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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione 9 Introduzione alla terza edizione Parte prima Le paure dell'urbanistica 13 Capitolo primo La paura della crescita urbana 37 Capitolo secondo Il distacco dal terreno 57 Capitolo terzo Demolizioni 71 Capitolo quarto Foreste urbane 85 Capitolo quinto La città come farmaco 109 Capitolo sesto IN.FRA strutture Parte seconda Frammenti 127 Capitolo settimo Città senza reti. Roma 137 Capitolo ottavo Ripensare Pescara 147 Capitolo nono I porti della città. Venezia 157 Capitolo decimo La città elettrica. Napoli 171 Capitolo undicesimo Il vuoto della diffusione 179 Capitolo dodicesimo Periferia In 189 Capitolo tredicesimo Altri paesaggi 197 Capitolo quattordicesimo "E meglio discutere di uno sgabello che di un urbanista" 209 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 7IntroduzioneTra le ragioni del fallimento dell'urbanistica nei confronti del controllo funzionale e qualitativo delle grandi città ci sono alcune radicate paure. Paure e tensioni che attraversano lo sviluppo della disciplina e condizionano ancora oggi la ricerca di comportamenti innovativi, non solo nella pratica urbanistica del piano, ma anche nella cultura visiva attraverso cui ci poniamo di fronte al territorio urbanizzato. Le paure producono disagio e incertezze, bloccano il dibattito, impediscono di cogliere l'inerzia delle derive culturali che frenano il cambiamento. C'è un distacco tra il sapere consolidato della disciplina e le nuove condizioni dello sviluppo urbano. Le paure offuscano la visione di tali condizioni, rendono difficile la loro comprensione. Alla complessità non corrisponde un'apertura, ma un sapere riduttivo e statico. Manca una progettualità complessiva, in grado di ricollocare l'urbanistica nella politica e nella cultura, dandole senso e prospettiva. L'urbanistica si è separata dall'architettura. Questa (recente) separazione nasconde altre fratture e altre lacerazioni profonde. L'urbanistica si è allontanata dal suolo, dalla città fisica, dalla sua carica simbolica, dalle pratiche sociali, dalle comunità, dalle loro aspirazioni, dalla loro domanda d'identità e di futuro. Le paure sono numerose e ingombranti: paure nei confronti della crescita urbana, della rendita, dell'individualità, della demolizione, del luogo, delle nuove forme di edificazione. A volte sono tanto visibili da non essere più colte, altre volte, invece, sono inconsce, striscianti, sotterranee. Per superarle c'è bisogno di sgombrare il campo dalle loro incrostazioni e definire un progetto di cambiamento. Sarà necessario iniziare ad analizzarle e conoscerle più a fondo. | << | < | > | >> |Pagina 13Capitolo primo
La paura della crescita urbana
Puoi riprendere il volo quando vuoi, mi dissero, ma arriverai a un'altra Trude, uguale punto per punto, il mondo è ricoperto da un'unica Trude che non comincia e non finisce, cambia solo il nome all'aeroporto. Italo Calvino
Il rifiuto della crescita urbana, come fattore negativo, sia sul
piano sociale che su quello estetico, è forse l'esempio più evidente delle paure
che attraversano la disciplina urbanistica. Il timore viene da lontano e
dimostra inequivocabilmente come all'inerzia della città, al suo lento
trasformarsi, corrispondano saperi e comportamenti anch'essi di lunga durata.
Nostalgia della "città corpo" Indubbiamente molta parte della nostra cultura visiva, del nostro modo di intendere e di percepire lo spazio, è rimasta legata alla nozione rinascimentale della città come forma chiusa, geometrica, limitata. Una città come sistema unitario, in cui tutte le parti sono correlate e proporzionate. Alla fine del Quattrocento Francesco di Giorgio Martini affermava che la città non di un membro, ma di tutto il corpo deve avere similitudine, perché come una parte alla parte cosi tutto al tutto debba essere equiparato; all'inizio del Seicento, Vincenzo Scamozzi era ancora legato alla metafora della città corpo: "le città sono corpi umani e gli altri edifici vengono ad essere come membra di esse". È lo sguardo prospettico che ricostruisce l'unitarietà e l'ordine della città corpo. Tale sguardo ha bisogno di un limite, di punti di vista privilegiati, da cui si possa riconoscere sia la forma urbana complessiva, che le sue singole parti. La città era, allora, completamente definita dalle sue architetture. La sensibilità visiva della città di antico regime è chiaramente riassunta dalle parole di Montesquieu: quando arrivo in una città, salgo sul più alto campanile o sulla torre più alta, per avere una veduta d'insieme, prima di vedere le singole parti, e nel lasciarla faccio la stessa cosa per fissare le idee. Mentre la metafora della città corpo sarà dissolta dalle grandi dimensioni assunte dalle maggiori capitali europee (Parigi e Londra avevano perso definitivamente la riconoscibilità della loro forma urbana nel corso del Seicento), il bisogno di porre un limite alla crescita demografica e di perimetrare la città con una figura geometrica semplice resterà profondamente radicato nella cultura urbanistica successiva e giungerà fino ai nostri giorni. La paura dello sviluppo demografico e fisico della città è chiaramente rintracciabile nel pensiero fisiocratico, quando per la prima volta si denunciano gli squilibri territoriali prodotti dal gigantismo delle città capitali. La crescita di Parigi appare a Mirabeau come qualcosa di mostruoso, di aberrante, che conduce alla morte: una capitale è tanto necessaria allo stato, quanto la testa al corpo, ma se la testa ingrossa soverchiamente, il corpo diviene apoplettico e tutto perisce (Mirabeau 1783, p. 93). Nelle utopie del Settecento, i mali delle grandi città sono denunciati sistematicamente. Le nuove proiezioni urbane sono basate sull'ordine geometrico, sull'igiene, sulle opere pubbliche, ma tutte richiedono un limite alla crescita: così Lunol ha solo 650 mila abitanti, Sevariade 267 mila e Leliopoli 600 mila. Nell'antichità e nella città di antico regime la dimensione demografica è fortemente condizionata dai rifornimenti alimentari; solo le capitali e le grandi città mercantili, inserite nei circuiti commerciali nazionali e internazionali, riescono, non senza preoccupazione, a liberarsi da questo vincolo. Non è soltanto una questione quantitativa, legata alla sopravvivenza: il limite è richiesto per ragioni politiche, etiche, di controllo sociale. Ancora una volta sono gli utopisti a rappresentare la richiesta di fissatà. Popolazione urbana e forma della città sono rigidamente definite. Amaruoto, la città capitale di Utopia (ma lo stesso vale per tutte le altre città dell'isola felice di Tommaso Moro), non può modificarsi, non può crescere. I suoi ritmi sociali, come le sue architetture e i suoi tracciati, sono eterni (Choay 1980, pp. 181-184). La medesima fissità dei modelli spaziali dell'utopia è rintracciabile nei comportamenti progettuali dell'architettura e dell'urbanistica: dal Rinascimento a oggi la tendenza a circoscrivere, a delimitare, a configurare definitivamente l'assetto urbano non ha ancora esaurito la sua tensione vitale. La paura della crescita diviene ossessiva con l'affermazione della città capitalistica. Proprio quando lo sviluppo della produzione e della circolazione delle merci sembra poter assicurare una crescita illimitata, il rifiuto della grande dimensione apparirà sempre più netto. Sul piano teorico e dei contenuti operativi l'urbanistica moderna sarà, fin dalle origini, profondamente antiurbana. La grande dimensione della città industriale è rifiutata da tutti gli utopisti dell'Ottocento. Il male città è superato attraverso il decentramento, attraverso la diffusione nel territorio di unità insediative contenute, definite nel numero degli abitanti e nella forma urbana. Il falansterio di Fourier ha una popolazione di milleseicento persone e una configurazione precisata nel dettaglio; le comunità ideali di Owen hanno in media milleduecento abitanti e una forma quadrangolare. Più tardi, nella seconda metà dell'Ottocento, il medico utopista Richardson fissa per Higeia, la città dell'igiene, una popolazione ottimale di sole centomila persone; mentre Morris nel suo News from Nowhere, pur non definendo la popolazione di Londra (proiettata nel 2000), la immagina fortemente ridimensionata. Con l'affermarsi dell'urbanistica moderna, l'orientamento prevalente è il rifiuto della grande dimensione: la popolazione della città giardino di Howard è di trentamila abitanti e solo in alcuni casi arriva a 58.000, quella della città industriale di Garnier è di trentamila persone, mentre quella della città comunista di Strumlin, gravitante su una fabbrica di diecimila operai, è fissata in 28.300 residenti. | << | < | > | >> |Pagina 27Intervenire sulla "città esistente"La periferia come città esistente è una nuova metafora. Dietro la suggestiva sintesi di tale immagine occorre riconoscere, tuttavia, che esistono una pluralità di dimensioni d'intervento, una molteplicità di tempi di trasformazione. Occorre saper cogliere le differenze: le metropoli e le città intermedie, la città diffusa e i piccoli centri; le reti e i circuiti di livello superiore (in cui l'internazionalizzazione degli scambi impone velocità crescenti e alta tecnologia) e le reti di livello locale dai ritmi più lenti e pacati; le aree di rapida trasformazione e innovazione (i grandi porti, i poli tecnologici, i centri direzionali...) e quelle di maggiore staticità; i cangianti territori della mobilità sociale e quelli della stabilità. La città esistente è straordinariamente complessa: il breve periodo coesiste con la lunga durata; l'eterotopia e l'assenza di luoghi non escludono il bisogno di centralità; l'alienazione e il distacco del nuovo flâneur metropolitano s'intrecciano con la ricerca di senso e di identità; al degrado e all'abbandono di interi territori si contrappone l'avveniristica infrastrutturazione di alcune aree (si pensi ai grandi terminali di scambio, a quello che sta avvenendo ad esempio nelle aree interessate dal tunnel sotto la Manica). Nella città esistente una pluralità di parti attendono di essere riconosciute: il centro storico, le prime espansioni, le numerose periferie recenti, ogni parte richiede una differente metodologia d'intervento. E non si tratta soltanto di tenere conto delle specificità dei luoghi, della permanenza delle strutture insediative, della diversa qualità dei tessuti urbanistici. Il nuovo progetto urbano non può non reinterpretare le procedure di formazione delle diverse parti di città, coglierne le intenzionalità estetiche, le regole progettuali, le differenti modalità di apprendimento e di fruizione. Anche se per grandi linee è necessario iniziare ad avventurarsi in questa complessa vicenda. Se l'intervento si sviluppa all'interno dei centri storici tradizionali, un elemento centrale del progetto sarà certamente la rivisitazione del principio estetico della città corpo, attraverso cui, come si è ricordato, ogni parte della città era vista come correlata all'altra, in un insieme dimensionato e unitario. La città come grande casa, come sistema organico di architetture, era percepita attraverso lo sguardo prospettico: quello unitario e totalizzante delle visioni a volo d'uccello (si pensi alle rappresentazioni cartografiche degli Atlanti) e quello settoriale della prospettiva centrale per l'apprendimento degli spazi urbani delle strade e delle piazze. Nella città classica lo sguardo prospettico, lo ha sottolineato di recente Leonardo Benevolo, aveva una profondità limitata: solo alcune centinaia di metri, pena la perdita di identificazione delle singole architetture (Benevolo 1993). Intervenire nella città classica comporterà una riconsiderazione e probabilmente la conservazione di tale cultura percettiva. Una ragione in più per restituire i centri storici ai ritmi lenti del traffico pedonale. La crisi della città di antico regime coincide con la caduta del principio estetico della città corpo: con Piranesi, con Laugier, abbiamo già la piena consapevolezza della necessità di un nuovo codice estetico: non più un ordine geometrico, dimensionato e finito, ma una pluralità di centri e di aperture prospettiche. Il progetto, ma anche l'osservatore, si aprono alla grande dimensione, all'infinito. L'estetica del giardino all'inglese, in cui viene proposta, attraverso un percorso, una percezione dinamica e narrativa dello spazio, conduce decisamente alla sensibilità moderna delle folle solitarie e nello stesso tempo partecipi di Baudelaire. È nei grandi boulevard di Parigi che si sperimentano le nuove modalità di fruizione della metropoli. Lungo i grandi assi l'apprendimento prospettico dello spazio e il principio della città corpo non valgono più; la lunga distanza non consente di percepire le singole architetture e di ricostruire in un'immagine unitaria lo spazio urbano. Si coglie la successione degli edifici, la loro serialità, la ripetizione del tipo edilizio; all'estremità del rettilineo si percepiscono le sagome dei nuovi terminali (l'Arc du Triomphe, il teatro dell'Opéra, la stazione ferroviaria). Per la prima volta si scopre l'effimera bellezza delle luci, del movimento, del sovrapporsi dei suoni, dell'esibizione nei caffè. La percezione dello spazio urbano, anche se interrotta dal grande spettacolo della città, trova i suoi punti di riferimento nella continuità dei filari alberati, nella prevedibilità delle sequenze, nei grandi fondali dei boulevard, ove converge il flusso e l'attenzione dei passanti. Lo spazio urbano viene assimilato attraverso un percorso; il suo apprendimento è il risultato di una ricostruzione mentale, di un esercizio intellettuale che riordina immagini, emozioni, episodi. La metropoli tra Ottocento e Novecento resta profondamente legata alla città storica, per questo possiamo definirla postclassica. | << | < | > | >> |Pagina 32Quest'ultima via ci sembra di particolare interesse e molto in linea con il discorso finora svolto. Non solo dobbiamo scrollarci di dosso la paura della crescita, ma nel nuovo progetto urbano, occorrerà restituire senso e riconoscibilità alle varie parti della città. Non in astratto, ma attraverso la conoscenza dei loro processi formativi e di assimilazione; non con distacco, ma sviluppando una nuova attenzione per le molteplici popolazioni urbane.L'urbanistica deve recuperare la sua componente utopica, la sua tensione positiva, il suo dover essere costantemente progetto migliorativo. Nel nuovo scenario, la grande città senza confini dovrà trasformarsi in un sistema con i suoi centri, le sue strutture forti, le sue gerarchie, la sua figuratività. Un sistema in cui sia possibile ancora radicarsi nei luoghi, riconoscerli nel loro evolversi, coglierne le permanenze, le memorie, le dinamiche in atto; un sistema che ridia senso alla città preesistente e identità alla folla dei nonluoghi. Il riordino delle periferie e della città diffusa sarà sempre più affidato alle reti infrastrutturali e alle grandi opere pubbliche. In questa prospettiva, dovremo attingere ancora alle grandi intuizioni della modernità: alle griglie dei tracciati urbani nord-americani, che nel loro farsi strada nelle foreste, imponevano un nuovo ordine sia alle città che alla natura; ai modelli di Cerdà, di Sória y Mata, e di Wright soprattutto, che lucidamente assegnava all'architettura delle grandi infrastrutture viarie il compito di ordinare il paesaggio diffusamente urbanizzato di Broadacre City. Occorrerà penetrare la periferia come una foresta. Attraverso reti tecnologiche, risolte sul piano dell'architettura, potremo restituire efficienza e qualità al territorio. Con l'introduzione di spazi liberi e di parchi urbani sarà possibile dividere la compattezza della periferia in parti più dimensionate, in cui approfondire le metodologie del site planning. La strategia per essere credibile dovra procedere con cautela. In una fase di scarsità delle risorse occorrerà selezionare e valutare gli interventi in base alla loro efficacia e priorità. | << | < | > | >> |Pagina 127Capitolo settimo
Città senza reti. Roma
Il nuovo Piano regolatore di Roma cela dietro la sua accattivante serenità i segni profondi della crisi della cultura urbanistica del nostro Paese. Dietro l'enunciazione delle certezze e dei punti fermi per l'assetto urbanistico della città, è difficile non intravedere la difficoltà di legare il piano alle esigenze dello sviluppo e alle politiche infrastrutturali. In questo senso, il piano nello stile dei suoi enunciati e nella forma degli elaborati, è un piano di transizione, una versione aggiornata di una strumentazione urbanistica tradizionale, aperta, tuttavia, ad alcune innovazioni (la perequazione, una struttura processuale, la concertazione per i progetti urbani complessi, un ampio ricorso all'intervento diretto). Da molto sappiamo che tra il tempo di formazione e attuazione dello strumento urbanistico e quello delle politiche economiche e sociali c'è una distanza crescente. La velocità del piano non è quella della città reale. Ci sono parti urbane in cui l'inerzia prevale sulla trasformazione, ma in molti ambiti la domanda di infrastrutturazione e organizzazione richiede tempi rapidi di realizzazione, con procedure più flessibili ed efficaci. Si pensi, in proposito, alla domanda di trasformazione del distretto industriale lungo la via Tiburtina, alla riorganizzazione della rete distributiva o, per un altro verso, alla dispersione degli insediamenti della direzionalità. Manca a Roma una vera pianificazione strategica in grado di interpretare le esigenze dello sviluppo e del cambiamento sociale per proiettarle in scelte di piano in grado di restituire alla città efficienza, opportunità d'investimento, vivibilità, ma anche immagine e rappresentazione. Il fatto che tardivamente l'amministrazione abbia affidato a nuovi consulenti l'incarico di approntare un documento circa lo sviluppo economico della città mette a nudo la separazione tra il piano urbanistico e quello per lo sviluppo. Al primo si chiede di dare struttura all' urbs, al secondo di prefigurare la struttura economica e sociale della civitas. Da questa separazione non può nascere nessuna idea di città, nessun programma di opere e di infrastrutture capace di rappresentare sul piano simbolico (ma anche di marketing) un'immagine urbana condivisa e radicata in un progetto di cambiamento. Analogamente il piano urbanistico continua a essere scisso dalle politiche infrastrutturali: sia da quelle ordinarie (di manutenzione e di adeguamento), sia da quelle di livello metropolitano-territoriale. Le ragioni di questa scissione sono note: la settorializzazione delle competenze, la frammentazione dei momenti decisionali, l'autonomia degli enti di gestione delle reti (in particolare FF.SS.), l'insufficienza delle risorse locali, ma anche il distacco culturale tra urbanistica, architettura e opere infrastrutturali. Quest'ultimo aspetto è relativamente recente. In passato, i piani erano strettamente connessi al sistema degli spazi pubblici e delle infrastrutture. In fondo, il Piano del '62 tentava, con l' asse attrezzato, di legare lo sviluppo alla forma urbana, la grande opera infrastrutturale alla qualità spaziale della città. Il Piano del '62 concludeva per Roma il ciclo della modernità. Da allora le varianti, gli adeguamenti, le salvaguardie hanno gestito soltanto l'imponente crescita edilizia residenziale, le iniziative immobiliari e il risanamento delle periferie abusive. In realtà alcune premesse del nuovo Piano regolatore sembravano andare in una direzione decisamente innovativa: il piano urbanistico doveva intrecciarsi con il piano della mobilità e delle grandi infrastrutture. Le reti e i nodi divenivano gli ambiti strutturanti la forma urbana e dello sviluppo, il sistema della mobilità doveva riarticolare le molteplici parti della città, conferendo alle diverse periferie nuove centralità. In prospettiva, si poteva leggere la volontà di individuare nello spazio delle reti infrastrutturali nuove opportunità d'investimento per gli operatori pubblici e privati e nuove occasioni per la riqualificazione urbana (questo era il senso delle porte urbane, dei nodi di scambio, dei parcheggi di quartiere). L'integrazione del piano della mobilità e delle opere pubbliche con il piano urbanistico si poneva come reale nodo strategico per le politiche urbane dell'amministrazione. Dividere le competenze dell'Assessorato alle Politiche del territorio (responsabile del nuovo Piano regolatore) da quelle dell'Assessorato per la Mobilità e i Trasporti, è stato il segno premonitore delle conflittualità latenti nel progetto di coordinamento dei centri decisionali ed operativi per gli interventi territoriali e urbanistici (la medesima scissione è del resto riscontrabile nell'amministrazione regionale e centrale). | << | < | > | >> |Pagina 133Abitare tra le retiNella bozza del nuovo Piano regolatore troviamo un avanzamento concettuale di rilievo rispetto al piano delle certezze. La struttura del piano non è più descritta in relazione ai sistemi ambientale, della mobilità e insediativo, ma alle loro reti. Nonostante tale nuovo orientamento, la nozione di rete rimane sullo sfondo, non viene sviluppata in profondità. La nozione di rete deriva da una metafora biologica, evoca la continuità, la circolarità, la correlazione, la flessibilità, l'interconnessione, non solo all'interno delle singole tipologie di rete, ma tra reti diverse. Molto schematicamente le reti afferiscono a una scala territoriale-metropolitana (la grande mobilità, le grandi infrastrutture, la grande rete produttiva e commerciale, l'ambiente) e a una scala insediativa-residenziale (lo spazio dell'abitare, della viabilità secondaria, delle reti tecnologiche minori). La riorganizzazione della città richiede un sistema efficiente di reti. Dobbiamo riconoscere che tale sistema a Roma è largamente imperfetto. Roma è una città senza reti, nel senso che le sue reti sono insufficienti, inadeguate, sconnesse. Nella rete della mobilità troviamo molti elementi mancanti e le strozzature maggiori: la rete stradale è insufficiente; quella metropolitana-ferroviaria ancora inadeguata; tra i due sistemi mancano molte interconnessioni; la rete insediativa, che dovrebbe connettere e dare struttura e identità alle varie parti urbane, non traspare con forza. Le tante città di Roma sono separate, compresse tra infrastrutture viarie congestionate. Il sistema ambientale è disperso, privo di continuità: più che una rete di aree verdi, di parchi e di riserve si realizza come un insieme di isole, come un arcipelago. Le reti andrebbero tra loro interconnesse: la rete ambientale con quella infrastrutturale e insediativa, quest'ultima con quella della mobilità. I nodi di interconnessione e di sovrapposizione dovrebbero porsi come i luoghi del progetto e delle nuove centralità. Nel nuovo Piano regolatore questa visione di reti interconnesse non emerge. Le reti sono viste in modo settoriale. La rete ambientale, in particolare, è intesa come vincolo, come risorsa immodificabile, come spazio vuoto che rifiuta ogni incontro con le reti tecnologiche e infrastrutturali. La città delle reti interconnesse rimane un obiettivo. In prospettiva, la strumentazione urbanistica sarà sempre più una pianificazione di reti. Vale la pena, in conclusione, sviluppare brevemente questo tema, soffermandoci in particolare sulle reti minori. L'abitare contemporaneo è fortemente condizionato dalle reti. Si abita tra le reti della grande viabilità, tra le maglie delle grandi infrastrutture. L'abitare è compresso dalla loro presenza. La trama delle reti maggiori frammenta i circuiti minori, ostacola gli attraversamenti locali, disarticola le città in particelle, destruttura l'unità dei quartieri e degli insediamenti periurbani. La città, dominata dalle reti infrastrutturali che garantiscono collegamenti sulla media e lunga distanza, ha perso la permeabilità e la continuità degli attraversamenti locali. L'abitare non si espande verso la città e il territorio, ma rifluisce nei recinti della residenza e dello spazio privato. E qui assistiamo a due fenomeni convergenti: da un lato c'è un'estensione progressiva delle reti telematiche (che in definitiva stanno connettendo l'intero sistema degli interni), dall'altro si sta progressivamente contraendo lo spazio pubblico esterno. Quest'ultimo non è più lo spazio di tramite tra le case e la città, tra l'individuo e la comunità. Il suo ambito tende a scomparire dall'attenzione progettuale. Tra le abitazioni e la trama delle reti maggiori vi è uno spazio indefinito, frammentario, occasionale, senza identità. In questo spazio la circolazione automobilistica domina su quella delle persone. Lo spazio è letteralmente invaso dalle lamiere, occupato da auto in sosta e in transito. L'attraversamento viene respinto, ostacolato, reso insicuro e incerto. A ben vedere, nell'abitare contemporaneo l'anello mancante su cui concentrare l'attenzione sta proprio nell'assenza di una rete minore specifica dello spazio residenziale. In fondo la rete minore ha la funzione di misurare lo spazio tra le reti. In questo senso il disegno della città non è il risultato di una meccanica sovrapposizione delle reti maggiori su quelle minori, ma piuttosto della loro integrazione. La riflessione sul ruolo delle reti nell'organizzazione funzionale, spaziale e visiva del territorio e della città è il punto di partenza per orientare una nuova strumentazione urbanistica. In modo molto sommario potremo parlare di due livelli di piano: il piano delle reti di livello superiore (in cui si giocano i processi di trasformazione e modernizzazione) e il piano delle reti minori legate al sistema insediativo e all'abitare (dove le trasformazioni sono più contenute e le identità locali più stabili).
Il primo livello esige una copianificazione ampia (dal Comune, alla
Provincia, alla Regione, allo Stato, agli Enti di gestione delle reti, ai
privati ...), con procedure di formazione e di approvazione specifiche. Il
secondo, più strettamente legato all'urbanistica locale, ai mandati delle
amministrazioni, alle esigenze economiche della comunità, ai bisogni e ai
desideri dei cittadini, si esprime sulle parti della città maggiormente
consolidate. Esso dovrebbe essere gestito, anche nelle sue procedure di
approvazione, direttamente dall'amministrazione comunale.
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