmiento e molte delle opere di Eduardo Gutiérrez, libri «su fuorilegge e desperados, soprattutto Juan Moreira, e anche «Siluetas militares» («Ritratti militari»), che contiene un vigoroso resoconto della morte del colonnello Borges». La letteratura anglo-americana, la grande tradizione narrativa dell'Ottocento, la Bibbia dei romanzi (il Chisciotte), il verbo argentino dei poeti gaucheschi; perché il sistema operativo della macchina di Borges sia completo mancano pochi componenti: Dante e Shakespeare, qualche esempio del genere poliziesco (che Borges scopre già in Poe, nei Delitti della rue Morgue) e le versioni didattiche delle filosofie che gli trasmette suo padre (il pensiero greco, l'idealismo e l'empirismo inglese, il pragmatismo di William James). E il programma chiave delle enciclopedie. Non è un caso se quando si trova a ricostruire la biblioteca paterna, la Chambers's Encyclopcedia e l'Enciclopedia Britannica sono le prime due opere che gli vengono in mente, e se entrambe aprono anche la lista dei titoli che compongono la biblioteca dello scrittore nel 1979, quando ormai ha ottant'anni. L'enciclopedia, per Borges, non è esattamente un libro. Anonima, fatta di migliaia di piccoli blocchi interconnessi, come la muraglia cinese, sta al di qua o al di là del libro: per la sua esaustività, la sua portata, la sua capacità di inclusione e di espansione, potrebbe essere il Libro dei Libri, una sorta di Summa culturale pagana. Per Borges l'enciclopedia, più che un libro, è una modalità di funzionamento, un insieme di istruzioni, criteri e forme di organizzazione che definisce certi modi di scrivere e di leggere un libro. Ogni libro, tutti i libri. L'enciclopedia è, in questo senso, il modello per eccellenza del libro borgesiano: un libro-biblioteca, un libro che riproduce su scala ridotta, in un formato relativamente portatile, la logica che governa il funzionamento di una biblioteca. | << | < | > | >> |Pagina 110La prima di queste figure parassitarie - il traduttore - compare molto presto nella sua vita: Borges ha appena dieci anni quando la sua versione in spagnolo del «Principe felice», la fiaba di Oscar Wilde, esce sul quotidiano bonaerense El País. È la prima cosa che pubblica, e anche la prima in cui mette a frutto un capitale familiare decisivo: il bilinguismo. A prima vista, il lavoro del traduttore traspone e semplifica in modo quasi pedagogico il rapporto parassitario: c'è un autore (un artista) e c'è un traduttore (un sotto-artista); c'è un originale (primo) e c'è una traduzione (seconda); c'è una lingua (dell') originale e ce n'è un'altra della traduzione; la traduzione dipende (trae nutrimento) dall'originale; l'esistenza della traduzione presuppone quella dell'originale, non viceversa. Eppure, nel caso di Borges, nulla è come sembra. I traduttori di Borges (i personaggi che traducono nei suoi racconti, i traduttori letti da Borges, il Borges traduttore di Faulkner, di Virginia Woolf, di Joyce o di Kafka) sono sempre indocili, irrispettosi, arbitrari; in una parola: impertinenti. Mettono in discussione non solo i termini della relazione parassitaria (qual è l'originale e quale la traduzione, in quale misura il primo è primo e la seconda è seconda) ma, soprattutto, la pertinenza della relazione stessa.Forse il germe di questo ribaltamento si trova già nella singolare esperienza borgesiana del bilinguismo. La simultaneità, il rapporto di parità tra l'inglese (lingua paterna) e lo spagnolo (lingua materna) sono assoluti, al punto che non vi è praticamente differenza tra le due lingue. Borges le ricorda come una sorta di continuum indistinto, nel quale le alternanze - parlare l'una o l'altra - non implicavano tanto un cambiamento di lingua quanto di registro ed erano dettate da usi e necessità familiari: «Quando parlavo con la mia nonna paterna lo facevo in un modo che poi scoprii chiamarsi inglese, e quando parlavo con mia madre o i miei nonni materni lo facevo in un linguaggio che poi risultò essere lo spagnolo». Abolendo distinzioni e gerarchie (lingua madre/lingua di cultura, originale/traduzione, lingua uno/lingua due), l'esperienza del bilinguismo gli spiana il cammino verso nuove forme di esperienza parassitaria: traduttori infedeli, lettori strabici, commentatori distratti, prefatori digressivi, curatori smemorati, antologisti arroganti. Non che smettano di vampirizzare l'organismo alle spalle del quale vivono; spingono, anzi, la vampirizzazione alle sue estreme conseguenze, finché, ebbri di sangue altrui, tradiscono la condizione della loro specie e producono qualcosa di nuovo. | << | < | > | >> |Pagina 122Formalmente, l'articolo è impeccabile. Rispetta tutte le regole della «buona» recensione letteraria: presentazione del libro e dell'autore, descrizione della sua fortuna editoriale, riassunto della trama, comprensione del tema, valutazione, affinità letterarie con altre opere. Formalmente, il delitto è perfetto. Il libro di Bahadur, com'è ovvio, esiste solo nell' immaginazione di Borges, il che non significa esattamente che non esista: significa che esiste nella misura in cui la recensione di Borges lo presuppone. «La ricerca di Almotasim» conduce la letteratura parassitaria al culmine: al suo limite estremo e anche all'autoannullamento. Borges, da buon parassita, commenta e si nutre di un libro altrui, ma quel libro non è che una creazione del commento; il libro-madre (il libro di Bahadur) è, in un certo senso, figlio del commento che lo descrive. L'autore è un semplice assunto del critico, l'opera originale è originata dalla recensione che ne dà conto, ciò che dovrebbe preesistere altro non è che un effetto retrospettivo.Siamo arrivati al cuore della vertigine borgesiana. Prima/dopo, causa/effetto, primario/secondario, originale/derivato: tutte le categorie su cui riposa il senso comune, sconvolte da un vento strano, sconosciuto, sembrano essersi messe d'un tratto a delirare, come avviene con gli anelli di Moebius e con le architetture impossibili di Escher. Ma Borges non si ferma qui. Sette anni dopo aver pubblicato «La ricerca di Almotasim» in una raccolta di saggi - ovvero: come un saggio -, Borges decide di inserirlo nel Giardino dei sentieri che si biforcano, il suo primo libro di racconti. Vale a dire: lo ripubblica come racconto. | << | < | > | >> |Pagina 144Borges discute sulle pagine dei giornali le stesse questioni che lo preoccupano quando scrive per Sur o che folgorano il lettore, circonfuse di una nube di erudizione, nei suoi libri: il paradosso del bugiardo, il teorema di Gödel, la quarta dimensione, l'eternità, l'infinito, il doppio, la metafora, le aporie della filosofia greca, il nominalismo... Cita gli stessi libri, esalta gli stessi scrittori, traduce le stesse letterature. Non è accondiscendendo che risponde alle coazioni del contesto giornalistico. Quando presenta James Joyce su El Hogar, quando sminuzza Democrito di Abdera sulla Revista multicolor de los sábados, Borges, invece di alleggerirsi o scendere a compromessi, diventa più borgesiano che mai: scrive la sua Enciclopedia Britannica personale, immagina una realtà più complessa di quella che spiega al lettore e ne riferisce le conseguenze e gli effetti, riscrive e contamina, riduce l'intera vita di uno scrittore o di un pensatore a due o tre scene, trascrive e traduce. Ma soprattutto opera in una zona familiare, molto personale, che forse merita più di ogni altra il nome di terra borgesiana: lo spazio che si apre tra due registri, due percezioni, due forme di ragionamento, due linguaggi.Forse questo spiega alcune delle persistenti predilezioni di Borges. Il paradosso di Achille e la tartaruga, per esempio. Ad affascinare Borges non è solo la vertigine prodotta dall'idea di uno spazio e di un tempo infinitamente divisibili; è, principalmente, la capacità straordinaria che quest'idea (astratta, difficile, speculativa) ha di incarnarsi in narrazioni che appartengono a un altro ordine (figurativo, narrativo, logico, eccetera) e che tuttavia sono chiamate a illustrarla, a tradurla, a spiegarla. Il paradosso di Achille e la tartaruga è l'esempio perfetto della doppia frequenza borgesiana: il greco più veloce della Grecia e l'animale più lento del mondo impersonano l'infinita divisibilità dello spazio, ma nel momento stesso in cui lo fanno la rendono astrusa, inquietante, la spingono al limite dello sbigottimento o dell'imbecillità: com'è possibile, a pensarci bene, che Achille non raggiunga mai la tartaruga? In questa corsa improbabile una strana coppia di eroi raffigura, rappresenta, mette in scena una certa idea dello spazio per renderla visibile, ma la rappresentazione non è al cento per cento innocua, e la messa in scena, pur rispettando alla lettera il copione scritto da Zenone, introduce un'inaspettata aggiunta di assurdità. È allora, direbbe Borges, che un'idea (filosofica, religiosa, scientifica, matematica) si trasforma in un embrione di storia e diventa letterariamente produttiva. | << | < | > | >> |Pagina 1509. FOLLE ERUDIZIONEAnni, decenni interi consacrati a pensare all'erudizione di Borges o, al contrario, a non pensarci e a darla per scontata, a riproporre i valori che il senso comune associa con l'erudizione - «cultura», «elitarismo», «ermetismo», «accademismo» -, e tutto perché alla fine Borges, o non esattamente lui, ma quei suoi scritti che ritornano, affiorano, emergono, che non finiscono mai di venire alla luce, oscuri e arroganti, spinti dall'entusiasmo un po' prepotente della rivalsa, usciti dalle profondità del giornalismo popolare, delle riviste di attualità, dei quotidiani, tutto perché quegli scritti, alla fine, mostrino con la crudezza della loro luce - un autentico Borges tra le creme di bellezza! - che l'erudizione borgesiana è un'altra cosa, è sempre stata un'altra cosa, e non solo nel campo di battaglia del giornalismo ma anche, e soprattutto, nello spazio autosufficiente e sovrano dell'alta letteratura... | << | < | > | >> |Pagina 158[...] l'infinito in J.W. Dunne e F.H. Bradley, due dei filosofi che Borges evoca per decifrare gli esperimenti letterari di uno scrittore apocrifo di nome Herbert Quain, ma anche in Zenone, che non finisce mai di suddividere lo spazio, o in Platone che, come Bradley, immagina una specie regressiva, gli Autoctoni, che passano dalla vecchiaia alla maturità, dalla maturità all'infanzia e dall'infanzia alla scomparsa e al nulla... In realtà, sotto lo sguardo di Borges, tutti i sapienti del mondo possono essere degli idiots savants. Anche Benedetto Croce, «sterile ma brillante»; anche i tedeschi, artefici di «enormi edifici dialettici, sempre infondati ma sempre grandiosi». Anche Leibniz e Spinoza; anche Democrito, con la vertigine del suo paradosso del bugiardo. Come al solito, Borges evita di ripetere, nel percorrere la storia del pensiero, il discrimine «ufficiale» che separa i grandi nomi dai nomi minori; piuttosto, esplora i concetti che, come quello di infinito, «corrompono e rendono insensati gli altri», i momenti in cui la storia del pensiero si sforza di pensare e affonda irrimediabilmente nei «labili ed eterni interstizi dell'irragionevolezza». Gli idiots savants di Borges non sono idioti che giocano a pensare, sono pensatori idiotizzati dal pensiero stesso, dall'esercizio accanito, intransigente e brutale del pensiero: sono andati troppo oltre, hanno spinto il pensare e il pensiero fino all'estremo limite, là dove il pensiero coincide con l'impossibilità di pensare, dove il pensiero più profondo e l'idiozia più idiota diventano la stessa cosa e sono rasi al suolo, devastati, da una sorta di interminabile smarrimento. |