|
|
| << | < | > | >> |Pagina 9«Signore! Un omicidio, signore!» Il guardia Adolfo Jiménez entrò battendo i tacchi e si portò fino alla piatta superficie che il suo ufficiale comandante si compiaceva di chiamare scrivania e dove fece un rigido saluto. Sfortunatamente, l'ultimo colpo di tacchi di Jiménez fece muovere la copia malridotta di La Espana del Cid che sosteneva la quarta gamba del tavolo, e svariate carte caddero dal piano. Il tenente Ramos sistemò le scartoffie rimanenti e alzò lo sguardo furioso sulla giovane recluta. «Bene, avete arrestato il colpevole?» domandò con impazienza. «No, tenente!» rispose Jiménez salutando di nuovo, ma guardandosi bene dal battere i piedi. Il terzo uomo presente nella stanza si curvò con discrezione e cominciò a raccogliere da terra i fogli che vi erano caduti. Li sbirciò mentre si raddrizzava, tentando d'indovinare a quali pile appartenevano: un ordine di requisizione di duecento cartucce, una denuncia scritta a mano di qualcuno chiamato Méndez, lo schema delle assegnazioni alla pattuglia notturna e due promemoria dattiloscritti del comandante di divisione. Dopo un momento, li radunò cautamente e li dispose a casaccio sul tavolo. «Allora, dannazione, perché venite da me?» domandò il tenente. «Il vostro compito è ripristinare l'ordine pubblico. Dunque, datevi da fare. Grazie, Tejada», aggiunse quando i fogli furono rimessi a posto. «Pensiamo che l'omicida sia un rivoluzionario, tenente», spiegò Jiménez. Il sergente Tejada riflettè: dare dell'assassino a un rosso era come dire che il sole sorgeva a est. «Come mai questo sospetto, guardia?» chiese. Jiménez si lasciò andare all'ennesima battuta di piedi, costringendo entrambi i suoi superiori a chinarsi a raccattare fogli. Assunse un'aria mortificata. Tutte le reclute consideravano con ammirazione il sergente Tejada Alonso y Leon. Non molti uomini che iniziavano come guardias diventavano ufficiali, addirittura col grado di sergente, prima del loro trentesimo compleanno. E Tejada per di più si era arruolato nella Guardia in ritardo provenendo da un'università anziché da una delle accademie militari. «La vittima era un guardia civil, signore. Col grado di caporale, signore.» «Diavolo!» L'attenzione del tenente Ramos era stata risvegliata. «Uno del nostro battaglione?» «Non credo, signore. Non aveva documenti d'identificazione con sé. Solo l'uniforme.» «Povero bastardo.» II tenente mescolava furiosamente i documenti. «Invierò una nota agli altri comandi per chiedere chi manca. Accidenti, dov'è finita la carta carbone? Oh, grazie, Tejada.» Scoprì una vecchia macchina per scrivere portatile e vi inserì il foglio che il sergente gli aveva allungato. «Andate voi a dare un'occhiata, vi dispiace? E arrestate chiunque nel quartiere abbia un'aria sospetta. Se sono rivoluzionari, metteteli al muro. Portate Jiménez con voi.» Tejada salutò, in qualche modo riuscì a battere i tacchi senza far cadere nessun incartamento e uscì senza dire una sillaba. Jiménez lo seguì, eccitato per l'incarico di accompagnare il sergente. Una volta fuori dalla caserma improvvisata, in realtà il dormitorio abbandonato dell'università requisito qualche mese prima, Tejada si voltò verso il sottoposto. «Dove andiamo?» «Su, verso la stazione di Atocha, signore. In una viuzza, la Calle Amor de Dios.» Tejada torse appena la bocca. «Un nome non particolarmente appropriato. Fate strada, Jiménez.» Non dovettero camminare molto, e incontrarono pochissime persone. Erano quasi le otto di sera, e chi aveva ancora qualche provvista stava preparando la cena. Chi non ne aveva si apprestava a coricarsi. Fare una passeggiata serale era diventata un'abitudine pericolosa, e in una città priva di combustibile l'oscurità segnava l'ora di andare a letto. I pochi passanti per la strada si scostavano dai due guardias dal colletto rosso, come il polo nord di una calamità si allontana da quello di un'altra. Tejada amava il silenzio. Aveva quasi l'impressione di trovarsi in campagna, con le ombre che calavano così naturalmente e nessuna illuminazione stradale a escludere la vista della luna che saliva nel ciclo sopra la città. Una leggera brezza soffiava alle loro spalle. È tranquillo, pensò, subito sorpreso. Era trascorso molto tempo da quando aveva pensato alla tranquillità pensando il verbo al presente. Naturalmente sapeva che le luci stradali sarebbero state ripristinate, ma ugualmente sperava che rimanessero così com'erano quella sera: calme, silenziose e vuote, tranne per chi era impegnato in legittime mansioni. Niente dimostrazioni, si disse mentre attraversavano una piazza deserta con le rovine annerite di un edificio sventrato che s'innalzavano mute alla loro sinistra. Niente agitatori, sassaiole. Niente scioperi generali. Niente reati minori adesso una persona onesta potrà finalmente camminare per strada senza timore. Serrò la mascella rammentando il loro incarico. Le strade non erano ancora del tutto tranquille. Ma lo sarebbero diventate. Tejada non si faceva illusioni su quanto il tenente Ramos aveva inteso dire con «metteterli al muro». La giustizia, quella sommaria ed efficiente, era ancora necessaria a Madrid, anche se entro pochi anni sarebbe stato nuovamente possibile impreziosirla con le finezze legali. Jiménez interruppe il suo sogno a occhi aperti. «È proprio alla fine di questa strada, sergente.» Tejada annuì, ma senza replicare. Jiménez aveva troppa soggezione di lui per offrirgli lo spunto a ulteriori commenti. | << | < | > | >> |Pagina 47«Gonzalo! Che cosa ci fai qui? Ti ha dato di volta il cervello? Non sai che sparano alla gente per strada?» Manuela Arce cercò di chiudergli la porta in faccia. Ma senza riuscirci. Il piede di Gonzalo era saldamente infilato nello spiraglio. «Lo so. È il motivo per cui sono qui.» L'ex militare, dopo essersi appoggiato con entrambe le mani allo stipite, abbassò lo sguardo sulla polverosa rampa di scale dell'edificio. «La strada al momento è deserta, Manuela. E non mi ha seguito nessuno.» «Gesù, Gonzalo, mi dispiace se hanno arrestato Carmen. Mi dispiace enormemente. Ma non puoi restare qui. Perdonami, Gonzalo, ma ho dei figli e non posso rischiare.» Manuela cercò di sbirciare sopra la spalla di Gonzalo per vedere se qualcuno saliva le scale, un compito difficile visto che era diversi centimetri più bassa di lui. «Carmen sta bene», assicurò lui torvo. «Devo solo farti qualche domanda. E prima mi fai entrare, prima me ne vado.» «Gonzalo, non posso...» «Posso fartele anche da qui, se preferisci.» Guardò di nuovo la rampa. «Certo, potrebbe arrivare gente da un momento all'altro. Ma se proprio non vuoi lasciarmi entrare...» «E va bene!» Manuela armeggiò con la catena, poi spalancò il battente. «Vieni dentro, svelto. E stai lontano dalle finestre.» Gonzalo scivolò nell'appartamento. L'amica della sorella chiuse violentemente la porta alle sue spalle mentre lui attraversava l'anticamera ed entrava nel soggiorno ammobiliato unicamente con un tavolo, su cui erano ancora appoggiate delle tazzine da caffè, e un divano sopra il quale si stagliava la parete spoglia. Manuela non lo aveva invitato a sedersi, ma lui si lasciò ugualmente cadere sul sofà. «Ti sei sbarazzata della bandiera?» le domandò sardonico. «Gonzalo!» implorò lei. «Non fare pazzie.» La donna rimaneva in piedi, ovviamente sperando che il visitatore se ne andasse alla svelta. Un impulso diabolico a prendersela con comodo lo spinse a chiedere: «Allora, come stanno i bambini? E Javier?» Lei si portò una mano sulla guancia, come se lui l'avesse schiaffeggiata. «Sei un bastardo!» disse in un soffio. Gonzalo si appoggiò allo schienale e incrociò le gambe. «Spero che non sia disoccupato, al momento.» «L'hanno arrestato sabato», spiegò Manuela scoppiando a piangere. Gonzalo trasalì, poi scattò in piedi. «Gesù, mi dispiace, Manuela. Non lo sapevo. Pensavo... voglio dire, raccogliere l'immondizia non dovrebbe avere niente a che fare con la politica. Diavolo, sono spiacente, Manuela. Ti faccio subito un paio di domande e me ne vado.» «Se posso risponderti...» replicò lei in tono asciutto. «Carmen mi ha detto che sei stata tu a trovare Viviana.» Gonzalo dovette sforzarsi per pronunciare il suo nome. Manuela annuì. Gli aveva voltato le spalle e aveva cominciato a sparecchiare la tavola. «Ha detto anche che hai sentito... tutto quello che è successo quel venerdì sera», continuò lui. «Uno sparo, ho sentito uno sparo.» Manuela non sembrava più arrabbiata né rattristata, solo esausta. «Ma c'erano Javier e i bambini, e poi non erano affari che mi riguardavano.» Gonzalo sospirò. Pur non facendolo volutamente, così non lo aiutava. «All'incirca a che ora?» domandò senza eccessiva speranza. «La prima volta? Subito dopo che Juana e Cèsar erano tornati da scuola. Potevano essere le cinque e mezzo o al massimo le sei.» Gonzalo sbattè le palpebre per la sorpresa. «La prima volta?» ripetè. «Allora c'è stata una raffica di colpi? Hanno risposto al fuoco?» «No», rispose lei scuotendo il capo. «Solo uno sparo. Cèsar è uscito sul balcone e ha detto che c'era un guardia civil morto nella strada. Subito gli ho detto di lasciarlo lì dov'era. I guardias non girano mai da soli.» «Ma Viviana?» insistette Gonzalo. «Deve essere successo qualche ora dopo. Stavo preparando la cena quando ho sentito un altro sparo.» Manuela aveva finito di sparecchiare e stava pulendo il tavolo con uno strofinaccio. «Avete guardato fuori?» domandò Gonzalo. Lei si voltò e scosse la testa. «No. Se c'era uno della Guardia morto, voleva dire che da qualche parte nella via si nascondeva un cecchino. Sbirciare fuori non sarebbe stato prudente.» Trasalì. «Ho scoperto che era Viviana solo il mattino dopo. Se l'avessi saputo, sarei uscita, Gonzalo, te lo giuro. Avrei tentato di fare qualcosa.» Gonzalo chiuse gli occhi ricordando il foro di proiettile sulla testa di Viviana. «Non credo che sarebbe servito.» Manuela appoggiò lo strofinaccio e gli posò una mano sul braccio. «Mi dispiace. Era una ragazza meravigliosa.» Lui rimase zitto, non fidandosi della propria voce. L'ostilità di Manuela gli risultava più facile da sopportare della sua compassione. «Un esserino così donchisciottesco», commentò la donna in tono gentile. Lui annuì. «Pronta a battersi contro tutto l'esercito di Franco solo con un vecchio fucile.» Manuela sorrise appena. «Mi chiedo quanto tempo sia rimasta nascosta lì, in attesa di sparare. E come l'abbiano catturata.» Gonzalo fu sul punto di chiarire l'equivoco a Manuela, ma poi riflette che non ce n'era motivo. Anche il guardia civil doveva essere arrivato alla stessa conclusione. Perché cercare un fantomatico franco tiratore se si poteva giustiziare una repubblicana in carne e ossa? Ma ora che ci pensava, tuttavia, qualcosa nei tempi non gli tornava. «Hai detto che è trascorsa più di un'ora?» domandò. | << | < | > | >> |Pagina 112Vàsquez si ritrasse e con tatto chiuse la porta dietro di sé. Tejada fece del suo meglio per rimanere ben dritto, tristemente conscio di avere gli occhi gonfi di sonno, la barba di un giorno sulle guance e la mente annebbiata. «Buonasera, senorita...» Cercò frettolosamente di ricordare il nome. «Fernàndez», concluse dopo una pausa appena percettibile. Un vago ricordo delle buone maniere inculcategli in gioventù lo spinse ad aggiungere: «Quale inatteso piacere». «Molto gentile da parte vostra.» La nuova arrivata formulò le parole cautamente, pronunciandole sillaba per sillaba con una tale chiarezza che Tejada fu sorpreso nel constatare che in realtà parlava a voce molto bassa. La donna rimase immobile, con il soprabito ripiegato, poggiato sopra le braccia conserte. Sembrava perfettamente calma, ma pareva che non avesse nulla da dire. «Non volete sedere?» domandò Tejada prima che il silenzio si tramutasse in aperto imbarazzo. «E vi prego, ditemi il motivo di questa visita.» Lei sedette lentamente sull'orlo della seggiola che lui le aveva indicato, posizionando i piedi paralleli sul pavimento con la stessa precisa economia di movimenti che caratterizzava l'asciuttezza del suo eloquio. Teneva la schiena eretta e questo, insieme alla massa di capelli raccolti sul capo, ricordò vagamente a Tejada una ballerina. Lui si accomodò sulla sedia al di là del tavolo, domandandosi oziosamente se i capelli di lei fossero veramente così neri o se fosse solo un effetto della luce artificiale, con il colore scuro accentuato dal pallore del volto. «Spero...» lei esitò per un momento, «di non avere sbagliato a chiedere di parlare con voi personalmente, sergente. Ma pensavo...» «Sì?» intervenne Tejada per incoraggiarla a proseguire. «Mi avete posto svariate domande sul quaderno di Aleja Palomino.» L'insegnante parve giungere finalmente a una conclusione. «Posso chiedervi se il vostro interesse deriva dalla morte di uno dei vostri colleghi lo scorso venerdì?» Tejada aveva cercato di indovinare perché la senorita Fernàndez aveva cercato di lui, ma senza riuscirvi. Sarebbe potuta venire per conto di un prigioniero, ma lui non era propenso a crederla disposta a umiliarsi nel tentativo di ottenere favoritismi e inoltre aborriva l'idea che potesse essere legata in qualche modo a uno dei detenuti. Gli pareva inoltre impossibile che avesse altre informazioni da fornirgli mentre ora, al contrario, sembrava stranamente bene informata. Si allungò verso di lei. «E io posso chiedere che cosa vi ha suggerito questa idea, senorita?» «Alejandra oggi è tornata a scuola», spiegò lei. «Era molto agitata per avere smarrito il quaderno, e si è confidata con me.» Esitò. «Forse, sto tradendo la sua fiducia venendo qui.» Tejada trasse un profondo respiro e si assicurò che la voce fosse calma prima di parlare. «Apprezzo la vostra premura», disse sinceramente. «E vi assicuro di non avere alcuna intenzione di far del male ad Alejandra. In realtà, potrebbe essere più al sicuro una volta che saprò quello che ha da dire.» «L'ho pensato anch'io.» Un sorriso comparve fugacemente sulle labbra della donna. «Ma mi fa piacere che mi abbiate tranquillizzata in merito. Alejandra mi ha spiegato di avere perso il quaderno la scorsa settimana, mentre tornava a casa dopo la scuola. Dice che un uomo della Guardia Civil le è passato vicino e che poco dopo ha sentito dei colpi d'arma da fuoco. Era spaventata e si è nascosta. Poco dopo ha visto un guardia civil oltrepassare il suo nascondiglio. In un primo momento ha pensato che fosse lo stesso uomo, ma quando è uscita allo scoperto ha trovato il corpo di quello che aveva incrociato per strada. Si è resa conto che l'altro doveva averlo ucciso ed è scappata via. Capisco che probabilmente non vorrete cercare un vostro collega, sergente. Ma Aleja è una bambina sincera.» Tejada aggrottò le sopracciglia, scettico. «E il quaderno?» «L'ha lasciato cadere quando ha visto il morto ed è corsa a casa. Era spaventata, sergente.» Il primo impulso di Tejada fu di credere che lei avesse inventato quella storia per sviarlo. Elena Fernàndez era a conoscenza del suo interesse per il quaderno, e pertanto era la persona perfetta per presentarsi lì con quelle informazioni. Ma se il quaderno era collegato alla borsa nera sarebbe stata un'incredibile coincidenza che lei facesse parte della stessa cerchia di contrabbandieri. Oppure no? In quali circostanze Aleja aveva visto... qualunque cosa avesse visto? Provò un certo disappunto. Aveva ammirato la maestra per la sua compostezza e non poteva credere sul serio che fosse una criminale. Tuttavia... «Il quaderno di Alejandra non è stato rinvenuto accanto al cadavere del caporale Lopez», precisò osservandola con attenzione. Negli occhi di lei scorse una luce più simile all'accoramento che alla colpevolezza. «Oh, poveretta. Allora l'aveva già trovato tìa Viviana?» Il sergente trattenne un'esclamazione di sorpresa. Avere nervi saldi era una cosa, ma nominare con quella disinvoltura una criminale omicida era tutta un'altra. Valutò la possibilità che la senorita Fernàndez stesse dicendo la verità. «Tìa Viviana?» ripetè. Lei sorrise, ma rispose con voce rattristata. «Così la chiama Aleja. Non ho mai saputo quale fosse il nome intero, se fosse una consanguinea o se fosse imparentata per matrimonio. È questo il vero motivo per cui Aleja è tanto sconvolta per la perdita del quaderno. Viviana le aveva promesso che sarebbe andata lei a prenderglielo.»
«Cosa!?» sbottò Tejada provando un leggero capogiro.
|